• Non ci sono risultati.

Don Pino Puglisi e l’opera di educazione alla legalità nei contesti mafiosi.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Don Pino Puglisi e l’opera di educazione alla legalità nei contesti mafiosi."

Copied!
149
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

DON PINO PUGLISI

E L’OPERA DI EDUCAZIONE ALLA LEGALITÀ

NEI CONTESTI MAFIOSI

Candidato

Baronti Lucilla

Relatore

Chiar.ma Prof.ssa Lapi Chiara

(2)

2

(3)

3

“Per trovare giustizia, bisogna essere fedeli:

essa, come tutte le divinità,

si manifesta soltanto a chi ci crede”.

(4)

4

Sommario

INTRODUZIONE ... 6

L’OBBEDIENZA E LE REGOLE NELLA RELIGIONE CRISTIANA ... 11

1.1 Il significato di obbedienza e il concetto di “sottomissione” nella religione cristiana cattolica. ... 11

1.2 La “figura” del fedele. ... 15

1.3 La “figura” di laico. ... 16

1.4 I diritti e gli obblighi fondamentali (can. 209). ... 18

1.5 L’obbedienza alla gerarchia (can. 212). ... 20

1.7 L’uomo e la società. ... 23

1.8 Le regole. ... 24

1.9 Etica e Morale. ... 25

1.10 Il Diritto tra “fenomeno” ed “essenza”. ... 27

1.11 Ordinamenti giuridici e Diritto Canonico. ... 29

1.12 Natura del Diritto canonico. ... 30

1.13 Fondazione ‘divina’ del Diritto canonico. ... 32

1.14 Diritto canonico e Rivelazione biblica. ... 33

1.15 Diritto canonico e Nuovo Testamento. ... 35

1.16 I Concili e le altre fonti del Diritto canonico. ... 37

1.17 Per una cultura della legalità nel nostro paese. ... 40

1.18 Le condizioni per un’autentica legalità. ... 41

1.19 L’impegno della Chiesa e dei cristiani. ... 42

1.20 La comunità cristiana per la legalità e la moralità... 43

1.21 Etica della socialità e della solidarietà. ... 43

1.22 La ricerca del bene comune. ... 44

L’OBBEDIENZA E LE REGOLE NON SCRITTE NELL’ “ORDINAMENTO MAFIOSO” ... 45

2.1 Analisi dell’articolo 416 bis c.p. ... 45

2.2 Quando la mafia controlla il sistema. ... 48

2.3 Le regole non scritte, i codici del rispetto, i rituali, le leggende, gli usi e costumi di una criminalità “sempre più organizzata”. ... 53

2.3.1 I codici. ... 54

2.3.2 I rituali. ... 56

2.3.3 Le leggende. ... 58

(5)

5

2.4 Santi romano e l’ordinamento giuridico mafioso. ... 65

2.5 Obbedire o morire, principi di sopravvivenza. ... 72

MAFIA E CHIESA A CONFRONTO ... 76

3. 1 Alle origini di mafia e Chiesa. ... 76

3.2 Mafia e Chiesa: due istituzioni a confronto a partire dalla Bibbia. 87 3.3 Il legame tra giustizia e carità. ... 91

3.3.1 Il concetto cristiano di giustizia. ... 93

UNA TESTIMONIANZA DI VITA: ... 98

PADRE PINO PUGLISI ... 98

4.1 Una vita tra amore, legalità e Vangelo. ... 98

4.2 Il processo di Padre Puglisi e la requisitoria del pm. ... 100

4.3 Padre Puglisi e i “figli del vento”. ... 103

4.4 L’opera di Don Pino Puglisi. ... 105

4.5 Un progetto condiviso. ... 110

4.6 Intervista a Suor Carolina Iavazzo. ... 115

4.7 La Chiesa che combatte le mafie con il Vangelo. ... 118

4.8 Don Panizza, Don Scordato, Don Ciotti. ... 122

4.8.1 Don Cosimo Scordato e l’opera all’Albergheria. ... 122

4.8.2 Don Giacomo Panizza e il “Progetto sud”. ... 125

4.8.3 Don Luigi Ciotti e l’associazione anti-mafia “Libera”... 127

CONCLUSIONI ... 129

(6)

6

INTRODUZIONE

La presente tesi di laurea nasce da una riflessione sul mio futuro lavorativo. La scelta di frequentare la facoltà di giurisprudenza e la fortuna di aver conosciuto e assaporato gli ambienti di una chiesa carismatica nell’oratorio della mia città mi hanno permesso oggi di poter rispondere a questa domanda: “Cosa vuoi fare da grande?”. O meglio: “Chi vuoi essere da grande?”. Al termine di questo percorso universitario e di crescita, oggi la mia risposta è: “Voglio essere un’insegnante di diritto”.

Credo che l’arte di insegnare derivi da un dono più grande, saper educare. L’educazione nasce, invece, dal rispetto per se stessi e per gli altri. L’educazione è un tassello fondamentale nella vita di ognuno e nella nostra società, è la base di tutto. È per questo che ogni insegnante, prima che conoscitore della materia, dovrebbe essere educatore. Insegnare significa avere una grande responsabilità, significa trasmettere un’eredità a qualcuno, affinché la coltivi e ne possa trarre frutto. E’ per questo che è fondamentale farlo con cura e con gli strumenti migliori.

Oggi, con questa tesi di laurea, scritta con impegno e dedizione, vorrei riuscire a conciliare quelli che sono i due libri guida della mia vita: la Costituzione e il Vangelo. Sebbene si tratti di testi dal contenuto troppo profondo se paragonato al mio sapere, li considero necessari come bussole per navigare. Ed è così che immagino la mia vita dietro una cattedra. Sono, prima di tutto, una cittadina di uno stato laico ma anche una laica di religione cattolica. Per questo nell’insegnare cosa significhi giustizia, porrò sempre al centro la parola “carità”.

L’argomento principale di questo elaborato è dimostrare quanto la Chiesa, quel tipo di Chiesa sana e costruttiva di cui porto l’esempio attraverso la testimonianza di Don Pino Puglisi, possa, in determinati contesti sottoposti al controllo mafioso, essere non solo casa che accoglie ma anche e soprattutto famiglia che educa alla legalità e alla

(7)

7

giustizia. A questo scopo, sono partita da un confronto, o meglio da una analisi di cosa si intenda per “obbedienza” del fedele cristiano, del laico; nello specifico, quanto il fedele, che non è sottomesso ad un sistema, ma semplicemente legato ad un amore più grande, si riconosca come soggetto facente parte di un gruppo. Non vi è costrizione, non vi sono legami indissolubili, non vi è sofferenza; ma solo un pieno riconoscimento dell’essere “figli” amati dal Padre.

Mi sono poi dedicata allo studio delle regole, dei testi e dei codici della Chiesa Cattolica, a partire dal diritto sancito nella Bibbia, nell’Antico e principalmente nel Nuovo Testamento, riportando la buona novella che si diffonde con la nascita di Gesù e le norme sancite dal Codice di diritto Canonico, fonte cardine del diritto Canonico.

Il secondo capitolo tratta le caratteristiche di coloro che sono affiliati ai clan mafiosi. Non mi sono fermata ad analizzare solo una tipologia di criminalità organizzata, ma le caratteristiche che accomunano le varie “fazioni” di mafia presenti e riconosciute nel nostro paese. Ho studiato come l’associato entri a far parte del sistema, come avvengono i passaggi ed i rituali; lo stato di sottomissione, di appartenenza forzata, di pressione psicologica. Mi sono poi occupata delle regole non scritte e di quelle scritte, dei codici del rispetto, dei rituali.

Nel terzo capitolo, dopo aver descritto quanto questi due sistemi siano accomunati da molti elementi1, ho spiegato come l’affiliazione avvenga tramite il battesimo, la protezione provenga da San Michele Arcangelo, la benedizione si richieda alla Madonna di Polsi, situata in un santuario alle pendici dell’Aspromonte, che “ogni anno, nei primi giorni di settembre è teatro di nuove affiliazioni e riunioni tra i capi delle principali famiglie”2. È stato quindi necessario fare chiarezza. Sono sì

due ordinamenti giuridici, secondo la tesi di Santi Romano che li riconosce tali per le caratteristiche che li contraddistinguono, ma sono

1 Basti pensare all’ ‘ndrangheta fondata sugli stessi simboli e rituali della Chiesa. 2 FORGIONEF., La ‘ndrangheta spiegata ai turisti, Di Girolamo Editore, Trapani, 2015, pag. 13.

(8)

8

uno agli antipodi dell’altro. Diviene necessario un chiarimento e una distinzione. Perché si differenziano questi ordinamenti?

La Chiesa pone il fedele in una condizione particolare. Questi è sottoposto al rispetto di un unico e grande comandamento, quello dell’amore. La mafia pone l’affiliato in una particolare posizione, lo obbliga al rispetto del comandamento dell’odio.

L’ultimo capitolo riporta la testimonianza attiva e ancora forte di Don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia, mentre si apprestava a far rinascere una comunità o meglio un paese (Brancaccio, in provincia di Palermo) in un contesto mafioso. La sua opera educativa, basata sugli insegnamenti di giustizia e legalità, e tenuta insieme da un amore potente nei confronti di Dio, riuscì in poco tempo ad alleviare quei mali che il controllo criminale aveva scavato nel quartiere e nell’anima dei giovani del posto. Si prese cura di quei bambini e ragazzi “figli del vento” e della strada, sporchi fuori e anche dentro. Sfruttati e usati dagli adulti del paese. La sua opera, degna di una beatificazione, non fu un’attività anti-mafia, ma una ricerca di civiltà e di dignità per coloro che da tempo avevano dimenticato questi concetti. Creò, poi, un luogo di accoglienza, un posto dove poter condividere, studiare, pregare, vivere. Dette l’opportunità di un’istruzione a chi la desiderava e il sogno di un futuro a chi sembrava averlo perso. Coltivò un “seme” di legalità nel cuore di quei ragazzi che sembravano averlo fatto “appassire”. Fu un respiro di speranza per un intero paese.

L’obiettivo di questo elaborato è stato, quindi, parlare della sana Chiesa, quella fatta di uomini da altare e da strada, quella fatta di missioni da adempiere per realizzare un bene più grande; una Chiesa che guida, accoglie, accompagna senza giudicare. Una Chiesa presente dove il marcio conquista, dove il male dilaga. Una Chiesa che non lascia indietro i più deboli, che non giustifica il male per paura. Una Chiesa di esempio. Una Chiesa di cui il fedele possa andar fiero ed esserne testimone.

(9)

9

E’ nelle parole di Don Gallo, un sacerdote dalle vedute molto aperte, che possiamo parlare di una Chiesa vicina ai bisogni dell’uomo: “Ma tu di che razza sei?”. Rispose Don Gallo sorridendo: “umana!”. Io sono un prete, sono un cattolico ma prima di tutto, come ogni mio fratello e sorella, appartengo alla razza umana. E da uomo, sono responsabile, siamo tutti responsabili del nostro paese, della nostra casa. Stiamo parlando della devastazione del costume sociale e dell’etica pubblica del nostro paese. Non possiamo non essere interessati. Le mie bussole sono due: come un essere dotato di una coscienza civile: la Costituzione. Poi, come cristiano la mia bussola è il Vangelo”. Io credo che il cattolico, il cristiano, ma in generale, i credenti debbano testimoniare la loro fede nella vita sociale e politica ispirandosi alla parola di Gesù e che la Chiesa debba abbandonare le logiche ecclesiastiche della ricerca di privilegi. Solo così inizieremo veramente ad applicare i principi del Concilio Vaticano II”3.

Anche Don Giacomo Panizza, in queste poche righe, riassume quello che è l’impegno di ogni cittadino-cristiano:

“Ho potuto condurre azioni sociali e imbastire percorsi educativi anche con giovani che non credevano di imparare, cambiare e crescere. Si devono collaudare buoni espedienti per tenersi alla larga da pensieri di rassegnazione, ho re-immaginato scelte liberanti e messo in atto strategie per non farsi imbrigliare in rapporti clientelari e mafiosi.”4 C’è

un nesso inscindibile tra legalità e educazione, è impossibile pensare in un paese maturo di potenziare la legalità e al contempo indebolire l’educazione. In Italia la legalità non ha assunto compiutamente il peso che le spetta. Ci si trova in una situazione facilmente rappresentata nella frase di Corrado Alvaro “che affermava che la disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile”. Nella recente storia del Mezzogiorno

3 DONGALLOA., Di sana e robusta costituzione, Aliberti, Reggio Emilia, 2011. 4 DON PANIZZA G., Cattivi Maestri, Dehoniane, Bologna, 2017.

(10)

10

incontriamo coraggiose iniziative dedite ad educare alla legalità. Sono costrette a fare i conti con la forza antagonista del contesto mafioso e di una mentalità sottomessa”.

Alla fine di questo mio studio, credo infine, che si possa sperare in una generazione migliore della nostra, credo che i giovani, se accompagnati e guidati da educatori con valori e sani principi possano essere persone rispettabili; credo in una Chiesa migliore vicina agli uomini, credo nella educazione alla legalità a partire dalla scuola, dal catechismo, dalla strada, credo nella giustizia e nelle opere senza secondi fini. Credo infine che si possa essere “buoni cristiani e di conseguenza onesti cittadini”5. Se lo si vuole, si può fare molto, con poco.

5Cfr.BOSCOG., La storia d’Italia raccontata alla gioventù dai suoi primi abitatori sino ai nostri giorni, Tipografia e Libreria Salesiana, Torino, 1888.

(11)

11

Capitolo 1

L’OBBEDIENZA E LE REGOLE NELLA

RELIGIONE CRISTIANA

Sommario: 1. 1 Il significato di obbedienza e il concetto di

“sottomissione” nella religione cristiana cattolica. 1.2 La figura del “fedele”. 1.3 La “figura di laico”. 1.4 I diritti e gli obblighi fondamentali (can. 209). 1.5 L’obbedienza alla gerarchia (can. 212). 1.6 L’educazione cristiana (can. 217). 1.7 L’uomo e la società. 1.8 Le regole. 1.9 Etica e Morale. 1.10 Il Diritto tra “fenomeno” ed “essenza”. 1.11 Ordinamenti giuridici e Diritto Canonico. 1.12 Fondazione ‘divina’ del Diritto canonico. 1.13 Diritto canonico e Rivelazione biblica. 1.14 Diritto canonico e Nuovo Testamento. 1.15 I Concili e le altre fonti del Diritto canonico. 1.16 Per una cultura della legalità nel nostro paese. 1.17 Le condizioni per un’autentica legalità. 1.18 L’impegno della Chiesa e dei cristiani. 1.19 L’ impegno della Chiesa e dei cristiani. 1.20 La comunità cristiana per la legalità e la moralità. 1.21 L’etica della socialità e della solidarietà. 1.22 La ricerca del bene comune.

1.1 Il significato di obbedienza e il concetto di “sottomissione” nella religione cristiana cattolica.

Il Libro II, dell’attuale Codice di diritto Canonico intitolato “Il Popolo di Dio”6, che costa di 343 canoni, è suddiviso in tre Parti: I Fedeli7 (can.

204-329); La Costituzione Gerarchica della Chiesa8 (can. 330-572); e Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica 9(can.

573-746). Questo libro risulta essere, senza alcun dubbio, il tentativo più riuscito allo scopo di tradurre il linguaggio canonistico. La Chiesa, come è stata concepita e voluta da Gesù, non è soltanto una società (can.

6 In questi paragrafi inerenti il Diritto Canonico riprendo le considerazioni sviluppate dal prof. Jeorge Horta, nella dispensa disponibile nel sito http://www.antonianumroma.org/public/pua/dispense/Dispensa%20Curso.pdf 7 Can. 204-329.

8 Can. 330-572. 9 Can. 573-746.

(12)

12

204), ma è soprattutto comunione «…segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».

Per effettuare un’analisi esauriente del significato del termine obbedienza e “sottomissione” del fedele in ambito religioso è necessario capire a cosa ci si riferisca con i termini “fedele”, “popolo di Dio” e “laico”. Sono state molte le questioni dalle quali si rileva una corrispondenza tra Codice Canonico e Concili nella trattazione della materia riguardante il popolo di Dio. L’ecclesiologia che si può dedurre dal Codice di Diritto Canonico del 1917 è quella che si era delineata dopo i primi secoli della Chiesa, che aveva avuto il suo sviluppo nel medioevo e la sua consacrazione nel Concilio Tridentino: una Chiesa piramidale e rigidamente stratificata, una società disuguale, nella quale si distingueva nettamente un popolo-guida da un popolo-guidato. In tale prospettiva svolgeva un ruolo determinante il principio gerarchico. Alla base del Codice di Diritto Canonico del 1983, invece, si trova la concezione della Chiesa-comunione, come emerge dall’insegnamento del Concilio Vaticano II. Questa concezione, pur mantenendo fermo il principio della costituzione gerarchica della Chiesa, mette in luce l’uguaglianza fondamentale e la comune dignità, su cui si innestano le diverse funzioni di ciascuno in forza della specifica vocazione. Partendo perciò dalla considerazione della Chiesa come popolo di Dio, il Libro II inizia trattando della condizione comune a tutti, che è quella di fedeli, per passare poi a parlare della costituzione gerarchica della Chiesa e degli Istituti di vita consacrata. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, che trova dei precisi riscontri nel modo con cui sono formulati gli obblighi e i diritti di tutti i fedeli.

Ma cosa si intende per popolo di Dio?

La nozione di popolo di Dio, valorizzando la singolarità e l’impegno di tutti i fedeli nella Chiesa, mette in evidenza il valore della comunità. È all’interno di questa dimensione comunitaria che il diritto trova la giustificazione della sua esistenza e funzione nella Chiesa. In questa

(13)

13

prospettiva, la normativa canonica cercherà di prendere in considerazione l’agire e la dignità d’ogni fedele in relazione con la comunità. Con la nozione di popolo di Dio, il Legislatore vuole indicare che la socialità della Chiesa non è frutto del compromesso storico puramente umano ma di una partecipazione comune alla vita “divina” di tutti i battezzati che sono chiamati a costituire una comunità sacra e strutturale. Nella dottrina del Concilio Vaticano I, la Chiesa era rappresentata come una società perfetta, autonoma e superiore rispetto allo Stato. Questa visione di Chiesa molto limitata venne ad essere sostituita dal Concilio Vaticano II, cambiamento che verrà riscontrato anche nel nuovo Codice di diritto Canonico del 1983. Dopo tale Concilio l’idea di Chiesa come comunione costituita da fedeli cristiani, cioè di battezzati con diritti e doveri nella Chiesa, giuridicamente vincolati al suo ordinamento, prende il sopravvento su un’idea di Chiesa suddivisa nettamente tra quelli che sono i chierici, che hanno la potestà d’ordine e i laici, che ne sono privi.

Si stravolge l’idea del laico come soggetto inferiore nella gerarchia della Chiesa e per tale motivo non necessario a creare quell’idea di comunione. Il laico, diviene quindi parte necessaria della realtà ecclesiale. E’ colui che non pretende la “vestizione” ma si identifica nel popolo di Dio con il battesimo, come recita il canone 96 secondo il quale «Mediante il battesimo l’uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, in quanto sono in comunione ecclesiastica e purché non si frapponga una sanzione legittimamente inflitta».

Per Eugenio Corecco, vescovo e consultore della commissione per l’interpretazione del nuovo codice di diritto canonico, la considerazione delle relazioni persone-comunità, nella dinamica ecclesiale, è posta in termini non di una persona privata alle prese con le istituzioni, come nel diritto civile ma si tratta di un rapporto istituzionale; perché tutti i fedeli

(14)

14

appartengono alla Chiesa e la rappresentano in modo diverso. Il principio della comunione, dunque, è azione di tutta la Chiesa10. La definizione di laico diviene quindi identica a quella di fedele.

«Col nome di laici s’intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, e nella loro misura, resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cri-stiano».

Essi vivono nel secolo, cioè implicati in impieghi, affari e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ai laici non spetta la sola sfera secolare ma anche quella spirituale e strettamente ecclesiale; infatti, loro compiono la missione di tutto il popolo cristiano non solo nel mondo (extra Chiesa), ma, e in modo prevalente, nella Chiesa; perciò sono chiamati a collaborare nei vari tipi d’apostolato, sebbene l’impegno della secolarità è una caratteristica peculiare e propria della vita dei fedeli laici. I fedeli, dunque, sono stati chiamati ad esercitare la missione che Dio ha affidato alla Chiesa: non sono quindi considerati in maniera statica, come “persone” semplicemente, soggetti di diritti e di doveri, ma in maniera dinamica, guardando alla missione che devono compiere («secondo la condizione propria di ciascuno»), essendo resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo11. Secondo lo studioso Hervada, quattro sono gli aspetti o elementi che possono essere considerati come integranti della condizione costituzionale del fedele: a) La condicio communionis sono i rapporti di comunione e solidarietà del Popolo di Dio; b) La condicio libertatis, cioè la sfera d’autonomia nella quale il fedele tende ai fini che gli sono propri secondo la sua

10 Cfr. CIC can. 209 e 223. 11 Cfr. can. 204.

(15)

15

personale e piena responsabilità; c) La condicio subiectionis o condizione di legame all’ordine del Popolo di Dio, e d) La condicio activa o condizione di membro del Popolo di Dio chiamato a partecipare attivamente nella sua vita o nella sua azione12.

1.2 La “figura” del fedele.

La nozione di christifidelis, quindi di fedele, coincide con quella di persona, alla quale si riferisce il can. 9613. Si tratta dell’uomo battezzato

nella Chiesa. Non c’è distinzione tra l’essere persona nella Chiesa ed essere fedele. I diritti e doveri dei cristiani sono propri della persona battezzata e non sono altro che i diritti e doveri dei fedeli.

Il fedele è membro del Popolo di Dio, chiamato ad attuare, secondo la propria condizione, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo. Partendo da questa realtà, tutti i fedeli sono ontologicamente uguali, e hanno i medesimi diritti e doveri fondamentali (elencati poi nei canoni 208-223.) «…secondo la condizione propria di ciascuno…». Le condizioni giuridiche soggettive non sono contrarie all’uguaglianza fondamentale. Ciascuno è un fedele unico e irrepetibile, che vive nella propria condizione alla quale è stato chiamato. Allora, le circostanze che determinano la condizione giuridica soggettiva che corrisponde alla condizione canonica del fedele possono essere molto varie, ad esempio: a) Proprie della diversità funzionale: il celibato per i chierici; b) Altre: l’età, il domicilio, la parentela, il rito ecc. Ma esiste solo un genere di cristiano: il fedele. L’idea di fedele coincide adesso, dopo decenni di revisioni del termine “laico”, con quello di “fedele”. Ma vediamo nel dettaglio l’iter che oggi ha portato ad affermare questo.

12 Cfr. HERVADA J., Elementos de Derecho Constitucional Canonico, EUNSA, Pamplona, 2001.

13 Can. 96 “Mediante il battesimo l'uomo è incorporato alla Chiesa di Cristo e in essa è costituito persona, con i doveri e i diritti che ai cristiani, tenuta presente la loro condizione, sono propri, in quanto sono nella comunione ecclesiastica e purché non si frapponga una sanzione legittimamente inflitta”.

(16)

16

1.3 La “figura” di laico.

Nella Chiesa, dai primi secoli fino al medioevo veniva chiamato laico il membro del popolo di Dio che non è chierico, colui che agisce pienamente nelle realtà profane14, ma che, nella vita della Chiesa, ha

una partecipazione attiva: “predicavano la parola di Dio, distribuivano l’eucaristia in caso di necessità, partecipavano all’elezione del vescovo”15. Sarà, ancor di più, nel corso della storia, quando la Chiesa

si unirà all’impero e con la nascita del monachesimo, che il laico pian piano sarà relegato verso un posto secondario e passivo, fino ad arrivare alla perdita del senso e del valore ecclesiale nel medioevo. Sarà, poi, il Decreto di Graziano (1140) a distinguere i due tipi di cristiani: il primo composto dai chierici e monaci; il secondo dai laici. Al primo gruppo corrisponderebbe una più intensa vita cristiana: i tempi dell’orazione e della contemplazione, la povertà e la solitudine. Al secondo gruppo (laici) veniva permesso il possesso dei beni temporali e il contrarre matrimonio.

Un’altra testimonianza dell’opposizione tra chierici e laici, ancora più radicale venne sancita dalla Bolla di papa Bonifacio VIII16, dove l’atteggiamento di certi laici che cercavano di esercitare il loro dominio sui chierici, porta come conseguenza la ancora più radicale chiusura da parte della gerarchia ecclesiastica. I laici, secondo questa Bolla, erano nemici dei chierici.

La situazione tende ad aggravarsi maggiormente di fronte alle nuove dottrine protestanti che questionano il sacramento dell’ordine e, per questo stesso motivo, la specificità dello stato clericale.

Nel corso della storia, i laici rimarranno sempre un passo dietro e saranno definiti in opposizione al clero, poiché privi di voti clericali. I

14 NAVARROL., Persone e soggetti nel diritto della Chiesa, Edusc, Roma. 2000, pag. 102.

15 Ibidem.

(17)

17

chierici saranno sempre un corpo chiamato ad insegnare, i laici ad ascoltare e imparare; i chierici a governare e i laici ad essere governati. L’assenza di un fondamento giuridico comune, come oggi lo è il “christifidelis”, fa più forte quest’opposizione all’interno della Chiesa. Nel secolo XIX, quando le trasformazioni sociali si fanno stabili, la visione della Chiesa ha le note con cui si è formata a partire della società medievale.

Per il codice del 1917, laico è quel battezzato che non è chierico né religioso, senza un’ulteriore distinzione; è una condizione cristiana inferiore: è suddito17. Il codice è molto scarso nella legislazione riferita ai laici: il can. 682 indica che i laici hanno diritto a ricevere gli aiuti necessari per raggiungere la salvezza (ma appartiene a tutti i membri, non soltanto ai laici); il can. 683 vieta ai laici l’uso dell’abito ecclesiastico. Negli anni posteriori al codice, forse a causa dei cambi sociali del secolo XX, il laicato comincia ad essere ricuperato, sia nella pratica che nella teoria, riconoscendogli un luogo nel quale deve assumere la missione della Chiesa: rendere testimonianza della loro fede nel campo temporale18. Si sviluppa una teologia che cerca di rilevare il valore della vocazione secolare e la sua peculiarità nei confronti dei chierici e religiosi.

Sarà il Concilio Vaticano II che accoglierà questa tendenza e riconoscerà l’importanza dei laici e della sua partecipazione nella comunità ecclesiale, assegnandogli un ruolo attivo e proprio al servizio della comunità tutta. Il Concilio intende per laici i fedeli che, dopo essere stati incorporati a Cristo per il battesimo, adempiono nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano, il cui carattere è, in modo proprio, la secolarità19. Come conclude Navarro,

17 Cfr. ARRIETAJ.L., Fondamenti della posizione giuridica attiva dei laici nel diritto della Chiesa, in AA. VV., I laici nel Diritto della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1987, pag. 51.

18 Cfr.MONTANA., I laici nel diritto della Chiesa. Presupposti ecclesiologici e profilo giuridico, pag. 473.

(18)

18

«Dopo il Concilio, il laico può essere un membro della Chiesa, un fedele comune, anche egli chiamato alla santità, che partecipa alla sua missione, ed è dunque corresponsabile nell’edificazione della Chiesa». Ma quali sono dunque i diritti e i doveri dei fedeli cristiani?

Dopo il Concilio Vaticano II fu avanzata la proposta di redigere una Lex Ecclesiae Fundamentalis, un testo supremo di riferimento, una “super legge”, cioè una sorta di carta costituzionale della Chiesa. Il Codice Pio benedettino conteneva delle affermazioni di diritto e pur avendo una sorta di elenchi di diritti e doveri per Vescovi, sacerdoti e religiosi, non conteneva dei veri e propri “cataloghi di diritti”. Fu dunque istituita una Commissione che studiò e lavorò fino al 1978, elaborando diversi canoni sui diritti e doveri dei fedeli chierici e laici. Sorsero però alcuni problemi: non tutti erano convinti dell’esistenza di una “Carta Costituzionale” della Chiesa e poi quali era-no i “diritti” che dovevano essere inseriti? Ci sono doveri che non valgono soltanto per i “fedeli”, ma per tutti gli uomini. Si formarono così due diverse correnti, una favorevole e l’altra contraria all’elaborazione di questa “Lex Fundamentalis”. I lavori in ogni modo proseguirono e furono elaborati circa 70 canoni. Nel 1978 il progetto fu accantonato: papa Paolo VI era morto ed erano venuti meno anche alcuni elementi di spicco della corrente favorevole. Il nuovo Codice del 1983, però, non gettò via il lavoro fatto dalla commissione ed incorporò i canoni da essa elaborati nel libro II.

1.4 I diritti e gli obblighi fondamentali (can. 209).

Dopo il Concilio Vaticano II nacque un’ampia discussione, tra teologi e canonisti, circa il valore e significato dei diritti e doveri fondamentali dei fedeli. I diritti dei fedeli non sono da confondere con i diritti umani, ai quali il magistero pontificio più recente dedica tanta attenzione. Non si fondano direttamente, in modo immediato ed esclusivo nella natura umana, ma derivano dall’incorporazione al popolo di Dio. I diritti specifici dei cristiani non sono preesistenti alla Chiesa, ma conferiti

(19)

19

dalla stessa mediante il battesimo e gli altri sacramenti. Scopo della Chiesa, dunque, non è garantire la realizzazione dei diritti individuali, ma assicurare permanenza del mistero di Cristo nella storia e lavorare per la salvezza delle anime. E’ bene precisare che in diritto costituzionale s’intende per doveri e diritti fondamentali quelli ne derivano immediatamente e direttamente della costituzione della Chiesa, in quanto diritto positivo, costituendo ambiti di responsabilità e libertà del fedele dai quali sgorgano effetti sociali e giuridici nel confronto con il Popolo di Dio. Questi diritti e doveri sono universali e perpetui20. Il Codice è consapevole della doppia “cittadinanza” dei fedeli laici, quindi offre una possibilità di fare compatibili ambedue realtà, quella civile e quell’ecclesiale («È diritto dei fedeli laici che venga loro riconosciuta nella realtà della città terrena quella libertà che compete ad ogni cittadino…»)21. Sono soggetti ai doveri fondamentali

tutti ed ognuno dei fedeli, qualsiasi la loro condizione o funzione nel Popolo di Dio. Ugualmente ciascuno ed ognuno dei fedeli è titolare dei diritti fondamentali. Appartengono, infatti, al piano dell’uguaglianza fondamentale che precede qualsiasi differenziazione, essendo, quindi, comuni a tutti i fedeli e anteriori ad altri diritti o doveri che si possono avere per la condizione o funzione sociale che si abbia22. Sono perpetui, in quanto la condizione di battezzato è perpetua; sono dei diritti irrinunciabili, derivanti della volontà fondazionale di Cristo. I diritti fondamentali, quindi, hanno il loro fondamento nella costituzione della Chiesa stessa, quindi, si fondano nei principi di diritto divino esplicitati in norme giuridiche e positive. In questo senso, l’esercizio di questi diritti da parte del fedele non si riduce ad un’azione individualista o non solidaria, ma situano ad ogni fedele in una dimensione attiva all’interno della comunità cristiana con una grande responsabilità sociale. Nella comunità ecclesiale, qualunque posizione soggettiva va riconosciuta e

20 Op.cit. HERVADA J., pag.97. 21 Op.cit. HERVADA J., pag.135. 22 Op.cit. HERVADA J., pagg.107-111.

(20)

20

tutelata poiché diretta al raggiungimento del fine proprio ed esclusivo della Chiesa. Il primo obbligo di tutti i fedeli consiste nel conservare sempre, e in ogni manifestazione della sua vita, sia questa privata, familiare o sociale, una comunione con la Chiesa universale e particolare, nonché con la comunità parrocchiale alla quale il fedele appartiene. Vivere nella comunione non è uno tra tanti diritti e doveri che spettano ai battezzati, ma costituisce l’unico diritto-dovere veramente fondamentale perché riassume, sintetizza e qualifica tutti gli altri.

Il fedele cristiano non ha libertà di coscienza nel senso che la comunità non possa domandargli, come condizione della sua appartenenza, un comportamento confessionale vincolante; ma ha diritto che nei suoi confronti la Chiesa non eserciti alcuna forma di costrizione usando mezzi che per loro natura sono estranei al proprio ordinamento giuridico. Particolarmente rilevante a questo proposito è l’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II “Christifidelis laici”, circa la vocazione e la missione dei fedeli laici nella Chiesa. La funzione della gerarchia rispetto l’apostolato dei laici consiste nel sostenerlo, nel prestare i sussidi spirituali, ordinare lo sviluppo dell’apostolato al bene comune della Chiesa e vigilare affinché s’adempiano la dottrina e l’ordine.

1.5 L’obbedienza alla gerarchia (can. 212).

L’obbedienza ai pastori, in quanto dovere, appartiene agli elementi originari propri del messaggio biblico, insieme al dovere di far crescere spiritualmente la Chiesa (can. 210), collaborando alla diffusione del messaggio cristiano (can. 211), il diritto e dovere di esternare ai pastori e agli altri fedeli la propria opinione (can. 212 §3), il diritto di ricevere la parola e i sacramenti (can. 213), il diritto alla propria spiritualità e al proprio rito (can. 214), il diritto d’associazione (can. 215), il dovere-diritto all’apostolato (can. 216); il dovere-dovere-diritto alla formazione religioso-teologica (can. 217), il diritto alla libertà d’insegnamento (can. 218).

(21)

21

Il primo paragrafo del canone 212, stabilisce nell’ambito del legittimo esercizio delle funzioni di insegnamento e di governo affidate da Cristo. Questo assicura la direzione e la guida della comunità, ed è realizzata in molteplici modi che vanno dall’esortazione e al buon esempio. E’ una potestà legislativa, esecutiva e giudiziaria. In questi tre elementi si esprime una sola ed identica potestà, giacché il Papa e i vescovi sono titolari di questi poteri che secondo la religione cristiana Gesù ha congiuntamente attribuito agli apostoli e ai loro successori. La costituzione della Chiesa si rivela incompatibile con la teoria di divisione dei poteri tipica di Montesquieu. L’obbedienza ai pastori, giacché maestri della fede, non è solo dovere morale ma anche giuridico, se l’insegnamento avviene nel rispetto di tutte le condizioni sostanziali richieste dal diritto e circa le materie specificamente indicate. L’obbedienza è qualificata come cristiana; essa si riferisce perciò non soltanto ai contenuti del comando, ma anche al modo di soddisfacimento degli obblighi di legge, alla diligenza richiesta nell’orizzonte cristiano. Una sorta di obbedienza che trova le sue radici nel rapporto: figlio-Padre.

La norma è giuridicamente vincolante solo quando il comando dell’autorità è coerente ai valori fondamentali dell’Ordinamento della Chiesa o, più in generale, alle esigenze della comunione che caratterizza il cattolicesimo. Il Legislatore, però, sancisce il diritto di petizione, vale a dire il diritto di adire alla competente autorità per introdurre richieste, chiedere provvedimenti su questioni d’interesse personale e comunitario, specialmente d’ordine spirituale. E l’autorità ha il dovere di prendere in considerazione le domande, senza che questo comporti necessariamente l’obbligo di concedere quanto è richiesto dei fedeli. Si è stabilito, poi, il diritto alla libertà di pensiero, il cui esercizio è tuttavia sottoposto a condizioni rigorose: deve essere secondo il grado di scienza, competenza e prestigio dei singoli fedeli; non può infrangere l’integrità della fede e dei costumi; sono soggetti al rispetto dell’autorità

(22)

22

dei pastori; deve essere orientato al rispetto della dignità delle persone e all’utilità comune23.

1.6 L’educazione cristiana (can. 217).

Per condurre una vita cristiana, il fedele deve ricevere un’adeguata formazione, che ne sviluppi fino alla maturità la personalità sia sul piano umano sia su quello spirituale. Appartiene, dunque, alla categoria dei doveri-diritti dei cristiani. Il canone 217 evidenzia il diritto a ricevere quella formazione di base, necessaria a compiere il cammino di fede conforme alle esigenze del Vangelo, ma anche apre la possibilità di poter compiere studi superiori e conseguire gradi accademici in discipline sacre.

Il dovere-diritto all’educazione cristiana, è il presupposto che si trova alla base del dovere-diritto di ricevere la parola e i sacramenti; dovere di acquisire una dottrina cristiana (can. 229) e il dovere di sopperire alle necessità materiali della Chiesa (can. 222). Il munus docendi, al quale è consacrato il Libro III del Codice, parlando sull’educazione cattolica, ribadisce che la vera educazione persegue la formazione integrale della persona, tende a sviluppare le doti fisiche, morali e intellettuali, a far acquisire un senso di responsabilità e il giusto uso della libertà. Questo, dunque, anche se è indicato nel canone come un diritto, è allo stesso tempo un obbligo diretto alla missione che ogni fedele ha di svolgere all’interno della comunità ecclesiastica: “chiamati a condurre una vita conforme alla dottrina evangelica…”.

Si deve rilevare che il diritto all’educazione cristiana, in mancanza di un’esplicita delimitazione al solo ambito canonico, deve intendersi riconosciuto anche negli ordinamenti statali, come espressione del più generale diritto alla libertà religiosa.

(23)

23

1.7 L’uomo e la società.

Per parlare di regole è sempre necessario prima introdurre i destinatari delle regole, cioè l’uomo e la società. Il ricorso alla società è necessario per esigenze antropologiche e teologiche: l’uomo che Dio ha creato non è fatto per stare da solo (Gen. 2, 18). L’uomo per sua natura, si rapporta con altri uomini, comunica con loro, si unisce a loro e socializza. Si passa così dall’individuo al gruppo, alla comunità e infine alla società. È in questa dimensione che la persona intesa come essere umano riesce a manifestare la maggior parte delle proprie potenzialità relazionali ed a definirle intorno a sé per sentirsi tutelato davanti alle nuove scoperte e ai rapporti umani. Si evidenziano così ruoli, funzioni, strutture del vivere sociale24. È Konig, studioso di storia delle religioni, nei primi anni del ‘900, ad affermare che: «la società è la somma di esseri viventi che tra loro hanno forme di relazioni sociali, giuridiche, economiche, familiari, culturali ed esistenziali. È dalla storia e dalla ricerca sociologica che è emerso che ogni tipo di gruppo umano nel tempo tende a darsi delle articolazioni organizzative che risultano poi importanti per l’identificazione e la sopravvivenza del gruppo stesso; si tratta del processo di istituzionalizzazione25. La considerazione della Chiesa come società ha delle conseguenze fondamentali:

a) Carattere d’istituzione, realtà che deriva dalla volontà del divino fondatore e che è caratterizzata dalla permanenza, trascendenza, indipendenza delle persone che la formano.

b) La struttura come corpo sociale, organico, unitario che non è la semplice somma delle sue parti, ma un’entità propria e indipendente dei suoi membri. Essendo istituzione, la Chiesa ha funzioni che non derivano dal Popolo di Dio ma direttamente da Cristo: Romano Pontefice e i vescovi in comunione con lui. Senza venire contro

24 DE SIMONE G., Lezioni di sociologia generale e sociologia giuridica, Sessa, Salerno, 1996, pag.37.

(24)

24

l’uguaglianza fondamentale, la Chiesa è caratterizzata dalla diversità funzionale.

In quest’ottica, la maggior parte delle istituzioni si sviluppano a partire dai ‘costumi’ (mores). I costumi sono modelli comportamentali primordiali; questi comportamenti sociali primordiali diventano prassi, uso o costume di un popolo, accettati dai più, con una forte caratterizzazione etnico-sociale che, col proprio affermarsi e consolidarsi in comportamenti condivisi induce l’esigenza di un’ulteriore caratterizzazione etica (comportamenti dovuti). Questa tappa storico-sociale in cui il comportamento diventa socialmente ed eticamente sanzionabile (quindi esigibile con la forza) rappresenta i ‘mores’26. I mores sono usanze che resistono per generazioni; sono

considerati essenziali per la sopravvivenza del gruppo. Si trasformano in Diritto, cioè in un complesso organico di norme giuridiche. Così le regole e gli atti si vanno a costituire, si forma una struttura di ruoli che dà la percezione completa di una istituzione.

Si giunge così all’introduzione del momento normativo vero e proprio con la trasformazione della sanzione etica in giuridica e la stessa istituzione sociale diventa istituzione giuridica.

Il ‘processo’ da considerare è quello della ‘socializzazione’ attraverso cui un soggetto apprende ed interiorizza un insieme di ‘codici’ che gli permettono di attribuire significati ai comportamenti istituzionalizzati che si tengono all’interno del gruppo cui appartiene, o desidera appartenere.

1.8 Le regole.

Possiamo affermare che il gruppo istituzionalizzato funziona, quando si creano delle ‘regole’. La regola in tal modo, spiegando sia il significato del comportamento e sia la reazione sociale ad esso correlata, non può rimanere indifferente alla propria trasgressione. E’

(25)

25

così che si riconosce la sanzione come “conseguenza” della regola violata. Ma qual è il ‘funzionamento’ della sanzione stessa? Distinguendo subito tra le sanzioni comminate dagli uomini e quelle derivanti automaticamente dalla natura delle cose, è facile individuare due macrocategorie di regole: quelle “tecniche” e quelle “comportamentali”. Le regole tecniche “contengono” una propria dimensione conoscitiva, la cui ottemperanza risulta decisiva in funzione del raggiungimento del risultato desiderato; in tal caso la trasgressione della regola tecnica va identificata con un comportamento scorretto e la sua causa è generalmente erronea e non volontaria. Le regole “comportamentali”, invece, appartengono all’ambito relazionale e trovano la propria sanzione in riferimento nell’ambito della Morale, del Diritto, del costume, degli statuti, dei regolamenti, delle convenzioni… La polivalenza del termine “regola” prelude alla necessità, di chiarire sempre preventivamente il significato da attribuirsi ai termini che si utilizzano quando si articoli qualunque discorso pertinente l’ambito “regolamentare”; in particolare è necessario prendere atto delle specificazioni che successivamente intervengono quando dal primo livello regolamentare (le regole in generale) ci si muova verso livelli più specifici : al concetto di comportamento “corrisponde” quello di relazioni interpersonali, quello di sanzione; al concetto di normatività ‘corrisponde’ quello di esigibile dall’esterno; al concetto di giuridicità ‘corrisponde’ quello di rapporto di giustizia (esterno e separabile).

1.9 Etica e Morale.

Quando si parla di etica e di morale, si analizzano due discipline comportamentali normative. Analizzando la questione in proposito si attribuisce all’Etica la competenza sui presupposti del “dover essere-agire” da parte dell’uomo e sulle condizioni strutturali del suo “poter essere-agire”; allo stesso tempo la Morale indaga non tanto la “praticità” della condotta umana quanto i suoi valori, in tal modo all’interno del pensiero cristiano alla base della Morale si trova la

(26)

26

Rivelazione divina contenuta nella Sacra Scrittura e la Morale diventa “Teologia morale” riassumendo in sé entrambi gli aspetti27. Così

un’analisi più profonda, inquadra:

1) L’Etica (da èthos), che ha per oggetto l’attività umana considerata in se stessa e nel suo valore intrinseco: come agire e non come fare; è la ricerca del criterio, o dei criteri per valutare le azioni umane28. L’Etica studia l’attività umana con riferimento al suo fine ultimo, che è la piena realizzazione dell’umanità; il problema etico assume così due aspetti principali: a) il fondamento delle norme, b) le condizioni che ne rendono possibile l’osservanza. Sul primo punto si indaga circa il fondamento ed il valore dei codici, dei principi, delle leggi, delle norme e delle persuasioni morali esistenti; dall’altra parte si studiano le condizioni che rendono possibile l’azione morale in assoluto: il criterio di ciò che è morale o immorale nell’uomo.

2) Per Morale (da mos, moris = i ‘costumi’, i comportamenti necessari all’interno del gruppo), si intende di ciò che è conforme al “costume” approvato dalla prassi generale e come tale è riconosciuto conforme al “dover essere”29. «Il “luogo” della morale è il rapporto tra individuo e

società»30; è la scienza delle disposizioni interne e personali dell’uomo in rapporto con le loro espressioni esterne e sociali31. È ‘compito’ della Morale individuare e mediare i valori attraverso specifiche norme (morali) che i diversi soggetti possano mettere in atto all’interno del gruppo d’appartenenza ricevendone la dovuta approvazione sociale.

27 RICHA., Etica economica, Queriniana, Brescia, 1993, pag.13.

28 VANNI-ROVIGHIS., Etica, in Enciclopedia Cattolica, Città del Vaticano, 1950. 29 BATTAGLIAF., Morale, in Enciclopedia filosofica, G.C. Sansoni Editore, Firenze, 1967.

30 VENDRAMEG., Il problema morale oggi, in GOFFI T.-PIANA G., Corso di morale, I, Brescia, 1989, pag. 22.

31 Cfr. HONINGS B., Morale, in ANCILLI E., Dizionario enciclopedico di spiritualità, Città Nuova, Roma, 1990.

(27)

27

1.10 Il Diritto tra “fenomeno” ed “essenza”.

Per individuare il Diritto non basta il riferimento alla normatività sociale ma occorre evidenziare un ‘elemento’ ulteriore di grande portata nella concretezza dei rapporti umani: il “rapporto di giustizia”. Questo “rapporto di giustizia” costituisce un elemento primario nell’esperienza relazionale umana, un elemento così basilare per la persona stessa da ‘filtrare’ ogni relazione, anche quella con la divinità, che viene specificamente individuata come primo referente e garante proprio della ‘giustizia’. Il ‘rapporto di giustizia’ appare capace di innervare dall’interno i rapporti sociali trasformando un ordinamento sociale già istituzionalizzato in un ordinamento giuridico. La Giustizia non è ‘interna’ all’Ordinamento giuridico ma i ‘rapporti di giustizia’ lo devono essere; fondamento di questi ‘rapporti di giustizia’ è la “reciprocità relazionale” la garanzia, cioè, per ogni soggetto di essere trattato per ciò che è in quanto ‘soggetto’, uomo.

Quando si parla di Diritto, soprattutto in ambiente religioso, è importante evitare di confondere il dato “normativo” col “giuridico”; l’ambiente “religioso” infatti si avvicina facilmente a dare del normativo una visione etica, “sacrale”, facendone una espressione “divina”, un “valore”. Occorre non dimenticare invece, come già sin qui illustrato, che il Diritto è prima di tutto un fenomeno umano32, una delle “esperienze primordiali” di umanità, insieme alla religione. E’ questo l’ambito delle c.d. “religioni naturali” dove sociologia, etnologia, antropologia e mitologia (religiosa) si stratificano ed il Diritto evolve in una progressiva “laicizzazione”, come ben dimostra il vissuto giuridico romano. Si tratta certamente di una fase molto remota che non è ancora possibile chiamare “giuridica” in quanto non esiste una struttura deputata alla gestione del Diritto ma soltanto la possibilità di chiedere parere, seppur autorevolmente mediato, alla divinità; l’esperienza biblica conferma questo stato di cose. La volontà di Dio,

32 GHERRI P., Categorialità e trascendentalità del Diritto, Lateran University Press, Città del Vaticano, 2007.

(28)

28

per natura propria, va ben al di là della sua espressione linguistica è qualcosa di trascendente che solo parzialmente può farsi Diritto per la vita quotidiana di una compagine sociale. Esistono infatti, una pluralità di “Diritti”, o meglio, una pluralità di “Ordinamenti giuridici” i quali concretizzano ciascuno un “proprio Diritto” (come espressione concreta di una specifica organizzazione ‘culturale’ e sociale di un ‘gruppo’ umano). Per “Diritto divino” si intende allora che la norma che da esso scaturisce è a tutti gli effetti tale ma non è norma giuridica, non è Diritto nel vero senso del termine. Se il Diritto rappresenta uno stadio irreversibile dell’evoluzione relazionale umana all’interno della società che da un certo livello in poi (istituzionalizzazione) non può più farne a meno, non si può attribuire alla norma di origine divina una contingenza fondazionale di questo tipo; tanto meno, però, è legittimo intervenire sulla natura della norma giuridica facendone un valore fondato in Dio stesso. Il “Diritto divino” appare così come un concetto analogo: è chiamato Diritto ma non lo è, poiché non ricade sotto le specifiche di individuazione del Diritto come tale. Questo non significa assolutamente negare l’esistenza di una “regolamentazione comportamentale normativa” di origine divina (assistita da apposita ‘sanzione’), ma semplicemente riconoscerne la non-giuridicità tecnica del diritto divino, in quanto mancano le due caratteristiche costitutive ed essenziali del Diritto: la “relazione di giustizia” e la “coattività”; si tratta, in definitiva, di un concetto meta-giuridico di natura filosofica ancor prima che teologica. Il giurista, pertanto, dovrà guardarsi dalla tentazione di ricorrere a questo concetto per motivare alcunché all’interno del proprio ambito di lavoro. La difficoltà tecnica di utilizzo di questo concetto in ambito giuridico non ne impedisce tuttavia in nessun modo l’adozione, con le dovute cautele, in altri ambiti come quello etico o morale. Il tema ha conosciuto almeno un millennio di storia, dalla riscoperta bolognese del Diritto giustinianeo con Irnerio, alla ‘creazione’ (sempre bolognese) della scienza canonistica con

(29)

29

Graziano, alle riflessioni filosofiche e teologiche della Scolastica iniziando da Pietro Lombardo e S. Tommaso fino ad una vera diffusione speculativa con l’Illuminismo, il Positivismo e fino ai nostri giorni.

1.11 Ordinamenti giuridici e Diritto Canonico.

Dopo aver indicato gli elementi essenziali del Diritto in quanto “disciplina autonoma”, diventa necessario restringere ora l’orizzonte di trattazione a quella particolare specificazione del Diritto che va sotto il nome di Diritto canonico. Si è discusso lungamente nei secoli circa la natura del Diritto canonico in rapporto soprattutto al Diritto statuale, in particolare in rapporto col Diritto civile degli stati che durante l’epoca moderna cominciarono a svilupparsi ed a strutturarsi anche sotto il profilo più formalmente giuridico, chiedendo legittimità per il proprio operare, ed esigendola per quello altrui. Il problema coinvolse la Chiesa in diversi modi portando anche alla nascita della formula “societas (juridice) perfecta”. Per sostenere davanti agli stati nazionali assolutisti del XVII sec. (e quelli ‘laici’ dei secoli seguenti) la legittima autonomia della Chiesa nel proprio campo, anche istituzionale e giuridico. Una svolta decisiva alla problematica del rapporto tra differenti forme di Diritto, senza negare a nessuno la propria autonomia e peculiarità. Venne proposta dal giurista italiano Santi Romano con la sua “Teoria ordinamentale”. Alla base di questa teoria sta il concetto chiave di “organizzazione”: laddove una società si organizzi (istituzionalizzandosi) e riesca ad instaurare un ordine effettivo ci si trova davanti ad un “Ordinamento giuridico”; questo «significa un codice di leggi, adeguate ad un certo tipo di vita comune, che un’autorità giudiziaria deve applicare e sanzionare e a cui gli uomini non soltanto devono obbedire in coscienza, ma anche possono essere obbligati ad obbedire dalla coercizione della società»33. Questo

‘concetto’ tiene anche conto di un fatto imprescindibile nell’orizzonte

(30)

30

giuridico generale: «le norme giuridiche non esistono mai da sole, ma sempre in un contesto di norme, che hanno particolari rapporti tra loro. Questo contesto di norme si suole chiamare ‘ordinamento’»34. Il sistema giuridico della Chiesa ricade pienamente in queste coordinate e può abbandonare la precedente posizione di principio della “societas perfecta” per presentarsi, molto più opportunamente e senza ambiguità, come “Ordinamento giuridico canonico”. Si tratta di una nuova consapevolezza giuridica: le differenze tra il Diritto canonico ed il Diritto degli stati non sono un problema. È necessario trovare una comparazione tra gli elementi assolutamente peculiari che permettono a ciascun Ordinamento di “essere se stesso” a seconda delle caratteristiche poste a fondamento dell’Ordinamento stesso. Ogni Ordinamento giuridico è infatti autonomo e si rapporta con gli altri Ordinamenti alla pari riconoscendo un’equivalenza di funzioni ma senza poter esigere un’identità valoriale né funzionale. L’enorme sviluppo del Diritto internazionale avutosi in questi ultimi decenni fornisce oggi un ottimo elemento di confronto per verificare la correttezza del rapporto che si illustra tra Ordinamenti statuali ed Ordinamento canonico. Vi sono poi, forme di ordinamenti giuridici che rientrano in questa descrizione ma che per la loro natura contraria alle norme di comportamento, come quello delle organizzazioni mafiose, dovrebbero essere debellati. Il fatto che si siano costituiti e che possano essere riconosciuti come tali, non legittima la loro esistenza e consolidazione.

1.12 Natura del Diritto canonico.

Occorre ora indicare in cosa consista propriamente il Diritto canonico, quale ne sia la natura e quali i fondamenti. Dove nasce dunque il fenomeno giuridico ecclesiale? La risposta ci viene dal processo sociale dell’Istituzionalizzazione, cui più volte si è fatto riferimento. In ambito

(31)

31

ecclesiale questa riflessione è stata curata in modo particolare dal Padre Estrada Diaz, studioso del settore. È importante chiederci se la istituzionalizzazione della Chiesa secondo lo studioso Weber derivi da una ripetizione di azioni e di simboli carismatici che costituiscono il fulcro del culto. Non si tratta solo di qualcosa di trascendentale ma di una componente iniziale prettamente legata alla ritualità. In questo senso sembrano particolarmente chiarificatrici le riflessioni di Max Weber, sopra la costituzione carismatica e le sue possibili trasformazioni35. Nel suo studio sui diversi tipi di dominazione, Weber studia il processo di evoluzione da una costituzione carismatica verso le differenti forme di ritualità quotidiana del carisma. La struttura per la sua singolarità ed instabilità tende a convertirsi in tradizione e associazione razionale. È ciò che storicamente si è avuto con la successione apostolica e con l’ordinazione che trasmette un carisma ed una capacità per svolgere una funzione o un ministero. Questo processo è secondo Weber una costante attraverso la quale il gruppo tende alla sopravvivenza. Nella misura in cui il gruppo dotato di carisma cresce di numero, si fa più necessaria la organizzazione e la disciplina. L’organizzazione o istituzionalizzazione del gruppo in questione tende ad integrare i fattori emotivi e razionali ed a subordinarli alla disciplina comune. E questo accade anche con il culto, che si oggettiva in orazioni, cerimonie e rituali comunitari, attraverso i quali la comunità esprime la propria identità collettiva. Senza questi elementi la preghiera permarrebbe in uno stato individuale e non sarebbe possibile un culto comunitario. L’azione comunitaria necessita di simboli comuni. Sorgono così tradizioni, culto, organizzazione amministrativa e ministeri come risultato dell’evoluzione della comunità carismatica. Ma cosa accade se il leader del gruppo viene a mancare? Il problema sta nel determinare il nuovo successore o di come conservare il suo carisma,

35 Cfr. WEBERM., Economia e società, Edizioni di comunità, Milano, pagg. 869-875.

(32)

32

che è il problema dei ministeri e della tradizione. L’autorità personale del leader lascia il passo alla congregazione dei credenti che hanno accesso diretto al carismatico fondatore attraverso le mediazioni (tradizione, ministri, culto). Il medesimo esito di una comunità carismatica porta con sé la regolazione del carisma che si istituzionalizza. Questa progressiva istituzionalizzazione appartiene alla struttura di sopravvivenza del gruppo. La scienza dell’uomo e della società coincidono nell’affermare l’inevitabilità del processo di istituzionalizzazione inerente a qualunque gruppo umano. Esistono differenze di apprezzamento rispetto al valore positivo o negativo delle istituzioni, però c’è un consenso generale in ciò che riguarda la loro importanza e necessità nella vita umana, tanto a livello individuale come di gruppo»36.

1.13 Fondazione ‘divina’ del Diritto canonico.

Una delle distinzioni più controverse all’interno della dottrina canonistica è quella tra Diritto divino e Diritto umano; distinzione presente nella maggioranza degli autori e fonte di una visione complementare che vede il Diritto canonico come armonica unione di due generi di norme: quelle divine e quelle umane. I contributi alla riflessione su questa tematica sono pervenuti dal lavoro giuridicamente rigoroso della “Scuola ecclesiasticistica italiana” e dall’Università di Pamplona. Dopo quanto asserito sulla natura tecnica del Diritto e sulla sola analogicità del concetto di Diritto divino non si può non considerare favorevolmente l’insegnamento del canonista Vincenzo Del Giudice che già nel 1939 affermava la natura esclusivamente umana delle norme costituenti l’Ordinamento giuridico canonico; le norme divine, di grande valore religioso e morale (meta-giuridico), non possono essere qualificate come norme giuridiche fin quando non siano formalmente recepite all’interno dell’Ordinamento canonico dal

36 ESTRADADIAZJ.A., La Iglesia:¿institución o carisma?, Sigueme, Salamanca, 1984, pagg. 131-133.

(33)

33

legislatore competente: si chiama processo di c.d. ‘canonizzazione’ delle norme37; in tale processo tuttavia la giuridicità non deriva dalla fonte divina da cui la norma origina quanto piuttosto dalla formalizzazione giuridica operata dal legislatore (umano). Un progresso di chiarezza sul tema viene dall’insegnamento di J. Hervada che, riconoscendo il carattere eminentemente storico del Diritto, considera il Diritto divino come Diritto propriamente detto solo nella misura in cui esso operi di fatto nella vita della Chiesa. Quando, cioè, la consapevolezza ecclesiale verso i contenuti concreti del c.d. Diritto divino cresce, scatta un atteggiamento che deve tener conto di questa maggior conoscenza della volontà di Dio. Ma ciò tuttavia non è ancora Diritto poiché occorre un inserimento di tale norma all’interno dell’Ordinamento giuridico canonico attraverso la formalizzazione. Il principio d’ordine che informa l’Ordinamento giuridico impedisce che tale inserimento sia un semplice elemento divino tra elementi umani ma provvede all’adattamento delle diverse norme giuridiche riconoscendo loro anche una certa gerarchia38. Questa impostazione tuttavia, se ben chiarisce la netta differenza tra Diritto divino e Diritto umano riconoscendo solo al secondo le caratteristiche tecniche della vera giuridicità, rimane fondamentalmente deduttivistica fondando direttamente in una volontà di Dio, più o meno esplicita, la quasi totalità delle norme giuridiche canoniche.

1.14 Diritto canonico e Rivelazione biblica.

Porre il Diritto canonico in relazione alla S. Scrittura non significa trattare il tema della “giuridicità nella Bibbia” ma soltanto delineare in qual modo vada inteso il legame del Diritto canonico col testo rivelato. Testo che ‘contiene’ la Parola di Dio ma che con essa non si identifica totalmente e quindi, a maggior ragione, non può aprioristicamente

37 Cfr. LOMBARDÍA P., Lezioni di diritto canonico. Introduzione-Diritto costituzionale-Parte generale, Giuffrè, Milano, 1985, p. 12.

(34)

34

essere preso come ‘terminus a quo’ per fondare una normatività giuridica. Non è facile illustrare il rapporto tra Bibbia e Diritto canonico né sotto il profilo strutturale né sotto quello storico. Il tema diventa tanto più interessante, e problematico, quando si voglia mantenere il concetto di Diritto divino nella sua giusta natura di analogicità rispetto al Diritto stesso. Se, infatti, il c.d. “Diritto divino” non è ontologicamente Diritto, come fondare norme ed istituti giuridici a partire dal testo biblico? Eppure è lunga nei secoli tanto la dottrina sulla costituzione biblica del Diritto canonico quanto la consuetudine di “canonizzare” norme bibliche ritenendole fondamentali e necessarie semplicemente per la loro appartenenza al testo biblico. Storicamente bisogna riconoscere come all’interno del cristianesimo la questione tra “volontà di Dio” e testo biblico sia un dilemma fin dalle origini, affrontato dallo stesso Gesù secondo la visione tradizionalista dei Farisei (conoscitori della legge) e sviluppato senza indugio da S. Paolo, dottore della legge, in un contesto assolutamente corretto. Il rapporto “Diritto canonico-Bibbia” non può essere posto all’interno delle coordinate “Bibbia e legge” o “spirito e legge”: si tratterebbe infatti di uscire dall’ambito giuridico per muoversi in una prospettiva impertinente sotto il profilo del diritto. È senza dubbio vero che non può essere ignorato lo spessore normativo e giuridico del testo biblico in molte delle sue componenti ma è altrettanto vero che non è sufficiente l’appartenenza biblica a giustificare la doverosità della norma all’interno di un ordinamento giuridico differente da quello originale. Non deve trarre in inganno a questo proposito quanto storicamente accaduto nell’alto medioevo quando, in mancanza di un sufficiente apparato dispositivo canonico, si ricorse alla canonizzazione di un grande numero di norme bibliche, modificando così le colonne portanti della normatività ecclesiastica e creando un vero regresso teologico nella identificazione del fedele cristiano. Basti pensare, solo, alla ricaduta in ambito morale di molte norme di semplice ritualità di origine biblica, sopravvissute oltre il Concilio Vaticano II.

(35)

35

L’inevitabile approccio critico al tema Bibbia-Diritto canonico non elimina tuttavia ogni legame tra normatività canonica e testo biblico: semplicemente invita a muoversi in questo ambito assolutamente ‘originale’ con grande rigore metodologico per non perdere di vista ciò che davvero appare irrinunciabile per la vita della Comunità di fede. È a questo livello che occorre esplicitare e rispettare il necessario rapporto tra Rivelazione biblica, Teologia e Diritto: non si può transitare liberamente dal testo biblico alla normatività canonica senza passare attraverso il ‘filtro’ teologico. Non è possibile fare Diritto partendo direttamente dal testo biblico assunto semplicisticamente come ‘Diritto divino positivo’ ma occorre invece trarre dal testo biblico le indicazioni su ciò che nella vita di fede appare irrinunciabile e per poter, con proprietà giuridica, individuare il miglior strumento normativo di tutela ‘attuale’ del valore eterno così esplicitato; diversamente, come già accaduto, il momento teologico si porrebbe inevitabilmente ‘in coda’ a quello dispositivo ormai moralizzato.

1.15 Diritto canonico e Nuovo Testamento.

Dopo aver individuato ed illustrato la nozione generale di Diritto e lo “specifico di un Diritto canonico”, occorre chiedersi come nasca il Diritto canonico e dove affondi le proprie radici e che posto occupi nella vita della Chiesa. L’origine va riconosciuta necessariamente nel NT, non tanto in una presunta attività legislativa o comunque giuridica di Cristo (Diritto divino positivo) quanto nel fatto che il NT evidenzia sotto il profilo giuridico o, almeno, istituzionale quelli che sono i cardini del diritto canonico. Molti istituti giuridici ecclesiastici ritrovano la propria sicura origine nel NT. Il termine “Canonico” deriva da canna, unità di misura, norma, regola. È Paolo che lo utilizza per primo (in Gal. 6,16) proprio per indicare la norma della fede e del comportamento all’interno della Comunità ecclesiale. Il “canone”, utilizzato fin dalle origini nella Chiesa per indicare la norma giuridica valevole per la Comunità dei credenti. Canon è la norma giuridica stabilita nella

(36)

36

Chiesa. Il Diritto romano giustinianeo, apice dell’elaborazione giuridica romanista, distingueva tre tipologie di norme giuridiche: Constitutiones (date direttamente dall’Imperatore), Leges (votate dal Senato), Jura (ricavate dalla riflessione giurisprudenziale come ‘principi’ intrinseci all’ordinamento giuridico stesso). Il Diritto Canonico nasce come disciplina interna della Comunità ecclesiale; si tratta essenzialmente di norme, finalizzate ad una vita comune ordinata, e non di leggi nel senso comune del termine; sono regole di comportamento più che ‘imperativi’ imposti dall’autorità suprema (umana o divina che sia). La diversa denominazione serve non solo a tenere distinte le due tipologie giuridiche. Ma più ancora le due differenti fonti del Diritto e la loro concezione e portata: le leggi sono create dagli uomini in base a maggioranze, accordi e convenienze socio-politiche; i canoni nascono nei Concili Ecumenici per fornire ai cristiani le norme di una corretta ed autentica vita ecclesiale. È interessante capire come nel NT, pur vicinissimi alle parole stesse del Cristo, non si parli mai di comandi giuridici di Gesù. Ma si proceda nella Chiesa apostolica con molta libertà assumendo di volta in volta regole semplicemente opportune o necessarie. Ed è anche la parte spesso giudicata più estranea alla logica ecclesiale, il Diritto processuale canonico, trova la sua origine incontrovertibile proprio nel NT: è sempre San Paolo che (in Cor 6,1-6) pone le basi da cui si svilupperà tutta una specifica branca del Diritto canonico. Essendo il processo romano fondamentalmente arbitrale nulla vietava ai cristiani di scegliersi autonomamente il loro arbiter/iudex in un membro della stessa Comunità di fede; chi meglio dell’Episcopos poteva assolvere questo compito? Di fatto questa ‘attribuzione’? Rimarrà intatta, rafforzata soprattutto nel medioevo, rimettendo al Vescovo il compito comunque necessario di pronunciare il Diritto tra Parti appartenenti alla stessa Comunità cristiana in ambiti di esclusiva potestà ecclesiastica. (nota) Il nuovo testamento pone anzitutto le premesse per capire cos’è

Riferimenti

Documenti correlati

Nella quarta giornata della Cop26 la politica annuncia che 25 fra Paesi e istituzioni finanziarie si sono impegnati a porre fine ai sussidi alle fonti fossili alla fine del 2022 (anche

di Fucecchio (FI) - Toscana Dimensione PC di San Miniato (PI) - Toscana Altri lavori similari sono stati svolti per i punti vendita di:.. Intervento di stesura del progetto

O Padre, che hai mandato san Giovanni Battista a preparare a Cristo Signore un popolo ben disposto, allieta la tua Chiesa.. con l’abbondanza dei doni dello Spirito, e

E non bisogna dimenticare che è proprio la politica occidentale la causa, ancora oggi, della povertà di alcuni paesi, che ha le radici in un punto fondamentale della

Essi svolgono un ruolo facilitante nell’apprendimento, precedono e predicono lo sviluppo del linguaggio verbale (TOMASELLO 2008) e sono in grado di influenzare

- Per la prova scritta di matematica e la prova di lingua straniera la verifica sarà formulata in maniera graduale, ponendo cioè le prime procedure o i primi quesiti

Una storia che rispecchia la nostra, quella attuale, il momento presente pieno di sofferenza e paura ma nello stesso tempo aperto alla speranza della vittoria: curare l’anima con

Anche Carrà, come il pittore provenzale, ha schiarito la sua tavolozza, alla ricerca di un nuovo equilibrio compositivo; anche lui ha scoperto i passaggi, o meglio,