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Capitolo 3: Antropologia, teatro e intercultura

3.2. Schechner e i Performance Studies

3.2.2. Il processo performativo: focus sul teatro sperimentale

In questo paragrafo vorrei approfondire le riflessioni di Schechner riguardanti il teatro, in particolar modo gli elementi e le fasi che lo caratterizzano.

Il rituale e il gioco trovano ampio spazio nella dimensione teatrale, e sono tra loro intrecciati: una delle definizioni di performance che utilizza il regista è infatti quella di “comportamento ritualizzato condizionato e/o permeato dal gioco” (Schechner 2010). Entrambi hanno la capacità di condurre le persone all'interno di una “seconda realtà”, in cui possono essere sperimentati dei Sé differenti da quelli di tutti i giorni, e in cui le persone possono essere trasformate, sia permanentemente sia temporaneamente. Gli effetti dell'esperienza liminale, insiste Schechner, seppur abbiano luogo in uno spazio-tempo “altro”, possono modificare la percezione che abbiamo di noi stessi anche nella vita quotidiana.

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Secondo Schechner il rituale è in grado di creare e/o rafforzare il gruppo sociale, poiché crea un tipo di comunicazione chiara attraverso l'utilizzo di azioni simboliche parte di un linguaggio condiviso.

Rituals are collective memories encoded into actions. They help people deal with difficult transitions, ambivalent relationships, hierarchies, and desires that trouble, exceed or violate the norms of daily life. (…) They set patterns and repetitions to performance. (…) Human rituals are bridges across troubled water (ibidem: 52).

Del gioco vengono sottolineate le dimensioni dell'esplorazione, dell'apprendimento e del rischio. Schechner riprende la riflessione turneriana che vede nel gioco la capacità di sovvertire i poteri esistenti: “the wheel of play reveals to us the possibility of changing our goals and, therefore, the restructuring of what our culture states to be reality” (Turner 1983: 233-34).

Il gioco è lo spazio per eccellenza della creazione, che avviene attraverso la libera ricombinazione e rielaborazione del materiale personale, culturale e sociale conosciuto. Una caratteristica propria del gioco a teatro è il suo essere delimitato da regole, all'interno di uno spazio protetto: “playing is a way to perform safely and without consequences actions that in other contexts would determine hierarchy, mating rights, or even life itself” (ibidem: 103).

Schechner teorizza il processo performativo come una sequenza spazio-temporale:

The performance process is a time-space sequence composed of proto-performance, performance and aftermath. This three-phase sequence may be further divided into three parts: proto-performance (training, workshop, rehearsal), performance (warm- up, public performance, events-contexts sustaining the public performance, cool down), aftermath (critical responses, archives, memories). (…) Understanding this time-space sequence means understanding how performances are generated, how they are staged in a focused manner, how they are nested within larger events, and what their long-term effects are. (…) Performances have both a short-term impact and a longer after-effect, leaving traces in the bodies of the performers, participants and spectators (Schechner 2010: 225).

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La prima fase, quella della proto-performance, coincide con la fase laboratoriale del teatro, sulla quale si è concentrata in particolar modo la mia ricerca di campo. La proto- performance è il punto di partenza della performance stessa, la sua fonte o impulso iniziale: le fasi che la compongono, seppur “nascoste” o difficili da scorgere durante la performance stessa, ne rappresentano la base. Permettono, infatti, di creare il testo: “a text is a product of a skilled joining of different materials to make single, whole stuff. (…) Texts are sites of interpretation and disagreement, not fixed canons” (ibidem: 227).

Il primo elemento proprio della proto-performance su cui vorrei soffermarmi è il training, ovvero la fase in cui si apprendono nuove tecniche. Esso può essere formale o informale: attraverso il training formale, come nel caso delle lezioni scolastiche, il progresso nell'apprendimento avviene attraverso differenti gradi di conoscenza, ed attraverso la divisione della conoscenza in materie differenti. Attraverso il training informale invece:

The novice acquires skills over time by absorbing what is going on. Mistakes are corrected as part of daily life. This training method can be very effective because what is learned is integrated into the student's overall life. (…) This is how most people learn to “fit in” to their families and social groups (ibidem: 228).

Il processo di apprendimento del training informale è di tipo olistico, e si basa in gran parte sull'imitazione, evitando teorizzazioni e spiegazioni verbali. L'imitazione permette di acquisire una conoscenza organica delle competenze richieste, e produce spesso cambiamenti a livello corporeo: il training, infatti, modella il corpo, trasformando i movimenti, la gestualità, il tono di voce, le espressioni facciali.

Il secondo elemento che compone questa fase è il workshop, che rappresenta la ricerca attiva all'interno del processo performativo. Attraverso il workshop è possibile compiere tre azioni fondamentali, ovvero breaking down, digging deep ed opening up (ibidem). E' un momento di rottura poiché, come per i riti iniziatici, i partecipanti si isolano dalla vita ordinaria, e mettono da parte le proprie abitudini. Inoltre, si esplorano le emozioni, si portano alla luce materiali di natura personale, storica o di altro genere, e si trovano i modi

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per esprimerli attraverso azioni e interazioni: i materiali possono diventare parte delle performances, come anche materiali utilizzabili all'interno di nuove esplorazioni laboratoriali. Infine, il workshop è una fase in cui è possibile aprirsi a sé stessi e alle altre persone:

[Workshops in the performing arts] are used to “open people up” to new experiences, helping them recognize and develop their own possibilities. Workshops look toward “the new” both personally and artistically. (…) Possibilities that may never be performed in public are explored (ibidem: 235).

Durante i workshop vengono infatti identificate e ci si rapporta alle resistenze presenti nei confronti di nuove conoscenze, e si sviluppano esplorazioni di nuovi modi di fare e di essere: affinché tale apertura possa avere luogo, e i partecipanti diventino al contempo vulnerabili e ricettivi, è necessario che si crei un rapporto di fiducia tra individuo e gruppo. Il viaggio, come spiega Schechner, non può essere intrapreso da soli: un workshop ha successo quando il gruppo sostiene gli sforzi individuali e i contributi individuali rafforzano il gruppo.

Il terzo elemento da osservare e il rehearsal, la fase successiva, che consiste nel processo attraverso cui i materiali trovati vengono organizzati per creare un prodotto finale, e in cui viene ricercata la bellezza estetica attraverso la semplificazione e la selezione. Questa fase è molto importante dal punto di vista sociale perché si coordinano le varie opinioni, le competenze e i desideri del gruppo, nella ricerca di un'armonia tra il processo di creazione e il prodotto stesso.

Per quanto riguarda la seconda fase in senso schechneriano, ovvero quella della performance, il cui epicentro è la “public performance”, è stato utile confrontarsi con le ricerche dell'antropologa Tamisari (2006). La studiosa, a partire da uno studio delle performances rituali nel contesto della popolazione aborigena australiana yolngu, ha evidenziato quale elemento centrale della performance la partecipazione: è attraverso la concreta attuazione (actualization) della performance, e dalla capacità di essere “toccati”,

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che si intesse una relazione tra performers e pubblico fatta di impegno, riconoscimento e coinvolgimento.

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