• Non ci sono risultati.

Capitolo III – Strumenti giuridici e prospettive future per la tutela dei migranti climatic

1. Il regime di tutela degli Internally Displaced Persons

all’interno dell’Unione Europea 3. Gli Stati Uniti e il “Temporart Protected Status” (TPS) 4. Verso una prospettiva futura: possibili soluzioni per la tutela dei migranti ambientali 4.1. L’iniziativa Nansen

1. Il regime di tutela degli Internally Displaced Persons

Oltre allo studio di quelli che sono gli strumenti principali del diritto internazionale adibiti alla tutela dell’ambiente, e che quindi possono aiutare a risolvere a monte il problema delle migrazioni legate ai disastri ambientali, è tuttavia necessario analizzare gli altri strumenti presenti nel diritto internazionale che più direttamente riguardano categorie simili di soggetti, nonostante sia già stata evidenziata, come presupposto di partenza del lavoro di analisi, la mancanza di un istituto specifico che possa essere precisamente riferito ai migranti climatici.

Senza dubbio la categoria di riferimento più prossima è quella dei cosiddetti Internally

Displaced Persons221. La definizione ci viene data nel 1998, dopo che la Commissione

dei Diritti Umani delle Nazioni Unite aveva ribadito la necessità di creare un report analitico che mettesse in luce le difficoltà di questi soggetti222. Gli Internally Displaced Persons vengono quindi definiti nel Report of the Representative of the Secretary-

221 Vedi supra, Cap.I § 3-4 222 E/CN.4/RES/1992 n.73

General on Internally Displaced Persons, prodotto nel 1998, come «… persons or groups of persons who have been forced or obliged to flee or to leave their homes or places of habitual residence, in particular as a result of or in order to avoid the effects of armed conflict, situations of generalized violence, violations of human rights or natural or human-made disasters, and who have not crossed an internationally recognized State border»223.

Si può notare che i presupposti fondamentali caratterizzanti questa categoria sono due: lo spostamento involontario dovuto a cause di diversa natura, e la permanenza di questi soggetti all’interno dei confini nazionali. Innanzitutto, si può vedere come compaiano tra le cause, oltre a quelle che sono già riconosciute da altri strumenti internazionali, anche gli eventuali disastri naturali o causati dall’uomo. In questo strumento quindi vi è un’equiparazione tra cause che avrebbero potuto portare al riconoscimento dello status di rifugiato224 - se solo il soggetto avesse oltrepassato i confini nazionali – e cause di matrice ambientale e climatica. Questo elemento quindi appare particolarmente rilevante, dal momento che, nel documento, si ritiene che i soggetti costretti ad abbandonare il proprio luogo di dimora per motivi che trascendono la propria volontà siano soggetti deboli, che necessitano di un riconoscimento della loro situazione e della creazione di strumenti ad hoc per la loro tutela, a prescindere da quale sia stata la causa che abbia portato allo spostamento225. Come evidenza E. Mooney nel suo saggio sugli

223 United Nations Commission on Human Rights, Report of the Representative of the Secretary- General on Internally Displaced Persons: Guiding Principles on Internal Displacement, UN doc.

E/CN.4/1998/53/Add.2 – Febbraio 1998

224 Vedi supra, Cap.I § 5

225 Sul punto, diversi autori si sono espressi riguardo alla necessità di escludere da questa

categorizzazione quelli definiti come migranti economici. Allargando così tanto lo specchio di riferimento, il rischio era quello di non riuscire più a delineare una figura dai connotati specifici. Così si esprime MOONEY E., The concept of Internal Displacement and the case for Internally

Displaced Persons as a category of concern, in Refugee Survey Quarterly, UNHCR, Vol. 24, Issue

IDP226, la formulazione data nel 1998 ha suscitato la preoccupazione di molte organizzazioni non governative, le quali temevano che una definizione troppo stringente non fosse in grado di comprendere tutta la varietà di cause che può portare alla conseguenza drastica dello spostamento. Proprio per questo motivo, è stato considerato adeguato l’inserimento – tra le altre227

– della causa climatica, proprio perché questa è stata ingiustificatamente tralasciata nonostante sia assodato che, proprio al pari delle altre, può portare a gravi conseguenze sul piano della violazione dei diritti umani228.

Bisogna ricordare, allo stesso tempo, che il documento appartiene alla categoria degli atti di soft law229 e quindi, in quanto tale, non ha carattere obbligatorio e non produce

«As Robert Goldman, one of the members of the legal team that drafted the Guiding Principles has explained, the reason for framing an IDP defi nition, was to address the plight of a particular group of persons who had distinct protection and assistance needs resulting from forced displacement; to enlarge the defi nition would risk losing this focus».

Riferimento dell’autore al Regional Seminar on Internal Displacement in the Americas, Mexico City,

Mexico, D.C.: Brookings Institution-SAIS Project on Internal Displacement, 2004, cit. p. 12

226 MOONEY E., op. ult. cit. p. 12.

227 «The massive displacement crisis resulting from the December 2004 tsunami in Southeast Asia

has helped to focus attention on the needs of these IDPs. It also has confirmed the relevance of bringing together under one definition the different scenarios in which internal displacement can arise» MOONEY E., op. cit. p. 12.

228 Per la visione della problematica dei migranti ambientali vista secondo la prospettiva di tutela

dei diritti umani, vedi supra, Cap.II § 1.2-1.3.

229 RONZITTI N., Introduzione al diritto internazionale, Giappichelli Editore, Torino, 2013, cit. p.

184-185. L’autore si concentra sull’analisi del termine di origine anglo-americana soft law, con il quale si indicando disposizioni non giuridicamente vincolanti. L’autore afferma che «Si tratta quindi di atti adottati dalle organizzazioni internazionali, o di “codici di condotta” o di atti adottati da conferenze internazionali non aventi dignità di trattato…come le numerose risoluzioni adottate dalle conferenze sull’ambiente». Fondamentale però, soprattutto ai fini della presente trattazione, è comprendere in che modo il soft law possa contribuire alla creazione di diritto: «In primo luogo, una serie ripetuta di risoluzioni delle organizzazioni internazionali può contribuire alla creazione di consuetudini internazionali, sempre che sussistano i requisiti per la nascita. In particolare, le risoluzioni possono essere d’ausilio al consolidamento dell’opinio juris….In secondo luogo, il soft

law può costituire la fonte materiale di diritti ed obblighi giuridici. Per es. i principi contenuti nelle

risoluzioni di conferenze internazionali possono essere tradotti in un trattato internazionale, come è accaduto per il diritto dell’ambiente, oppure essere richiamati in un trattato….In terzo luogo, il soft

law limita il dominio riservato degli Stati, nel senso che il richiamo agli “obblighi politici” stabiliti

dagli atti di soft law non costituisce “intervento negli affari interni di un altro Stato”, sia che il richiamo sia operato dagli Stati sia che esso sia fatto da un’organizzazione internazionale». E ancora, sempre sulla necessaria specificazione della natura degli atti di soft law, MOSTACCI E.,

La soft law nel sistema delle fonti: uno studio comparato, CEDAM., cit. p. 60.Sulla natura degli atti di soft law adottati dalle organizzazioni internazionali, l’autore si esprime descrivendole come

specifici effetti giuridici230. Tuttavia, seguendo la riflessione di F. Perrini231, a questo strumento andrebbe riconosciuta una particolare importanza dal punto di vista giuridico perché al suo interno troviamo riproposte alcune norme che già appartengono al diritto internazionale consuetudinario, mentre in altri punti poi viene presa in considerazione la necessità di tutelare diritti umani che già sono stati protetti e richiamati all’interno di altre convenzioni internazionali: questo quindi porta a concludere che la particolare categoria che fino ad ora è stata presa in considerazione meriterebbe lo stesso tipo di tutela che per altri soggetti è già stata prevista all’interno di strumenti giuridici con diversa portata.

Se, secondo l’autrice, è necessario ribadire l’estrema importanza di questo documento, è fondamentale allo stesso tempo evidenziarne i principali punti deboli: prima tra tutte vi sarebbe la difficoltà di individuare tutti i soggetti del diritto che potrebbero essere chiamati ad applicarli, qualora questi principi assumessero una rilevanza giuridica obbligatoria. La mancanza di uno strumento specifico e vincolante che possa tutelare gli IDPs sicuramente è dovuta alla difficoltà di trovare un accordo tra diversi Stati su una tematica così delicata e complessa: da una parte si corre il rischio di formulare un accordo talmente stringente da causare la mancata ratifica da parte di molti Stati; allo stesso tempo, tuttavia, ridurre le garanzie nei confronti di questi soggetti per ottenere un maggior numero di ratifiche potrebbe portare a un eccessivo abbassamento dello

«numerose dichiarazioni di principi che, pur avendo contenuto non vincolante, hanno costituito uno dei principali strumenti per il tramite dei quali il diritto internazionale ha conosciuto, nel corso della seconda parte del novecento, in taluni ambiti, un’evoluzione considerevole.»

230 E. Mooney, riferendosi alla portata del documento e alla sua fondamentale differenza con la

Convenzione di Ginevra, afferma che «It simply describes the factual situation of a person being displaced within one’s country of habitual residence. The term does not connote or confer a special legal status in the same way that recognition as a “refugee” does». MOONEY E., op. cit. p. 13. 231 PERRINI F., Cambiamenti climatici e migrazioni forzate – Verso una tutela internazionale dei

migranti ambientali, Ordine Internazionale e Diritti Umani, Collana Monografie, Vol.4, Editoriale

standard minimo di tutela, tanto che lo strumento redatto risulterebbe poi sostanzialmente inutile.

Quindi, esattamente come ribadito da F. Perrini, l’importanza sostanziale dei Guiding

Principles consiste nell’indicare, per la prima volta esplicitamente, la necessità di

protezione nei confronti di soggetti costretti a migrare contro la loro volontà, e in particolare per cause ambientali. Ma soprattutto è evidente che se si ritiene che ciò sia necessario per coloro che si spostano all’interno del confine nazionale, stesso principio dovrebbe essere adottato per coloro che lo oltrepassano, e quindi non più Internally Displaced Persons, ma soggetti che corrispondono proprio con la figura fino ad ora definita come migrante ambientale; da un punto di vista operativo, quindi, nulla esclude che anche a questa categoria possa essere applicata, in via analogica, lo stesso modello di tutela previsto per gli IDPs.