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Cambiamenti climatici, mezzi di sussistenza e migrazione: profili di tutela giuridica del migrante ambientale

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Indice

Introduzione ……… 3

CAPITOLO I – LA FIGURA DEL MIGRANTE AMBIENTALE……… 6

1. Premessa……… 6 2. Gli approcci scientifici alla questione climatica in relazione ai flussi migratori …. 8 3. Il migrante ambientale: le ipotesi definitorie elaborate nel contesto internazionale 18 4. I tentativi di classificazione dei fenomeni migratori tra multi-causalità e difficoltà di concettualizzazione ……… 23 5. La Convenzione di Ginevra e i presupposti dello status di rifugiato ………. 34

CAPITOLO II – LA PROBLEMATICA GIURIDICA DELLA TUTELA DEL MIGRANTE AMBIENTALE……….. 41

1. Diritti fondamentali: perché è necessaria una protezione adeguata per i migranti? 41 1.1 Premessa ………42 1.2 Le prospettive dottrinali di evoluzione della tutela dei diritti umani secondo l’ottica ambientale ……….. 45 1.3 Le ipotesi di interconnessione tra deterioramento climatico-ambientale e singoli diritti fondamentali individuati a livello internazionale……….. 53 1.4 I diritti umani e il diritto internazionale ambientale: vantaggi sistematici e

conseguenze di una lettura combinata……… 57 2. L’evoluzione storica delle norme internazionali per la protezione dell’ambiente.. 59 2.1 I principi fondamentali del diritto internazionale dell’ambiente……….. 72 2.2. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile e l’Agenda ONU 2030………75

CAPITOLO III – STRUMENTI GIURIDICI E PROSPETTIVE FUTURE PER LA TUTELA DEI MIGRANTI CLIMATICI

1. Il regime di tutela degli Internally Displaced Persons………82 2. Le soluzioni adottate all’interno dell’Unione Europea………86 3. Gli Stati Uniti e il “Temporary Protected Status” (TPS)……….95

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4. Verso una prospettiva futura: possibili soluzioni per la tutela dei migranti

ambientali……….97 4.1. L’iniziativa Nansen ………107

CAPITOLO IV – MIGRAZIONE, MEZZI DI SOSTENTAMENTO E CAMBIAMENTI CLIMATICI

1. Diritto ad un adeguato standard di vita, diritto al cibo e sicurezza alimentare…….113 1.2. Gli “slow-onset hazards”: ipotesi di connessione tra sussistenza e migrazione...120 2. Alimentazione, sviluppo e standard di vita nelle isole dell’Oceano Pacifico…….125 2.2. La decisione del Comitato Onu sul caso Teitiota c. Nuova Zelanda………131

Conclusioni………... 141

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Introduzione

Nel corso degli anni ’70 la comunità internazionale, spinta da evidenze scientifiche ormai divenute innegabili, comincia a prestare attenzione alla tematica dei cambiamenti climatici. Da quel momento il diritto internazionale ha tentato di contribuire alla protezione dell’ambiente in un’ottica di sviluppo sostenibile. Contestualmente, l’interesse della comunità scientifica si è orientato verso l’analisi del fenomeno migratorio, che da sempre rappresenta un meccanismo di adeguamento a cambiamenti ed eventi di varia natura che riguardano i luoghi di stanziamento originario, e di conseguenza necessita di strumenti giuridici in continua evoluzione per poter essere gestito in maniera adeguata.

Negli ultimi decenni il mondo accademico ha preso in considerazione le possibili interazioni tra i due fenomeni, attraverso valutazioni che tengano conto sia delle dinamiche legate alle variazioni climatiche che dei flussi migratori potenzialmente generati da tali fattori. Il presente lavoro trae spunto da tale doppio binario di indagine, per concentrarsi sulla figura del migrante ambientale, soggetto che ancora non trova specifica tutela all’interno dell’ordinamento internazionale, nonostante questa si prospetti ormai come necessaria.

Per poter procedere alla disamina degli aspetti giuridici che riguardano la questione nella sua interezza, risulta fondamentale delineare preliminarmente i contorni della figura di riferimento in base alla lettura critica e alle diverse posizioni concettuali adottate da studiosi del settore e operatori del diritto. Proprio questo è l’obiettivo del primo capitolo, il quale si conclude con il riferimento alla Convenzione di

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Ginevra sui rifugiati del 1951 e alle motivazioni che spingono verso l’esclusione della sua applicabilità alla figura del migrante climatico.

Data questa necessaria premessa, il secondo capitolo invece mette in risalto la posizione dottrinale che assume come filtro ermeneutico la complessa normativa posta a tutela dei diritti umani al fine di apprestare protezione giuridica alla categoria. Se quindi prima si tenta di dare una risposta alla domanda sul perché questi soggetti dovrebbero essere protetti, il passo successivo consiste nell’analizzare come questo tipo di protezione possa essere messa in atto. Lo studio quindi prosegue soffermandosi sugli strumenti nati nel diritto internazionale per la tutela dell’ambiente, i quali - nell’ottica adottata - potrebbero essere la chiave per incidere a monte sul fenomeno migratorio indotto da cause ambientali.

L’attenzione si sposta poi sui singoli strumenti giuridici già presenti negli ordinamenti statali, regionali e internazionali. Queste valutazioni riguardano sia gli istituti già adottati per fronteggiare le problematiche relative alle migrazioni climatiche, utilizzabili quindi come modelli di riferimento per la creazione di nuovi strumenti e soluzioni, sia quelle le proposte di soluzioni innovative per una futura regolamentazione della materia.

In ultima istanza, l’elaborato restringe il focus sul fenomeno migratorio in correlazione con eventi climatici a lungo decorso (i cosiddetti slow-onset hazards), e sulla incidenza che questo tipo di cambiamenti possono avere su specifici sistemi di sussistenza, basati principalmente su meccanismi di sfruttamento delle risorse locali a fine alimentare. Si tratta di ipotesi delicate, difficilmente inquadrabili entro i limiti degli istituti giuridici già previsti, che richiedono quindi la concettualizzazione di soluzioni adeguate per la salvaguardia dei diritti

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fondamentali dei soggetti interessati. Su tal punto, il presente lavoro si conclude richiamando un recente parere adottato dal Comitato Onu sui diritti civili e politici in relazione al caso di un migrante ambientale originario dello stato insulare del Kiribati, situato nel Pacifico centrale.

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Capitolo I - La figura del migrante ambientale

1. Premessa 2. Gli approcci scientifici alla questione climatica in relazione ai flussi migratori 3. Il migrante ambientale: le ipotesi definitorie elaborate nel contesto internazionale 4. I tentativi di classificazione dei fenomeni migratori tra multi-causalità e difficoltà di concettualizzazione 5. La Convenzione di Ginevra e i presupposti dello status di rifugiato

1. Premessa

Nel 1979 si tiene a Ginevra la prima conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul Clima, sede in cui i governi di tutto il mondo vengono invitati a prendere provvedimenti per prevenire tali cambiamenti, che avrebbero avuto nel futuro un impatto ingente sulle attività umane e sul destino del pianeta.

In quella sede viene adottato un “Programma Mondiale di ricerca sul clima” (WCRP), elaborato da tre organizzazioni internazionali: la World Metereological Organisation (WMO), lo United Nations Environment Programme (UNEP) e l’International Comunity of Scientific Unions (ICSU). Proprio la WMO e l’UNEP istituiscono, nel 1988, l’IPCC, cioè l’Intergovernal Planet on Climate Change1.

1 L’ Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) è l'organismo delle Nazioni Unite per la

valutazione delle scienze relative ai cambiamenti climatici. E’ suddiviso in:

Gruppo di lavoro I (WG I) sugli aspetti scientifici del sistema clima e dei cambiamenti climatici; Gruppo di lavoro II (WG II) per la valutazione della vulnerabilità dei sistemi naturali e socio-economici, degli impatti dei cambiamenti climatici e delle opzioni di adattamento;

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Tale istituto intergovernativo ha l’obiettivo di analizzare la situazione climatica mondiale attraverso l’analisi dei più recenti studi a carattere scientifico e tecnico prodotti in tutto il mondo, al fine di fornire valutazioni periodiche basate su tali rapporti, precedentemente sottoposti a riesame paritario2.

Proprio il primo rapporto di valutazione dell’IPCC, pubblicato nel 1990, fu la base scientifica che portò alla convocazione del cosiddetto Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno del 1992. La conferenza, denominata ufficialmente “United Nations Conference on Environment and Development” (UNCED), porta all’elaborazione della «Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici» (UNFCCC), trattato ambientale internazionale, ratificato inizialmente da 50 Stati3.

Nel 2014 è stato pubblicato il quinto rapporto di valutazione dell’IPCC. Sul contenuto di questi rapporti e su altri dati messi in risalto dagli studi della comunità scientifica si baserà l’analisi delle cause dei fenomeni migratori, necessaria alla successiva classificazione per l’applicazione degli istituti di carattere normativo.

Gruppo di lavoro III (WG III) per la valutazione delle opzioni di mitigazione dei cambiamenti climatici (attraverso la limitazione, il contrasto e la riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra in atmosfera);

Task Force sugli Inventari Nazionali dei gas a effetto serra, responsabile del programma IPCC sugli Inventari Nazionali dei gas effetto serra. Consultabile al sito https://www.ipcc.ch/about/

2 “Peer review”, procedura attraverso la quale vengono selezionati i progetti di ricerca proposti da

membri della comunità scientifica, affinché vengano vagliati da specialisti del settore di riferimento, che ne verificano l’idoneità alla pubblicazione.

3 “United Nations Framework Convention on Climate Change”, convenzione nota anche come

Accordi di Rio, al momento ratificata da 196 Stati.

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2. Gli approcci scientifici alla questione climatica in relazione ai flussi migratori

La problematicità della tematica qui trattata affonda le sue radici già nella trattazione scientifica che si propone di analizzare e studiare le implicazioni che l’ambiente naturale ha sui fenomeni migratori, secondo le teorie che tentano di spiegarli.

Questa analisi iniziale, che verte su profili tecnico-scientifici anziché prettamente normativi, si rivela tuttavia necessaria per un successivo studio relativo al diritto. Infatti la necessità di analizzare lo stato dell’arte relativo a diversi tipi di ambiti scientifici, in modo tale da poter produrre norme che si adattino a queste evidenze, è tale da essere stata riconosciuta in questi termini sia a livello internazionale che nazionale. Si tratta di un passaggio fondamentale per poter costruire sistemi giuridici aderenti a studi che esulano dal diritto ma che si rivelano essenziali per poter descrivere alcuni fenomeni in modo puntuale, al fine di disciplinarli nel migliore dei modi. Questa esigenza è stata declinata in termini specifici anche all’interno dell’ordinamento italiano, essendo stata riconosciuta come fondamentale da parte della Corte Costituzionale4. Vi sono branche del diritto che hanno la peculiarità di prevedere norme

a contenuto tecnico-scientifico, e per questo «un diritto i cui contenuti attingono dalla scienza e dalla tecnica è un diritto in continua trasformazione»5. Proprio a tal proposito è utile accennare alla categoria della c.d. ragionevolezza scientifica, utilizzata come

4 Sent. n. 185/1998 Corte costituzionale sul caso Di Bella, primo precedente significativo per

l’elaborazione del principio di ragionevolezza scientifica: così come in altre branche (specialmente in quella medica), anche nel diritto ambientale il potere legislativo dovrà essere funzionale alla ricezione delle evidenze scientifiche, e sarà necessariamente condizionato e sottoposto ad eventuale scrutinio di costituzionalità, volto a verificare la coerenza tra la norma e quelle evidenze relative a quel determinato ambito.

5 CARAVITA B., CASETTI L., MORRONE A., Diritto dell’ambiente, Editore Mulino, Bologna,

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principio guida in quei casi in cui la scelta di un determinato indirizzo politico-legislativo riguardi ambiti relativi alla medicina, alla salute dell’uomo o all’ambiente. Ipotesi, quindi, in cui il legislatore dovrà necessariamente prendere in considerazione quelle che sono definite come «evidenze scientifiche» scaturite dall’elaborazione degli esperti. Questo riferimento serve a ricordare che, al fine di poter compiere una esaustiva analisi, non si può prescindere da classificazioni che attingono da materie non automaticamente riconducibili al diritto, ma che con questo creano invece legami fondamentali e indiscutibili. Legame che risulterà subito chiaro vista la complessità della tematica che a breve verrà analizzata sia dal punto di vista scientifico, per quanto in modo semplificato e introduttivo, che da quello normativo.

Dovendo quindi introdurre i fenomeni migratori ai fini della presente analisi, è possibile citare lo studio effettuato da E. Piguet nel 20126. L’autore focalizza la sua attenzione sulla presenza, o assenza, dell’elemento climatico come causa dei movimenti migratori nelle analisi degli studiosi del settore. Se inizialmente tale fattore viene del tutto escluso, in un secondo momento storico si ha una sua rivalutazione che porta alla concettualizzazione di posizioni teoriche che al contrario lo ritengono fin troppo centrale (allarmisti), per poi arrivare a una visione ridimensionata del fenomeno, che tiene più in conto la multi-causalità e la difficoltà di teorizzazione (scettici e pragmatici).

Piguet quindi parte da valutazioni di tipo storico, e prende in considerazione tutto un periodo di studi che inizia nel 1920 fino ad arrivare quasi al 1970, arco di tempo in cui la motivazione ambientale scompare come causa dei movimenti migratori nelle tesi dei più importanti accademici che si occupavano della materia. Le motivazioni più

6 PIGUET E., From “Primitive Migration” to “Climate Refugees”: The Curious Fate of the Natural

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pregnanti di tale “scomparsa” sono di ordine diverso: la prima fa riferimento ad una specifica concezione di progresso, soprattutto tecnologico, che si concretizza proprio nella diminuzione dell’impatto che la natura ha sulla vita dell’uomo7

. La seconda motivazione prende in considerazione il progressivo instaurarsi di cause prettamente economiche come base dei movimenti migratori, sebbene anche in queste teorie appare come componente implicita la variabile ambientale. Infine, ma di particolare rilievo per questa analisi, è la motivazione che Piguet affronta per ultima. Egli prende in considerazione la teorizzazione della figura del rifugiato, fin dall’inizio associata allo studio del fenomeno delle migrazioni forzate, condotto quasi in modo indipendente rispetto agli studi sulla migrazione tradizionale. Il fenomeno della “migrazione

forzata” avrebbe, infatti, potuto coprire gli spostamenti dovuti a fattori ambientali. In

ambito internazionale, tuttavia, il delineamento della figura del rifugiato venne effettuato creando un paradigma specificatamente politico8, escludendo del tutto, di fatto, i motivi ambientali9.

7 Concetto di “migrazione primitiva”, ripreso da Piguet ma coniato da PETERSEN W., il quale

intende la naturale tendenza dei popoli primitivi a migrare come risposta al deterioramento dell’ambiente fisico circostante. Questa influenza dell’ambiente come spinta dello spostamento “tende a ridursi a insignificanza mentre gli umani acquisiscono lentamente il controllo della natura attraverso il progresso tecnologico”. PETERSEN W., A general typology of migration, in American

Sociological Review, Vol. 23, 1958, cit. p. 259.

PIGUET E., From “Primitive Migration” to “Climate Refugees”: The Curious Fate of the Natural

Environment in Migration Studies, op. cit. p. 151.

8Sul punto, vedi infra questo capitolo, § 3.

9 PIGUET E., From “Primitive Migration” to “Climate Refugees”: The Curious Fate of the Natural

Environment in Migration Studies , cit. p. 152.

«A noteworthy exception to the dominant political paradigm in forced migration studies is the work of Richmond, one of the few scholars who can be considered a theoretician of forced migration. As early as the beginning of the 1990s, he included environmental variables in his explanatory framework along with social, economic, political, and technological ones and underlined both the difficulties in defining, identifying, and counting this group of displaced people and the necessity to intensify research (Richmond 1994). This pioneering work, however, did not suffice to establish the field within migration studies.» Piguet sull’apporto significativo fornito da Richmond, teorico della categoria di “migrazione forzata”, tuttavia non sufficiente a far riemergere a livello accademico la variabile ambientale come concausa dei movimenti migratori. RICHMOND A. H., Global

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L’analisi della materia da un punto di vista cronologico ci porta poi a prendere in considerazione, seguendo lo schema di E. Piguet, quello che è stato il periodo in cui i fattori ambientali ricompaiono come causa, se non unica, almeno in parte determinante degli spostamenti migratori. Ciò avviene a partire dalla seconda metà degli anni ‘90. Proprio nel 1985 infatti l’UNEP10

fornisce la prima puntuale definizione11 di “rifugiato ambientale”, enucleata dal E. El-Hinnawi12

: «People who have been forced to leave their traditional habitat, temporarily or permanently, because of marked environmental disruption (natural and/or triggered by people) that jeopardized their existence and/or seriously affected the quality of their life13».

L’elemento climatico ricompare negli studi del settore in seguito alla pubblicazione del primo rapporto dell’IPCC14, avvenuta nel 1990. Il report nasce dalla collaborazione di

centinaia di scienziati provenienti da 25 Paesi diversi, che forniscono così la più autoritativa valutazione che fosse stata prodotta, all’epoca, dalla comunità scientifica, e descrive in modo puntale e documentato tutte le cause del cambiamento climatico in corso, prospettando di conseguenza alcuni eventuali scenari futuri.

10 United Nations Environment Program, (UNEP) Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente,

1972.

11 BROWN LESTER R., Twenty-Two Dimensions of the Population Problem, Worldwatch Institute,

1976, cit. p. 40. Questo è il primo riferimento, in letteratura, alla categoria di quelli che l’autore indica come “ecological refugees”. Seguirà poi nel 1985 la definzione di Hinnawi, vedi note ss. «As human and livestock populations retreat before the expanding desert, these “ecological” refugees create even greater pressure on new fringe areas, exacerbate the processes of land degradation, and trigger a self-reinforcing negative cycle of overcrowding and over-grazing in successive areas».

12 EL-HINNAWI E., Environmental Refugees, UNEP, Nairobi, 1985.

13 «Persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, in modo temporaneo o

permanente, a causa della notevole alterazione ambientale (naturale e/o innescata dall’uomo) che pregiudica la loro esistenza e/o compromette gravemente la qualità della vita». Così EL-HINNAWI,

op. cit., p. 4.

Traduzione del redattore.

Per analisi delle problematicità di questa definizione infra questo capitolo, § 3.

14 IPCC (Intergovernal Panel on Climate Change), Climate Change – The IPCC Scientific

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Queste pubblicazioni fungono da forza motrice per nuovi studi accademici: è possibile notare quindi una controtendenza rispetto al punto focale che aveva caratterizzato la letteratura dei decenni precedenti, e si assiste a una «ricomparsa»15, a un rinnovato interesse nei confronti della tematica ambientale come concausa dei movimenti migratori.

Le motivazioni di questo rinnovato interesse sono diverse, ma tra tutte bisogna prendere in considerazione innanzitutto l’apertura della ricerca nell’ambito delle scienze sociali verso lo studio dell’assetto climatico del nostro pianeta, che vede quindi nella migrazione una delle conseguenze più dirette e facilmente prospettabili.

Inoltre, si verifica in questo periodo un parziale allontanamento dal criterio prettamente politico utilizzato per descrivere i “rifugiati”, che era invece stato esaltato nel decennio precedente, a discapito dei fattori ambientali. Questo permette quindi un riavvicinamento degli studiosi all’analisi della migrazione forzata come fenomeno generale16.

Molti di questi papers, che si producono a partire dal 1990 in poi, assumono toni allarmistici e drammatici. Si ricorda lo studio effettuato da Myers e Kent17 nel 1995. Qui si prendono in considerazione due scenari differenti, uno da prospettarsi alla fine del 2010, l’altro alla fine del 2025, e si comparano i diversi fattori che possono spingere le persone a spostarsi, causando quello che gli autori definiscono come un

“environmental exodus”18: carenza di cibo e problemi del settore agricolo, carenza di

15 Così la definisce PIGUET E., «reappearance». Op. ult. cit., p. 153.

16 Tra le varie argomentazioni proposte da Piguet, non bisogna tralasciare quella che prende in

considerazione la concettualizzazione della figura del migrante come un nuovo marcatore, “simbolo iconico”, figurativo, del cambiamento ambientale.

17 MYERS N., KENT J., Environmental exodus: an emergent crisis in the global arena, Project of

the Climate Institute, Washington DC, 1995, cit. pp. 2-7.

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acqua, deforestazione, desertificazione, popolazione, urbanizzazione e nascita di megacittà19, disoccupazione, povertà, eventi climatici estremi, riscaldamento globale20. Anche pubblicazioni molto più recenti, come quella di F. Bierman e I. Boas21, descrivono il fenomeno come qualcosa sicuramente difficile da quantificare con cifre certe e indiscutibili, ma assolutamente da non sottovalutare: «Although the exact numbers of climate refugees are unknowable and vary from assessment to assessment depending on underlying methods, scenarios, timeframes and assumptions (as laid out below), the available literature indicates that the climate refugee crisis will surpass all known refugee crises in terms of the number of people affected»22.

Proprio questo produce inevitabilmente il parere di studiosi che rappresentano quello che E. Piguet definisce la risposta “scettica” alla nuova attenzione che viene data ai cambiamenti climatici come causa di fenomeni migratori.

A tal proposito, un riferimento specifico va effettuato nei confronti della radicale posizione di R. Black23. L’autore mette in evidenza come alcune analisi che prospettano

l’arrivo di milioni di migranti ambientali siano basate sulla presentazione di casi accademici troppo deboli, e quindi non in grado di giustificare i numeri presentati da alcune teorie di riferimento che analizzano il fenomeno. L’autore introduce una

19 “Megacittà”, aggregazione urbana che supera i 10 milioni di abitanti, traduzione del redattore.

"Megacity” meaning in the Cambridge English Dictionary. Retrieved 27 March 2018.

20 Sull’analisi della correlazione tra mezzi di sostentamento, sicurezza alimentare e migrazioni, vedi

infra, Cap. IV, § 1-1.2.

21 BIERMANN F., BOAS I., Preparing for a Warmer World: Towards a Global Governance System

to Protect Climate Refugees, in Global Environmental Politics, Vol. 10, n. 1, 2010.

22 «Nonostante il numero esatto di rifugiati climatici non sia conoscibile e vari da studio a studio a

seconda dei metodi, degli scenari, dei tempi e delle ipotesi sottostanti (come indicato di seguito), la letteratura disponibile indica che la crisi dei rifugiati climatici supererà tutte le crisi di rifugiati conosciute in termini di numero di persone coinvolte». Visione allarmista proposta dagli autori. BIERMANN F., BOAS I., Preparing for a Warmer World: Towards a Global Governance System

to Protect Climate Refugees, cit. p. 61.

Traduzione del redattore.

23 BLACK R., Environmental refugees: myth or reality? New Issues in Refugee Research, United

Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR), Research Paper n. 34, UNHCR, Ginevra, Svizzera, 2001.

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problematica cruciale nello studio della materia, ed evidenzia come queste difficoltà nella stima dei numeri che descrivono il fenomeno siano legate inevitabilmente al processo di definizione della figura di migrante ambientale, processo tutt’altro che semplice vista la presenza di molte cause sovrapposte24. La conclusione drastica di Black porta all’impossibilità di parlare in modo appropriato di tale figura, vista la difficoltà nel determinare i confini di questa, e soprattutto vista la presenza di innumerevoli motivazioni che possono spingere una persona a migrare.

Sebbene tale posizione dottrinale porti all’estremo il concetto rappresentato da quelli che E. Piguet definisce gli “scettici”, il cui apprezzabile proposito è quello di evitare che si generino allarmismi inutili e mal ponderati, sicuramente è fondamentale concentrarsi su uno dei concetti chiave che questi studiosi esprimono, e cioè la necessità di analizzare in modo appropriato e puntuale le eventuali cause dei movimenti migratori, non dimenticando che queste possono essere varie e molto diversificate; ma soprattutto, essi riprendono un aspetto messo in secondo piano dagli allarmisti, ma che è indispensabile tenere a mente: la constatazione che la migrazione sia sempre stato il più immediato e prospettabile meccanismo che l’individuo ha avuto a disposizione come risposta alla manifestazione di elementi sfavorevoli nel luogo in cui egli ha dimora, qualunque essi siano25.

Ritornando a Piguet, l’ultima corrente che necessita di essere presa in considerazione è quella che l’autore definisce “pragmatica”26: autori che analizzano la situazione

utilizzando metodi quantitativi, per cercare di isolare l’impatto delle cause ambientali

24 Sul punto infra § 3.

25 «People have historically left places with harsh or deteriorating conditions, whether this is in terms

of poor rainfall, high unemployment, or political upheaval, or some combination of these or other adverse factors.» L’autore sulla migrazione come strumento di adattamento. BLACK R.,

Environmental refugees: myth or reality?, cit. p. 14.

26 PIGUET E., From “Primitive Migration” to “Climate Refugees”: The Curious Fate of the

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sui movimenti migratori. In particolare, ciò che emerge è che «La natura e il grado di correlazione variano di gran lunga tra questi lavori, ma le variabili ambientali compaiono sempre, tra tutti gli altri, come un fattore trainante della migrazione, ovviamente confermando allo stesso tempo la multi-causalità messa in evidenza dagli scettici»27.

La conclusione critica di Piguet riesce a trovare un punto d’incontro tra l’assunto fondamentale secondo cui ogni eventuale descrizione del fenomeno non possa prescindere dall’analisi della multi-causalità che lo produce, riprendendo l’istanza scettica, e la necessità di considerare il fattore ambientale come un prodotto non solo di fenomeni e cambiamenti empiricamente quantificabili, ma anche delle risposte soggettive che la società, in tutte le sue manifestazioni, dà a questi cambiamenti. Come già è stato evidenziato, il problema principale nella trattazione del tema è relativo alla necessità di definire con termini più puntuali possibili questa figura che si sta analizzando.

Si tratta di un obiettivo particolarmente complesso da raggiungere, su cui numerosi autori hanno dibattuto. Oltre al già citato R. Black, si riprendono gli spunti di riflessione proposti da O. Dunn e F. Gemenne28. Una delle problematiche che si presentano fin da

subito, e che rende così difficile trovare un consenso comune sulla definizione, è data dall’incertezza nell’isolamento della causa ambientale. Le diverse posizioni degli studiosi non riescono a trovare un punto comune sulla necessità, per poter parlare di migrante ambientale, di avere una causa climatica come elemento che abbia anche solo

27 «The degree of correlation varies greatly across these works, but environmental variables always

appear as only one driving force of migration among others, obviously confirming the multicausality brought to the fore by skeptics». PIGUET E., From “Primitive Migration” to “Climate Refugees”:

The Curious Fate of the Natural Environment in Migration Studies, cit. p. 156.

Traduzione del redattore.

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contribuito a determinare lo spostamento, oppure se sia necessario che tale elemento

sia stato il fattore principale, e quindi scatenante, del movimento migratorio29. Il bisogno di una definizione precisa non è una pura velleità dottrinale priva di risvolti pratici. Il diritto per sua natura si basa sulla creazione di fattispecie generali e astratte al fine dell’applicazione di un precetto. Queste fattispecie sono composte da elementi che potenzialmente già appartengono al piano della realtà, ma che vengono selezionati dal legislatore e utilizzati per descrivere il perimetro costitutivo della legge, delimitandone in questo modo il campo di applicazione e permettendo la sussunzione di casi specifici all’interno dell’ipotesi generale così descritta dalla fattispecie30

. In quest’ottica, è facile comprendere perché sia necessario, per il giurista, riuscire a categorizzare e dare una definizione adeguata: solo attraverso la definizione di una figura sarà poi possibile fornire a quel soggetto un’adeguata tutela giuridica da parte delle istituzioni.

Ricollegandosi all’analisi dottrinale citata, si può verificare come, al momento, i maggiori sforzi di concettualizzazione siano stati impiegati nella dimostrazione del fattore ambientale come principale causa di spostamento. Bisogna chiedersiperò se ciò sia effettivamente necessario, soprattutto se si effettua il confronto – data l’innegabile analogia del fenomeno - con l’istituto che permette la protezione dei rifugiati. Se infatti la Convenzione di Ginevra è stata fondamentalmente esclusa quale eventuale strumento

29 Nel saggio infatti viene presentata, come esempio lampante di questo problema di

concettualizzazione, la differenza tra due casi standard. Si pensi alle catastrofi ambientali o a eventi climatici improvvisi, quali inondazioni o terremoti: in questi casi è più semplice e immediato stabilire come l’elemento ambientale destabilizzante sia la causa principale, e forse unica, del dislocamento dei soggetti. Isolare la causa risulta molto più difficile invece dove vi sia un cambiamento ambientale a lenta insorgenza, quale può essere un processo di desertificazione, di aumento/diminuzione delle temperature, o di innalzamento del livello del mare, che tuttavia senza dubbio impatta sullo stile di vita e colpisce quei soggetti il cui sostentamento dipende dall’ambiente circostante. Sul punto si veda DUNN O., GEMENNE F., Defining 'environmental migration’, cit. p. 10.

30 Così GUELLA F., L’utilizzo di definizioni “tecnico-scientifiche” nel diritto, in CORTESE F.,

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di risposta alla necessità di tutela del migrante ambientale31, viene messo in evidenza infatti come, nell’applicazione dell’art. 132, non sia necessario identificare l’eventuale

elemento della fattispecie che ci permette di applicare la norma, e quindi la protezione giuridica al soggetto, come l’unico fattore che, da un punto di vista causale, abbia determinato lo spostamento: fondamentale sarà solo verificare se tale elemento vi sia o meno. Una volta stabilito ciò quindi, si procederà per decidere se l’istituto possa essere applicato, indipendentemente dal fatto che la causa della persecuzione fosse l’unico motivo del dislocamento, o avesse agito con altre con-cause.

In virtù di ciò, risulta giustificato chiedersi se sia possibile utilizzare anche nel nostro caso questo paradigma, o se invece sia necessario arrivare ad una ingente violazione dei diritti umani prima di poter applicare un qualsiasi tipo di tutela alla figura in questione33.

L’enucleazione di una definizione, al momento lontana dall’essere raggiunta in modo unanime, si prospetta tuttavia come auspicabile, soprattutto nel momento in cui da questa dipende l’ordine di grandezza dei numeri con cui descrivere il fenomeno, e da questi, a loro volta, dipendono le scelte decisionali degli operatori politici.

Questa esigenza di definizione si scontra con la natura frammentaria ed estremamente complessa del fenomeno che si sta tentando di analizzare. In questa contrapposizione tra le visioni degli “allarmisti” e degli “scettici”, sicuramente l’approccio di questi ultimi ha scoraggiato tutta quell’altra parte di studiosi che invece sostenevano il

31 Sul punto, vedi infra, Cap. I § 3.

32I presupposti presi in considerazione, previsti dalla Convenzione di Ginevra per il riconoscimento

dello status di rifugiato, si riferiscono a «chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi».

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concetto di “rifugiato ambientale”. Questo tuttavia porta a risvolti costruttivi, poiché in questo modo la comunità scientifica è stata resa consapevole delle conseguenze che possono derivare da scelte terminologiche diverse, rimarcando ancora una volta l’assoluta necessità di descrizione e definizione puntuale dei vari aspetti che riguardano il fenomeno34.

3. Il migrante ambientale: le ipotesi definitorie elaborate nel contesto internazionale

Dopo aver esposto i vari approcci con cui la materia sia stata affrontata da parte del mondo accademico, e avendo fatto riferimento alla difficoltà di concettualizzazione di un fenomeno complesso, risulta comunque fondamentale richiamare le definizioni che fino ad ora sono state prodotte dal momento in cui tale tematica è diventata rilevante per la comunità scientifica.

Come già accennato, il primo accenno alla figura del “rifugiato ambientale” è stato effettuato da R. Lester Brown35 nel 1976, mentre la prima definizione è stata fornita da El-Hinnawi nel 198536. A seguire, studi rilevanti sono stati effettuati da Myers e Kent37, i quali si focalizzano sul tentativo di riordinare le cause del fenomeno: «persons who can no longer gain a secure livelihood in their homelands because of environmental

34 Così PIGUET E., Climate change and forced migration, in New Issues in Refugee Research –

Research Paper n. 153, 2008, consultabile al sito www. unhcr.org.

35 BROWN LESTER R., Twenty-Two Dimensions of the Population Problem, Worldwatch Institute,

1976, cit., p. 40.

36 Vedi supra Cap. I § 2, p. 5.

37 MYERS N., KENT J., Environmental exodus: an emergent crisis in the global arena, Project of

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fatcors of unusual scope, notably drought, desertification, deforestation, soil erosion, water shortages and climate change, also natural disasters such as cyclones, storm surges and floods. In face of these environmental threats, people feel they have no alternative but to seek sustenance elsewhere, whether within their own countries or beyond and whether on a semi-permanent or permanent basis»38.

Questa definizione sarà poi ripresa dallo stesso Myers, e si può notare come l’autore, nei saggi successivi39, faccia esplicito riferimento a una categoria ben precisa, ovvero quella definita “Internally Displaced Persons40”: persone che, per cause ambientali improvvise o a lenta insorgenza, decidono di spostarsi ma di rimanere all’interno dei confini del proprio Stato.

Altra differenziazione che viene fatta nel tentativo di fornire delle definizioni, è quella tra i “forced environmental migrant”, persone che devono partire dal luogo in cui abitano per via di una causa scatenante di natura ambientale, in opposizione ai cosiddetti “environmentally motivated migrant”, coloro i quali, invece potrebbero

decidere di spostarsi a causa di un fattore scatenante di natura ambientale41.

38 «Persone che non possono più ottenere un sicuro sostentamento nel territorio natio a causa di

fattori ambientali di portata inusuale, in particolare siccità, desertificazione, deforestazione, erosione del suolo, scarsità d’acqua e cambiamenti del clima, ma anche disastri naturali come cicloni, tempeste e inondazioni. Di fronte a queste minacce ambientali, le persone sentono di non avere altra alternativa se non quella di cercare sostentamento in altri luoghi, che possa essere nei propri stati d’origine o altrove, stabilendosi in queste zone in modo permanente o temporaneo». MYERS N., KENT J., Environmental exodus: an emergent crisis in the global arena, Project of the Climate Institute, Washington DC, 1995, cit. pp. 18-19.

Traduzione del redattore.

39 MYERS N., Environmental refugees: a growing phenomenon of the 21st century, in

Phylosophical transactions of the royal society, Vol. 357, n. 1420, 2001, cit. p. 609.

40 MYERS N., Environmental Refugees: An Emergent Security Issue, Organization for Security and

Co-operation in Europe, 13th Economic Forum, Prague, 2005. Sulla categoria in questione, vedi infra Cap.III § 1.

41 RENAUD F., BOGARDI J.J., DUN O., WARNER K., Control, Adapt or Flee: How to Face

Environmental Migration?, InterSecTions, United Nations University-Institute for environment and

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La diversità di ogni definizione, così come allo stesso tempo il riproporsi di elementi comuni nel tentativo di classificare il fenomeno, rendono sempre più chiaro come, con l’eventuale etichetta di “environmental refugee/migrant”, si corra il rischio di semplificare eccessivamente, proponendo, a livello astratto e di definizione, una mono-causalità che difficilmente si verifica nella realtà42.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM)43

produce periodicamente il cosiddetto “Glossary on Migration”, una pubblicazione che contiene al suo interno un’ampia raccolta di definizioni riguardanti la terminologia relativa alla migrazione. Il lavoro svolto dall’Organizzazione non ha la pretesa di risolvere i complessi e innumerevoli problemi che riguardano questa tematica, o di porre un punto definitivo alle discussioni che si verificano a livello accademico, che invece dimostrano come il dibattito produca contenuti in continua evoluzione; queste definizioni derivano tuttavia da un tentativo di ricondurre a un testo unitario tutta una serie di contenuti che provengono dalle più diversificate istituzioni che operano nel settore. Il diritto internazionale occupa in questo caso un ruolo fondamentale nella creazione di “aspetti comuni denominatori”, poiché fornisce alcune definizioni che provengono o da strumenti già vincolanti per gli Stati che li utilizzano44, o da altri strumenti di soft law

prodotti da organizzazioni che operano a livello internazionale. Se, quindi, molti trattati o glossari si concentrano su aspetti specifici del fenomeno migratorio, oppure si rivolgono a una determinata categoria o ad una delineata area geografica, l’obbiettivo dell’Organizzazione è invece quello di coprire tutte le aree inerenti alla migrazione

42 CASTLES S., Environmental change and forced migration: making sense of the debate, UNHCR

Issues in Refugee Research, Working Paper No. 70, 2002, cit. p. 8.

43 Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), principale organizzazione

intergovernativa in ambito migratorio. Dal settembre 2016 l'OIM è entrata nel sistema ONU diventando Agenzia Collegata alle Nazioni Unite. https://www.iom.int/about-iom

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concentrandosi su termini di uso globale. L’IOM riconosce che la cooperazione transnazionale non può risultare efficace senza la possibilità di attingere a dei tratti comuni, ed è proprio per questo che tenta di fornire strumenti utili per un adeguato approccio alla terminologia migratoria.

A tal proposito l’ultimo report, aggiornato a inizio 2019, definisce in modo specifico l’“environmental migrant” come «A person or group(s) of persons who,

predominantly for reasons of sudden or progressive changes in the environment that adversely affect their lives or living conditions, are forced to leave their places of habitual residence, or choose to do so, either temporarily or permanently, and who move within or outside their country of origin or habitual residence»45.

La definizione presenta aspetti fondamentali che necessitano di alcune considerazioni, e può essere presa come punto di riferimento per le analisi successive. Innanzitutto, vi è la presenza di un fattore climatico, che viene presentato come causa predominante – e quindi non unica – dello spostamento di una o più persone. Tale fattore consiste in un

cambiamento nell’ambiente in cui una determinata persona sta vivendo, cambiamento

che può impattare direttamente sulla vita (vedi maremoti, inondazioni, terremoti), oppure può avere un impatto sulle condizioni di vita di quella persona (per esempio colpire ciò da cui quel determinato soggetto trae sostentamento46). Altra distinzione47 riportata dalla IOM è quella tra coloro che sono obbligati a spostarsi, perché la presenza

45 IOM, Glossary on Migration, International Migration Law, 2019, cit. p. 62.

«Persona o gruppo di persone che, principalmente a causa di improvvisi o progressivi cambiamenti nell’ambiente che impattano negativamente sulle loro condizioni di vita, sono costrette a lasciare i posti in cui hanno dimora abituale, oppure coloro che scelgono di fare questo, in modo temporaneo o permanente, e che decidono di muoversi sia all’interno che all’esterno del Paese dove avevano residenza». Traduzione del redattore.

46 Su ipotesi più specifiche, vedi infra, Cap. IV.

47 Distinzione già accennata precedentemente, vedi supra.

RENAUD F., BOGARDI J.J., DUN O., WARNER K., Control, Adapt or Flee: How to Face

Environmental Migration?, InterSecTions, United Nations University-Institute for environment and

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di quella specifica condizione climatica/ambientale non consente più di poter rimanere in quel luogo specifico, e coloro che, invece, scelgono di farlo. Questa seconda categoria potrebbe essere ricondotta a quei soggetti le cui condizioni di vita vengono destabilizzate dal fattore scatenante, ma non rese del tutto insostenibili. In questo caso quindi quella di trasferirsi potrebbe essere vista come una scelta del soggetto, che decide comunque di cambiare luogo di residenza al fine di trovare condizioni più favorevoli, pur non trattandosi di una condizione indotta da fattori che rendono impossibile l’eventuale permanenza nel luogo di dimora originaria. Altra distinzione che la definizione riporta, sintetizzando le varie correnti di pensiero stratificatesi negli anni48, è quella tra soggetti che si spostano in modo temporaneo, forse nell’attesa che le condizioni che hanno determinato lo spostamento vengano meno, e coloro i quali, invece, sono costretti a migrare in modo permanente. Infine, il riferimento agli

Internally Displaced Persons (IDPs)49, che si mettono al riparo dalle condizioni sfavorevoli spostandosi all’interno del loro stesso Stato. Questi soggetti decidono di rimanere all’interno del proprio Paese per ragioni di varia natura, tra cui anche la possibile pressione economica che il trasferimento in un altro Stato comporterebbe. Possiamo quindi definire questi soggetti come persone che si spostano, ma che, di fatto, non possono essere definiti veri e propri migranti, in quanto non attraversano nessun confine nazionale50.

48 Per verificare l’evoluzione e l’ampliamento dei contenuti del Glossario prodotta

dall’Organizzazione Internazionale per la Migrazione è possibile consultare le versioni pubblicate precedentemente rispetto a quella del 2019.

https://publications.iom.int/

49 Per un’analisi più approfondita della categoria, vedi infra, Cap. III § 1.

50 PERRINI F., Cambiamenti climatici e migrazioni forzate – Verso una tutela internazionale dei

migranti ambientali, Ordine Internazionale e Diritti Umani, Collana Monografie, Vol.4, Editoriale

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4. I tentativi di classificazione dei fenomeni migratori tra multi-causalità e difficoltà di concettualizzazione

E’ ormai chiaro che la migrazione legata ai cambiamenti climatici è un fenomeno complesso da analizzare per via delle innumerevoli sfaccettature con cui può manifestarsi concretamente, motivo per cui anche la sua definizione risulta appunto non univoca. La difficoltà scaturisce principalmente dall’impossibilità di isolare – nel parlare di migrazione - la causa ambientale, e dalla necessità di riconoscere che questa spesso va a sovrapporsi e a intrecciarsi con fattori economici, politici e sociali51. Gli spostamenti migratori, come si è già detto, rappresentano da sempre una risposta che il genere umano ha avuto a disposizione nel momento in cui si presentavano situazioni non favorevoli al normale svolgimento della propria vita nel luogo d’origine o di stanziamento. Si può quindi affermare che il fenomeno in questione certo non è un meccanismo che possa essere ricondotto soltanto alle dinamiche del nostro secolo. Tuttavia, innumerevoli studi scientifici52 hanno da tempo focalizzato la propria attenzione sulle conseguenze che la presenza e l’azione dell’uomo hanno apportato al pianeta sul quale viviamo, modificandone l’equilibrio. Nella concettualizzazione e nell’analisi dei movimenti migratori quindi è doveroso tenere in conto tutti questi fattori, e non dimenticare che la migrazione può e deve essere studiata da molti punti di vista53, affinché non venga letta come una manifestazione necessariamente

51 CASTLES S., Op. cit., p. 5.

52 Per un approfondimento sugli studi effettuati dall’IPCC si consulti il sito

https://www.ipcc.ch/reports/.

53 Non a caso la definizione generica di “migration” fornita dall’Organizzazione Internazionale sulla

Migrazione rimanda ad altri 13 voci di specificazione relativi a tipi di migrazione, tra le quali vi è ovviamente anche la “climate migration”.

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patologica, ma che sicuramente richiede dei meccanismi e delle politiche di gestione efficienti.

Non dimenticando queste premesse fondamentali per l’analisi che si sta per fare, si può passare ora allo studio delle classificazioni che sono state effettuate riguardo il fenomeno della migrazione, avendo sempre come punto di riferimento quella che avviene per cause climatiche.

Anche qui, la prima classificazione è stata data da E. El Hinnawi54, che individua tre categorie: persone che sono sfollate55 temporaneamente ma che potrebbero fare ritorno nel luogo di dimora originario dopo che il danno ambientale sia stato riparato; soggetti sfollati che si sono spostati in modo permanente e si sono quindi reinsediati altrove, e persone che migrano dal loro luogo di origine o di dimora alla ricerca di una migliore qualità di vita poiché l’habitat di origine è stato danneggiato a tal punto da non consentire il soddisfacimento dei bisogni primari. Si può notare quindi che il criterio che l’autore utilizza per fare delle differenziazioni è principalmente quello relativo alla

durata della permanenza dei soggetti nel luogo di destinazione, che di conseguenza è

legata a doppio filo con la durata del perturbamento ambientale che si è verificato nel luogo di origine.

54 EL-HINNAWI E., Environmental Refugees, UNEP, Nairobi, 1985, opera citata in BOANO C.,

ZETTER R., MORRIS T., Environmentally displaced people -Understanding the linkages between

environmental change, livelihoods and forced migration, Refugee Studies Centre, Oxford

Department of International Development, University of Oxford, 2008, cit. p. 7

55 Da notare che l’autore utilizza, in lingua originale, il termine “displaced”, sulla cui traduzione in

lingua italiana è necessario fare un appunto. La parola in questione è utilizzata infatti per descrivere qualcuno che si sia spostato da un determinato luogo perché è stato forzato o obbligato, per questo tradotto come sfollato. N.d.r.

Vedi, a tal proposito, la definizione generale di “displacement”, IOM, Glossary on Migration, p. 53.

(25)

E. Piguet56 invece si concentra su quelle che, secondo uno dei rapporti57 dell’IPCC, sembravano essere le più allarmanti e probabili cause di migrazione. Procede quindi con una differenziazione tra le categorie di migranti basata sul tipo di evento naturale che ha causato il movimento migratorio, iniziando dagli uragani, le piogge torrenziali e le inondazioni.

L’autore effettua una premessa doverosa, chiarendo che non vi sono ancora modelli climatici tali da poter prevedere quali zone saranno colpite, e quindi quanto queste siano popolate al momento del disastro. Piguet afferma che, nonostante la facilità nell’identificare l’impatto che tali fenomeni possono avere sulla popolazione a causa della notevole violenza con cui si manifestano, rimane limitata la potenzialità che questi hanno di provocare movimenti migratori a lungo termine e su lunghe distanze. Questo perché spesso tali accadimenti si hanno in zone particolarmente povere, per cui vi è una tendenza generale a ritornare sulla zona colpita per ricostruire la propria dimora, anziché spostarsi definitivamente altrove, producendo quindi movimenti migratori con esiti permanenti.

Il secondo tipo di fenomeni naturali che prende in considerazione riguarda la siccità e la desertificazione. Piguet riporta le previsioni del report58 IPCC del 2007, ma dati più

aggiornati, provenienti dall’ultimo report59

pubblicato nel 2019 riportano come critica

56 PIGUET E., Climate change and forced migration, in New Issues in Refugee Research – Research

Paper n. 153, 2008, cit. pp. 5-7.

57 IPCC, Climate Change 2007: The Physical Science Basis - Summary for Policymakers IPCC -

Secretariat, Ginevra.

58 IPCC, op. ult. cit.

59 «Asia and Africa are projected to have the highest number of people vulnerable to increased

desertification… Changes in climate can amplify environmentally induced migration both within countries and across borders, reflecting multiple drivers of mobility and available adaptation measures. Extreme weather and climate or slow-onset events may lead to increased displacement, disrupted food chains, threatened livelihoods, and contribute to exacerbated stresses for conflict» IPCC, Climate Change and Land - An IPCC Special Report on climate change, desertification, land

degradation, sustainable land management, food security, and greenhouse gas fluxes in terrestrial ecosystems, Summary for Policymakers, Ginevra, 2019, cit. p. 17.

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la situazione di Asia e Africa, i continenti più colpiti dal fenomeno in questione. In questo caso i cambiamenti, e di conseguenza gli spostamenti migratori, sono a lento esordio e sicuramente meno numerosi rispetto all’ipotesi precedente.

Infine viene preso in considerazione l’innalzamento del livello del mare. Questa, tra tutte le ipotesi trattate, è sicuramente la più critica, ma anche la più semplice da monitorare, a causa della grande presenza di dati relativi all’innalzamento delle acque nelle zone a rischio. Potrebbe quindi essere notevolmente più semplice prevedere alcuni disastri ambientali, ma sicuramente sarebbe necessario prendere in tempo delle misure adeguate per evitare il rischio di spostamenti a lungo termine60.

Infine è possibile prendere in considerazione un’altra classificazione del fenomeno che invece attiene alla volontarietà – o meno – della migrazione, in relazione ai fattori che la hanno scatenata. La prima categoria in questione è quella degli “environmental

emergency migrants”61

. Come è possibile intuire già dalla denominazione, questi soggetti sono coloro i quali si ritrovano necessariamente a doversi spostare a causa di eventi ambientali improvvisi; in questi casi quindi il fattore climatico è la spinta preponderante che porta i migranti ad allontanarsi da un determinato luogo, mentre spinte di carattere economico e sociale assumono una rilevanza solo secondaria. Nel momento in cui questi individui non si spostano oltre i confini nazionali dello Stato di provenienza, vengono individuati come Internally Displaced Persons, e quindi è possibile che ottengano la tutela individuata per loro da parte di strumenti specifici62.

Vi sono poi gli “environmentally forced migrants” : soggetti che sono sempre obbligati a partire, ma non a causa di eventi violenti e improvvisi (quali terremoti, inondazioni o

60 Sull’impatto dell’innalzamento del livello del mare sulle popolazioni che vivono nelle isole

dell’Oceano Pacifico, si veda infra, Cap IV.

61 RENAUD F. G., DUN O., WARNER K., BOGARDI J., A Decision Framework for

Environmentally Induced Migration, International Migration, Vol.49, cit. p. e14.

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uragani), ma piuttosto a causa di modificazioni nell’ambiente che avvengono sul lungo periodo, e che non solo non permettono la permanenza all’interno di quel determinato territorio, ma che inoltre rendono impossibile farvi ritorno, vista l’irreversibilità del deterioramento dell’ambiente geografico, che porta alla scomparsa fisica dei territori (vedi il caso dell’innalzamento del livello del mare), o a una grave compromissione delle capacità di quella determinata zona di fornire mezzi adeguati di sostentamento per la popolazione63.

L’ultima categoria è quella degli “environmentally motivated migrants”, che invece sono soggetti il cui spostamento non è dovuto né a fattori improvvisi né a modificazioni geografiche non immediate, ma comunque percepibili. Rientrano in questa categoria coloro che decidono di spostarsi sempre a causa di un deterioramento dell’ambiente circostante, ma che avviene con un decorso ancora più lento. A differenza della prima categoria che abbiamo preso in considerazione, quindi, in questo caso si ha a che fare con persone le cui scelte sono fortemente influenzate anche da fenomeni sociali ed economici, oltre che ambientali, e che decidono quindi di prevenire eventuali situazioni particolarmente problematiche con uno spostamento preventivo. In questo caso quindi, sarebbe appropriato attuare delle politiche di prevenzione, o la diffusione di tecniche e mezzi di sostentamento alternativi per le popolazioni stanziate nelle zone a rischio, in modo da poter evitare l’eventualità di spostamenti ingenti in un futuro prossimo. Questa categorizzazione è utile infatti al fine di individuare i mezzi di intervento più adatti a seconda delle diverse ipotesi: è infatti semplice comprendere che le diverse situazioni

(28)

di rischio analizzate richiederanno strumenti differenti per poter fronteggiare la situazione64.

Sempre secondo F. Renaud e gli altri autori, inoltre, è possibile ricondurre le categorie ora analizzate alle caratteristiche dei fenomeni climatici e ai loro tempi di decorrenza65. Quando si tratta di fenomeni rapidi e improvvisi66, inizialmente la categoria di riferimento è sempre quella degli environmental emergency migrants67. Poi, nel momento in cui si svolgono interventi rapidi e mirati nella zona colpita, sia di natura fisica, per ricostituire le zone andate distrutte, che di natura sociale ed economica, e nonostante questo le persone fuggite decidono di non fare ritorno nel luogo originario, allora quella categoria iniziale si trasforma in quella degli evironmentally motivated

migrants: questi soggetti, nonostante la cessazione del rischio dovuto all’iniziale fattore

destabilizzante di natura ambientale, decidono ugualmente di non fare più ritorno, facendo prevalere quindi fattori di spinta economici, o comunque di natura diversa rispetto a quella ambientale. Quando invece, dopo l’evento improvviso e distruttivo, le dinamiche di intervento e ricovero nelle zone colpite sono lente e poco efficienti, la categoria iniziale di riferimento si trasforma in quella di environmentally forced

migrants: in questo caso i soggetti, pur volendo, non possono fare ritorno nei luoghi di

dimora originari, perché le condizioni di questi non permettono da nessun punto di vista tale possibilità.

64 E’ proprio questo lo scopo per cui si ritiene sensata, e particolarmente utile una classificazione in

tale ambito. Nel momento in cui si ha a che fare con persone che si sono già spostate a causa di disastra ambientali, sarà necessaria un certo tipo di tutela che attiene soprattutto alla protezione dei diritti di questi soggetti nel luogo di arrivo. Molto diversi possono essere gli strumenti da impiegare quando, invece, è necessario fronteggiare eventi ipotetici che devono ancora verificarsi. N.d.r.

65 In questo è possibile effettuare una analogia con la classificazione effettuata da PIGUET E.

L’autore tuttavia prende in considerazione degli eventi atmosferici ber precisi a supporto della sua differenziazione, mentre RENAUD F. G., DUN O., WARNER K., BOGARDI J. effettuano una classificazione generale tra “Rapid Onset Hazard” e “Loss of Ecosystem Services and Slow Onset

Hazards”,vedi supra, p. 18.

66 Cosiddetti rapid onset disasters.

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Se invece partiamo parlando di eventi che si verificano in lunghi periodi, quindi ad

esordio lento68, qualora la componente che causa un qualsiasi spostamento non sia legata a tali fattori ambientali, allora si è del tutto al di fuori delle ipotesi di migranti ambientali.

Quando, al contrario, tale fattore è determinante, ma non lo è a tal punto da non consentire una eventuale permanenza in quel territorio, attraverso la ricerca di metodi di sostentamento alternativi, il soggetto che ugualmente abbandona quel territorio sarà considerato environmentally motivated migrant. Se, infine, tecniche di sostentamento alternative non sono auspicabili o concretamente applicabili, o se ciò non è fattibile in tempi più o meno brevi, compatibili con la permanenza nei luoghi dei soggetti colpiti, allora questi rientreranno nella categoria degli environmentally forced migrants. Altro punto di vista sulla questione è quello proposto invece da D. C. Bates69 , che divide i migranti ambientali in tre categorie. La prima categoria si riferisce ai gruppi migratori dovuti a disastri70, quindi eventi naturali non prevedibili che causano un

dislocamento di soggetti provenienti da un’area limitata. Da notare che in questa categoria la Bates fa rientrare sia i disastri di origine naturale, che quelli che definisce

tecnologici, quindi fondamentalmente dovuti principalmente ad errori in attività

pericolose gestite dall’uomo. Sempre in questa categoria potrebbero rientrare quindi eventi e fenomeni che scaturiscono da una nefasta combinazione tra fattori scatenanti di diversa natura.

La seconda categoria invece attiene a coloro i quali hanno dovuto spostarsi in modo permanente poiché i territori d’origine sono stati espropriati o distrutti appositamente.

68 Detti invece slow onset disasters.

69 BATES C.D., Environmental refugees? Classifying human migrations caused by environmental

change, in Population and Environment, Vol.23, n.5, 2002.

(30)

Questa differenziazione drammatica fa riferimento in primis a quelle ipotesi in cui intere comunità vengono dislocate perché le aree sulle quali abitano sono destinate ad accogliere progetti architettonici volti a raggiungere un maggiore sviluppo economico della zona: si pensi alla realizzazione di dighe per il funzionamento di centrali idroelettriche, per esempio, oppure alla costruzione di infrastrutture all’interno di territori ancora incontaminati, che porta inevitabilmente alla distruzione dell’habitat originario di numerosi gruppi di indigeni.

Vi è poi l’ipotesi in cui venga messa in atto, intenzionalmente, la distruzione di un intero ambiente e delle sue componenti naturali, con il fine specifico di causare lo spostamento delle popolazioni che vi abitano e che traggono da quelle sostentamento o protezione71, come avvenne tra gli anni ‘60 e ’70, ad opera degli Stati Uniti durante la

guerra del Vietnam72.

Infine, il terzo tipo di categoria a cui fa riferimento la Bates prende in considerazione i movimenti migratori dovuti al lento deterioramento ambientale di determinate zone a causa dell’azione umana. Il riconoscimento di questa categoria di soggetti è ancora più difficile, poiché in un certo senso si tratta di persone che hanno modo di scegliere quando e dove migrare a causa della lentezza con cui il fenomeno si sviluppa. Paradossalmente, possono anche voler tentare di rimanere all’interno del territorio originario, cercando dei mezzi per adattarsi al cambiamento, a differenza di quanto abbiamo potuto vedere per i soggetti che appartengono alle due categorie precedenti, i

71 L’autrice parla a tal proposito di “ecocide”, pratica utilizzata per effettuare spostamenti di massa

durante periodi di guerra e conflitti armati.

72 L’esercito statunitense utilizzò infatti il cosiddetto Agente Arancio, un defoliante che attaccava le

piante e ne causava il veloce deperimento. Questo al fine di eliminare le foglie dagli alberi e far venir meno così la copertura della quale i vietnamiti si avvalevano, come strumento di protezione dall’esercito statunitense, durante i conflitti armati. La sostanza di cui era intriso il terreno causa ancora ora conseguenze agghiaccianti.

(31)

quali si trovano davanti a fenomeni così drastici o improvvisi da non lasciare loro altra scelta se non quella di migrare. Molto spesso invece accade che solo un membro del nucleo familiare si sposti, in modo da poter cercare altrove migliori condizioni di lavoro, e poter aiutare la famiglia inviando denaro sotto forma di rimesse73.

Anche la Bates utilizza una differenziazione a livello di terminologia: l’autrice infatti parla di rifugiati, quando fa riferimento a categorie di persone che sono costrette a spostarsi. Chiama invece emigranti coloro i quali scelgono di trasferirsi, quindi quando il movimento migratorio non è del tutto obbligato, ma presuppone un certo livello di volontarietà.

Tuttavia, anche nell’approccio alla categorizzazione, esattamente come è stato possibile vedere con la definizione della figura di migrante – o rifugiato – ambientale, vi sono punti di vista molto diversificati che emergono all’interno del dibattito accademico.

A tal proposito, F. Biermann e I. Boas74 delineano il fenomeno innanzitutto escludendo

tutta una serie di ipotesi che non dovrebbero rientrare all’interno del tipo di tutela a cui si accenna nel loro lavoro. Rimarrebbero fuori dai confini della figura del rifugiato

ambientale, quindi, fenomeni migratori dovuti a ondate di calore o diffusione di

malattie tropicali, spostamenti dovuti a tentativi di adattamento al riscaldamento globale. Sono esclusi anche soggetti sottoposti a incidenti industriali o a catastrofi simili ad eruzioni: questo perché, nel caso di questi soggetti, i governi nazionali dovrebbero adoperarsi per fornire una tutela che sia riconducibile a quella dei programmi di soccorso previsti nell’eventualità di calamità. Vengono infine esclusi

73 BONCIANI B., Rimesse dei migranti e processi di sviluppo. Quadro attuale, rischi e opportunità,

Franco Angeli, 2017.

74 BIERMANN F., BOAS I., Preparing for a Warmer World: Towards a Global Governance System

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dalla categoria soggetti influenzati dalle conseguenze di conflitti internazionali o nazionali, conseguenze che possono manifestarsi in un deterioramento delle risorse naturali.

Quindi la figura finale oggetto di studio, così delineata in negativo, coincide con quella di individui colpiti da fenomeni riconducibili all’innalzamento del livello del mare, a manifestazioni climatiche estreme, quali tempeste o alluvioni tropicali, e a critiche situazioni di scarsità di risorse idriche, che conducono a siccità estrema e desertificazione.

Il punto fondamentale e critico di questo studio, tuttavia, è proprio quello in base al quale una suddivisione in categorie – come invece è stato proposto da numerosi altri autori75 – può non essere efficiente in termini di risoluzione del problema dal punto di

vista della tutela giuridica. Anzi, la distinzione dei diversi fenomeni in “classi” di migranti, il cui criterio di differenziazione sia la volontarietà o meno dello spostamento geografico dei soggetti, o ancora, una classificazione basata sul carattere temporaneo o permanente di tale spostamento, può, secondo F. Bierman e I. Boas, portare ad una approssimativa creazione di diversi livelli di tutela giuridica.

Questi livelli scaturirebbero da una distinzione non corrispondente a categorie reali, dato che la costruzione di queste, più che basarsi su criteri di differenziazione quali

volontarietà o permanenza nel tempo, il più delle volte fa riferimento, concretamente,

solo al grado di forza, e resistenza, con cui determinati soggetti tentano di adattarsi al mutamento climatico prima di essere costretti a migrare. Allo stesso tempo, però, non si può dimenticare che questo meccanismo di adattamento sarà influenzato da tutta una serie di altri fattori, data ormai per assodata la multi-causalità che caratterizza il

(33)

fenomeno: proprio da questa constatazione scaturisce lo scetticismo nei confronti dell’approccio accademico che tende alla categorizzazione.

Inoltre, anche qui è possibile trovare di nuovo un focus riguardante la terminologia utilizzata per indicare il fenomeno. Fino ad ora ci si è riferiti a questa categoria utilizzando diverse denominazioni. F. Bierman e I. Boas ritengono che sia appropriato parlare del fenomeno in questione utilizzando la denominazione di «rifugiato climatico». Questo perché innanzitutto la tutela dovrebbe essere globale, e così come non è possibile ricondurre il fenomeno a delle categorie, non è possibile neppure distinguere i soggetti semplicemente basandosi sull’attraversamento, da parte di questi, dei propri confini nazionali76. In secondo luogo, nonostante l’utilizzo del termine

rifugiato riconduca a una tutela giuridica per figure ben determinate77, e possa quindi

produrre delle incongruenze, si tratta comunque di un termine comunemente utilizzato per indicare figure che necessitano di un’immediata e urgente protezione, e come tale è accompagnato da una forte connotazione morale percepita in molte culture. Gli autori quindi ritengono che, vista la pregnanza semantica che tale denominazione può assumere, sarà appropriato definire coloro i quali devono abbandonare il loro ambiente naturale per le cause dette prima come «rifugiati climatici».

76 Si ricordi che il riferimento alla categoria di migranti che non oltrepassano il confine del proprio

Paese è quello di Internally Displaced Persons. BIERMAN F. e BOAS I., invece, propongono di utilizzare in modo comune e ampio la denominazione di «rifugiato climatico». BIERMANN F., BOAS I., op. cit., p. 65.

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