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In cerca di compassione: la scena del carcere

La mutilazione delle Erme nella ricostruzione andocidea

3.3 In cerca di compassione: la scena del carcere

Come avviene nella sezione dedicata alle vicende legate alla profanazione dei Misteri, si può osservare come anche nella sezione dedicata alla mutilazione delle Erme Andocide si serva di tutti i mezzi retorici a sua disposizione, dalle argomentazioni logiche unite alle verosimiglianze, alla descrizione di scene ricche di

pathos.

Particolarmente illuminante, a tal proposito, è il racconto della permanenza in carcere dell’oratore. Egli, insieme ai membri della sua famiglia denunciati, viene portato in prigione e ricorda questi drammatici momenti in un lungo passaggio dell’orazione Sui Misteri, che merita di essere citato per intero:

Ἐπειδὴ δὲ ἐδεδέμεθα πάντες ἐν τῷ αὐτῷ καὶ νύξ τε ἦν καὶ τὸ δεσμωτήριον συνεκέκλῃτο, ἧκον δὲ τῷ μὲν μήτηρ τῷ δὲ ἀδελφὴ τῷ δὲ γυνὴ καὶ παῖδες, ἦν δὲ βοὴ καὶ οἶκτος κλαόντων καὶ ὀδυρομένων τὰ παρόντα κακά, λέγει πρός με Χαρμίδης, ὢν μὲν ἀνεψιός, ἡλικιώτης δὲ καὶ συνεκτραφεὶς ἐν τῇ οἰκίᾳ τῇ ἡμετέρᾳ ἐκ παιδός, ὅτι «Ἀνδοκίδη, τῶν μὲν παρόντων κακῶν ὁρᾷς τὸ 25 Cfr. infra pp. 64-69.

26 And. 1.47. Anche in questo caso la lista è preceduta dalla consueta formula ʽἀναγίγνωσκεʼ, rivolta ad un addetto alla lettura: cfr. supra p. 48 e Capitolo 2, p. 33. I commentatori hanno evidenziato il fatto che il numero dei parenti qui elencati non corrisponde al numero dei parenti citati al § 68, e per questo sono state proposte diverse emendazioni al testo tradito. Cfr. su questo Dalmeyda 1930, 33 n. 2; MacDowell 1962, 105. Non credo tuttavia che si debba necessariamente richiedere all’oratore una coerenza assoluta nel citare il numero dei parenti coinvolti, né, nel caso in cui tale coerenza venga a mancare, ritenere che egli voglia deliberatamente ingannare su questo la giuria. Due sono le possibilità relative a questa incoerenza imputata ad Andocide: egli può aver citato al § 47 solo alcuni nomi dei parenti coinvolti, oppure può aver sbagliato il numero di essi al § 68; in ogni caso, l’errore dell’oratore, questa volta forse in buona fede, non sembra una ragione sufficiente per emendare il testo tradito. Altra possibilità (MacDowell 1962, 105) è che due nomi della lista al § 47 siano andati persi nella tradizione manoscritta.

54 μέγεθος, ἐγὼ δ’ ἐν μὲν τῷ παρελθόντι χρόνῳ οὐδὲν ἐδεόμην λέγειν οὐδέ σε λυπεῖν, νῦν δὲ ἀναγκάζομαι διὰ τὴν παροῦσαν ἡμῖν συμφοράν. Οἷς γὰρ ἐχρῶ καὶ οἷς συνῆσθα ἄνευ ἡμῶν τῶν συγγενῶν, οὗτοι ἐπὶ ταῖς αἰτίαις δι’ ἃς ἡμεῖς ἀπολλύμεθα οἱ μὲν αὐτῶν τεθνᾶσιν, οἱ δὲ οἴχονται φεύγοντες, σφῶν αὐτῶν καταγνόντες ἀδικεῖν ...28 εἰ ἤκουσάς τι τούτου τοῦ πράγματος τοῦ γενομένου, εἰπέ, καὶ πρῶτον μὲν σεαυτὸν σῷσον, εἶτα δὲ τὸν πατέρα, ὃν εἰκός ἐστί σε μάλιστα φιλεῖν, εἶτα δὲ τὸν κηδεστήν, ὃς ἔχει σου τὴν ἀδελφὴν ἥπερ σοι μόνη ἐστίν, ἔπειτα δὲ τοὺς ἄλλους συγγενεῖς καὶ ἀναγκαίους τοσούτους ὄντας, ἔτι δὲ ἐμέ, ὃς ἐν ἅπαντι τῷ βίῳ ἠνίασα μέν σε οὐδὲν πώποτε, προθυμότατος δὲ εἰς σὲ καὶ τὰ σὰ πράγματά εἰμι, ὅ τι ἂν δέῃ ποιεῖν». Λέγοντος δέ, ὦ ἄνδρες, Χαρμίδου ταῦτα, ἀντιβολούντων δὲ τῶν ἄλλων καὶ ἱκετεύοντος ἑνὸς ἑκάστου, ἐνεθυμήθην πρὸς ἐμαυτόν· «Ὢ πάντων ἐγὼ δεινοτάτῃ συμφορᾷ περιπεσών, πότερα περιίδω τοὺς ἐμαυτοῦ συγγενεῖς ἀπολλυμένους ἀδίκως, καὶ αὐτούς τε ἀποθανόντας καὶ τὰ χρήματα αὐτῶν δημευθέντα, πρὸς δὲ τούτοις ἀναγραφέντας ἐν στήλαις ὡς ὄντας ἀλιτηρίους τῶν θεῶν. τοὺς οὐδενὸς αἰτίους τῶν γεγενημένων, ἔτι δὲ τριακοσίους Ἀθηναίων μέλλοντας ἀδίκως ἀπολεῖσθαι, τὴν δὲ πόλιν ἐν κακοῖς οὖσαν τοῖς μεγίστοις καὶ ὑποψίαν εἰς ἀλλήλους ἔχοντας, ἢ εἴπω Ἀθηναίοις ἅπερ ἤκουσα Εὐφιλήτου αὐτοῦ τοῦ ποιήσαντος;»29

ʽE poi tutti fummo in catene nella stessa prigione, sopraggiunse la notte e la cella fu chiusa a chiave, e arrivarono per uno la madre, per un altro la sorella, per un altro ancora la moglie con i figli, e vi erano grida e gemiti di persone che piangevano e si lamentavano delle disgrazie del momento. Fu a quel punto che Carmide, che era mio cugino e coetaneo, che da bambino era cresciuto insieme a me a casa nostra, mi dice: «Andocide, puoi vedere la gravità dei mali presenti; io in passato non ho mai avuto niente da ridire con te, né ti ho mai creato fastidi; ma ora sono costretto dalla disgrazia che ci coinvolge in questo momento. I tuoi conoscenti e i tuoi amici, per non parlare dei nostri parenti, tutti questi, a causa delle stesse accuse per mezzo delle quali anche noi siamo rovinati, alcuni sono morti, altri se ne sono andati in

esilio, avendo riconosciuto la loro colpevolezza…………28 Se hai sentito dire

qualcosa di questa faccenda, dillo, e salva te stesso, poi tuo padre, che è giusto

28 MacDowell osserva come nel manoscritto sia stato lasciato deliberatamente uno spazio di circa dodici lettere dal copista: MacDowell 1962, 98-99. Cfr. anche Blass-Fuhr 1913, 23; Dalmeyda 1930, 33; Maidment 1941, 380.

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che tu ami in particolar modo, poi tuo cognato, che è il marito della tua unica sorella, e poi tutti i parenti e consanguinei, che sono tanti, e poi anche me, che non ti ho mai una volta arrecato un danno in tutta la mia vita, ma anzi sono stato sempre pronto a fare ciò di cui ci fosse bisogno in relazione a te e ai tuoi interessi.». Dopo che Carmide disse queste cose, signori, e ognuno degli altri mi pregava e supplicava, pensai tra me e me: «O me sventurato, che mi sono imbattuto nella disgrazia più grave di tutte, forse dovrei sopportare che i miei parenti siano rovinati ingiustamente, che muoiano loro stessi, che i loro beni siano confiscati e che i loro nomi siano inscritti sulle stele come empi, pur non essendo loro colpevoli di nessuna delle cose accadute, e che trecento ateniesi siano destinati ad essere ingiustamente rovinati, e che la città si trovi nei mali più gravi e che i miei concittadini si sospettino l’uno con l’altro, o dovrei raccontare agli ateniesi le cose che ho sentito da Eufileto in persona, che ha compiuto il misfatto?».ʼ

Come si può notare a prima vista, la narrazione è molto ben riuscita e riesce a riprodurre l’atmosfera tetra della prigione in cui Andocide e i suoi parenti si trovano. Tutta la scena è giocata sul pathos: l’oratore, anche tramite diversi espedienti retorici, cerca di muovere a compassione i giudici, cercando la loro immedesimazione in quella situazione drammatica. A tal fine sono inseriti nella narrazione molti particolari emotivamente orientati, che non sono necessari all’economia della pura e semplice narrazione del motivo che ha spinto Andocide a parlare in carcere: uno di questi è la presenza di madri, sorelle e mogli accanto ai loro congiunti, che piangono e lamentano la sorte che aspetta i loro cari. La loro presenza e il loro piangere e lamentarsi richiama immediatamente alla mente la scena di un funerale, dove i parenti -soprattutto quelli di sesso femminile- usano manifestare esplicitamente il loro dolore attraverso pianti e urla. Fin dall’inizio dunque la scena è caratterizzata in modo lugubre: scende la notte, in carcere è buio ma si odono i lamenti delle donne, che piangono i loro cari quasi come se fossero già morti. L’attenzione si sposta a questo punto su Carmide: egli viene descritto come un cugino coetaneo, ma si aggiunge il particolare che è cresciuto a casa di Andocide. Tale particolare non è funzionale in sé e per sé alla narrazione, ma risulta emotivamente orientato, poichè indica, da un lato, che Carmide era cresciuto orfano di padre, e per questo era stato allevato a casa dello zio e, dall’altro, che egli, presumibilmente, era molto legato ad Andocide, con cui doveva avere dunque un

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rapporto fraterno30. Si produce così l’immagine di un giovane che aveva già subito la

sfortuna di essere cresciuto senza padre, che ora ingiustamente si trova chiuso in carcere, e che si rivolge accoratamente ad Andocide anche in virtù del loro rapporto fraterno; contemporaneamente, viene presentato ai giudici una sorta di obbligo morale che all’epoca l’oratore sentì di avere nei confronti del cugino, obbligo che lo spinse a denunciare altre persone per poter salvare se stesso e la sua famiglia.

Dopo una parte descrittiva, la scena continua con il discorso di Carmide31, riportato in forma diretta da Andocide sempre con l’intento di materializzare nel concreto la scena32. Anch’esso è costruito in modo tale da creare compassione: trattandosi di un discorso all’interno di un altro discorso, tale compassione viene a crearsi con un gioco prospettico ad un primo livello, quello del racconto, in Andocide, poi, ad un secondo livello, tramite il meccanismo di immedesimazione dei giudici, che Andocide stesso mira a creare con questa scena33, anche nella giuria. Dopo aver ricordato al cugino che i suoi amici (oἷς γὰρ ἐχρῶ καὶ οἷς συνῆσθα) hanno confessato le loro colpe, e quindi sono comunque rovinati, Carmide cerca di convincerlo a parlare contro di loro per poter salvare i parenti ingiustamente coinvolti nella vicenda34. Questa seconda parte del suo discorso è quella che più direttamente punta all’emotività, anche attraverso l’utilizzo di mezzi retorici: in un climax sono elencate le persone che Andocide potrebbe salvare con la sua denuncia, dal padre fino a Carmide stesso; per introdurre ognuna di esse viene utilizzata la serie anaforica, ma con variatio finale, εἶτα δὲ…εἶτα δὲ…ἔπειτα δὲ…ἔτι δὲ, che scandisce ritmicamente l’elenco; ogni elemento viene inoltre ampliato con un’attribuzione, anche questa volta con variatio (si usa per tre volte una proposizione relativa e una volta un participio). È proprio attraverso l’utilizzo di queste espansioni non necessarie che si punta alla creazione di un legame empatico tra Carmide e Andocide, e, al secondo livello, con la giuria. Attraverso di esse si esprime la motivazione per la quale Andocide dovrebbe salvare un determinato congiunto e si enfatizza quindi la responsabilità che egli ha nei

30 Come già accennato, gli studiosi discutono se questo Carmide sia lo stesso che compare tra le persone denunciate da Agariste: cfr. supra Capitolo 2, p. 36 con n. 51.

31 And. 1.49-50. 32 Usher 1999, 47.

33 Più avanti nel testo il tentativo di far immedesimare i giudici diventa esplicito. Al § 57 l’oratore dice: Φέρε δὴ (χρὴ γάρ, ὦ ἄνδρες, ἀνθρωπίνως περὶ τῶν πραγμάτων ἐκλογίζεσθαι, ὥσπερ ἂν αὐτὸν ὄντα ἐν τῇ συμφορᾷ) τί ἂν ὑμῶν ἕκαστος ἐποίησεν;

34 A questo proposito gli studiosi hanno approfondito il tema dell’opposizione tra legami di eteria e legami familiari. Tucidide, parlando della guerra civile di Corcira, individua tra le cause del conflitto tra fazioni proprio il prevalere dei legami di eteria su quelli di sangue (Thuc. III.82.6).

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confronti dei suoi familiari: egli deve salvare il padre perché è la persona verso la quale è giusto che egli abbia più affetto35; deve salvare il cognato perché è il marito

della sua unica sorella; deve salvare gli altri parenti, che sono molto numerosi; deve infine salvare Carmide perché gli è stato sempre fedele negli anni.

Terminato il discorso di Carmide, Andocide descrive come tutti i presenti, uno per uno, lo supplichino di rivelare quello che sa sulla questione della mutilazione per liberarli. Continuando nell’analisi di questa scena si può osservare, peraltro, che anche lo specificare che i parenti lo supplichino uno per uno (ἀντιβολούντων δὲ τῶν ἄλλων καὶ ἱκετεύοντος ἑνὸς ἑκάστου) è un’aggiunta non necessaria, ma che rafforza il pathos che l’oratore vuole creare tra i componenti della giuria.

Dopo aver ricevuto le suppliche di tutti i parenti, Andocide si trova costretto ad una difficile decisione: tradire gli amici, colpevoli, e parlare contro di loro, oppure veder morire molti componenti della sua famiglia, accusati ingiustamente. Ancora una volta, per creare un meccanismo di empatia nei giudici, egli decide di descrivere il suo travaglio interiore esplicitandolo in un soliloquio, molto elaborato dal punto di vista retorico36. Dopo una frase introduttiva che sembra subire l’influenza del linguaggio tragico37, la riflessione andocidea viene espressa tramite una lunga proposizione interrogativa disgiuntiva, in cui il primo membro è molto dilatato e costruito in forma di tricolon e climax38: se Andocide non si decide a parlare vedrà rovinati i suoi parenti, trecento cittadini e infine la città intera, distrutta dalle lotte intestine e dai sospetti reciproci. Dicendo così, inoltre, egli anticipa un concetto sul quale punterà immediatamente dopo questa descrizione, e cioè la capitale importanza che la sua denuncia ha avuto per l’intera città, che solo grazie a lui ha potuto finalmente ritrovare la serenità dopo momenti di panico generalizzato39.

Oltre al carico di pathos che la contraddistingue40 la scena del carcere, considerata dalla critica uno dei capolavori narrativi di questa orazione41, si caratterizza, come il

35 Torna dunque il tema dell’affetto filiale, emerso anche nel resoconto relativo alla profanazione dei Misteri: cfr. supra Capitolo 2, pp. 42-43 e Strauss 1993.

36 And. 1.51. Cfr. Usher 1999, 47.

37 Ὢ πάντων ἐγὼ δεινοτάτῃ συμφορᾷ περιπεσών: cfr. Blass 1868, 310.

38 Insieme ad Edwards 1995, 173 possiamo anche notare la ripetizione enfatica, a breve distanza e con andamento chiastico, ἀπολλυμένους ἀδίκως/ἀδίκως ἀπολεῖσθαι e l’allitterazione all’inizio della lunga proposizione interrogativa: περιπεσών, πότερα περιίδω.

39 Cfr. And. 1.59 e 68 e infra pp. 64-69.

40 Per il pathos nella scena del carcere, cfr. Strauss 1993, 263-264. Ober-Strauss 1990, 256-258 evidenziano le somiglianze di questa scena con alcune scene tragiche: è possibile che Andocide cerchi di influenzare il suo uditorio utilizzando paradigmi tragici ben noti ad un qualunque cittadino ateniese. 41 Cfr. ad esempio Jebb 1893, 127.

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resto del discorso, per un resoconto parziale di quelli che dovevano essere stati gli eventi reali. Ciò emerge sia attraverso una lettura attenta delle parole di Andocide sia, come di consueto quando è possibile, attraverso il confronto con le altre fonti.

Per cominciare, provoca un sicura impressione affermare, a quindici anni di distanza dai fatti, che trecento persone furono salvate grazie alle rivelazioni di Andocide. Tuttavia, come osservano alcuni commentatori, per quanto Dioclide avesse detto di aver visto circa trecento persone, la sua denuncia conteneva soltanto quarantadue nomi, per cui i ʽtrecento ateniesiʼ di cui parla l’oratore42, pur rispondendo solo in parte alla realtà, sono da lui citati per enfatizzare la gravità del momento e il valore salvifico della sua denuncia43.

Come già accennato, la vicenda della permanenza in carcere è caratterizzata dalla particolarità di essere stata narrata anche da altre fonti. Rispetto agli altri casi in cui la versione andocidea è confrontabile con altri resoconti, mi sembra tuttavia che questa situazione sia diversa: se nei casi di denunce si trattava di eventi esterni (o che comunque non avevano Andocide come diretto protagonista) documentabili anche tramite atti ufficiali, il racconto della permanenza in carcere ha come protagonista Andocide e non può essere confrontato per mezzo di nessun documento ufficiale. In poche parole, si tratta di una situazione in cui Andocide si trova ad essere molto più libero di dare una sua versione, non potendo essere confutato chiaramente (si tratterebbe infatti della sua parola contro quella di un’altra persona), e, contemporaneamente, di una situazione poco controllabile dallo studioso moderno che si trova ad occuparsene, perché, in questo caso, le altre fonti si appoggiano semplicemente ad un sentito dire, a delle illazioni, cui dunque non spetta un maggior credito che alle parole di Andocide. La conseguenza è che, in questo contesto, non si può sapere veramente in cosa il racconto di Andocide si discosti dalla realtà, e ci si può soltanto limitare a notare le differenze tra i resoconti, cercando, se possibile, di capire da cosa queste differenze si siano originate.

Le altre fonti che raccontano la permanenza in carcere dell’oratore sono Plutarco e Tucidide:

Plu. Alc. 21.1 e 4-6:

42 And. 1.51.

59 Τῶν οὖν δεθέντων καὶ φυλαττομένων ἐπὶ κρίσει τότε καὶ Ἀνδοκίδης ἦν ὁ ῥήτωρ […] συνέβη δὲ τῷ Ἀνδοκίδῃ μάλιστα τῶν τὴν αὐτὴν αἰτίαν ἐχόντων ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ γενέσθαι συνήθη καὶ φίλον, ἔνδοξον μὲν οὐχ ὁμοίως ἐκείνῳ, συνέσει δὲ καὶ τόλμῃ περιττόν, ὄνομα Τίμαιον. οὗτος ἀναπείθει τὸν Ἀνδοκίδην ἑαυτοῦ τε κατήγορον καί τινων ἄλλων γενέσθαι μὴ πολλῶν· ὁμολογήσαντι γὰρ ἄδειαν εἶναι κατὰ ψήφισμα τοῦ δήμου, τὰ δὲ τῆς κρίσεως ἄδηλα πᾶσι, τοῖς δὲ δυνατοῖς φοβερώτατα· βέλτιον δὲ σωθῆναι ψευδόμενον ἢ μετὰ τῆς αὐτῆς αἰτίας ἀποθανεῖν ἀδόξως, καὶ τὸ κοινῇ σκοποῦντι συμφέρον ὑπάρχειν, ὀλίγους καὶ ἀμφιβόλους προέμενον, πολλοὺς καὶ ἀγαθοὺς ἐξελέσθαι τῆς ὀργῆς. ταῦτα τοῦ Τιμαίου λέγοντος καὶ διδάσκοντος, ὁ Ἀνδοκίδης ἐπείσθη, καὶ γενόμενος μηνυτὴς καθ’ αὑτοῦ καὶ καθ’ ἑτέρων, ἔσχε τὴν ἀπὸ τοῦ ψηφίσματος ἄδειαν αὐτός, οὓς δ’ ὠνόμασε πάντες πλὴν τῶν φυγόντων ἀπώλοντο. καὶ πίστεως ἕνεκα προσέθηκεν αὐτοῖς οἰκέτας ἰδίους ὁ Ἀνδοκίδης.

ʽTra quanti allora erano incarcerati e attendevano il giudizio, vi era anche l’oratore Andocide […] Accadde dunque ad Andocide che, in carcere, tra quelli che avevano la medesima imputazione gli divenne familiare e amico un certo Timeo, non famoso quanto lui, ma straordinario per intelligenza e coraggio. Costui persuase Andocide a presentare denuncia contro se stesso e alcuni altri, non molti però: se avesse confessato vi sarebbe stata infatti l’immunità, secondo un decreto del popolo, mentre il giudizio sarebbe stato incerto per tutti ma estremamente pericoloso per i potenti; era meglio salvarsi mentendo che morire ignobilmente con la stessa imputazione e, mirando all’interesse comune, sottrarre all’ira molte persone perbene, lasciando perdere pochi individui ambigui. Timeo spiegò queste cose e Andocide ne fu persuaso e, dunque, presentando denuncia contro se stesso e altri, ebbe lui stesso l’immunità che derivava dal decreto, mentre tutti quelli che nominò furono mandati a morte, tranne quanti fuggirono. Per essere creduto, Andocide presentò anche alcuni suoi servi.ʼ

Thuc. VI.60.2-4: καὶ ὡς αὐτῶν διὰ τὸ τοιοῦτον ὀργιζομένων πολλοί τε καὶ ἀξιόλογοι ἄνθρωποι ἤδη ἐν τῷ δεσμωτηρίῳ ἦσαν καὶ οὐκ ἐν παύλῃ ἐφαίνετο, ἀλλὰ καθ’ἡμέραν ἐπεδίδοσαν μᾶλλον ἐς τὸ ἀγριώτερόν τε καὶ πλείους ἔτι ξυλλαμβάνειν, ἐνταῦθα ἀναπείθεται εἷς τῶν δεδεμένων, ὅσπερ ἐδόκει αἰτιώτατος εἶναι, ὑπὸ τῶν ξυνδεσμωτῶν τινὸς εἴτε ἄρα καὶ τὰ ὄντα μηνῦσαι εἴτε καὶ οὔ· ἐπ’

60 ἀμφότερα γὰρ εἰκάζεται, τὸ δὲ σαφὲς οὐδεὶς οὔτε τότε οὔτε ὕστερον ἔχει εἰπεῖν περὶ τῶν δρασάντων τὸ ἔργον. λέγων δὲ ἔπεισεν αὐτὸν ὡς χρή, εἰ μὴ καὶ δέδρακεν, αὑτόν τε ἄδειαν ποιησάμενον σῶσαι καὶ τὴν πόλιν τῆς παρούσης ὑποψίας παῦσαι· βεβαιοτέραν γὰρ αὐτῷ σωτηρίαν εἶναι ὁμολογήσαντι μετ’ ἀδείας ἢ ἀρνηθέντι διὰ δίκης ἐλθεῖν. καὶ ὁ μὲν αὐτός τε καθ’ ἑαυτοῦ καὶ κατ’ ἄλλων μηνύει τὸ τῶν Ἑρμῶν· ὁ δὲ δῆμος ὁ τῶν Ἀθηναίων ἄσμενος λαβών, ὡς ᾤετο, τὸ σαφὲς καὶ δεινὸν ποιούμενοι πρότερον εἰ τοὺς ἐπιβουλεύοντας σφῶν τῷ πλήθει μὴ εἴσονται, τὸν μὲν μηνυτὴν εὐθὺς καὶ τοὺς ἄλλους μετ’ αὐτοῦ ὅσων μὴ κατηγορήκει ἔλυσαν. ʽPoichè il popolo era adirato per questi fatti, molte persone stimate erano già in carcere e non appariva la fine, e anzi giorno per giorno esso si lasciava trasportare sempre di più dall’irritazione e incarcerava sempre più persone. Allora uno dei carcerati, che sembrava essere in particolar modo colpevole, venne persuaso da uno dei suoi compagni di prigionia a denunciare, sia che dicesse il vero, sia che dicesse il falso: le supposizioni al riguardo sono diverse e nessuno, né allora né in seguito, fu in grado di dire il vero sugli autori del fatto. Lo persuase dicendo che, anche se non aveva fatto nulla, bisognava che, procurandosi l’immunità, salvasse se stesso e facesse cessare il presente sospetto in città: se avesse confessato con l’immunità, avrebbe avuto una salvezza più sicura che se avesse continuato a negare fino a sottoporsi a processo. E allora costui denuncia se stesso e altri per quanto riguardava le Erme: il popolo ateniese, accolta volentieri, come credeva, la verità, dal momento che prima era indignato di non conoscere chi tendeva insidie, subito liberò il delatore e gli altri con lui, quanti egli non aveva denunciato.ʼ

Mettendo a confronto i tre racconti, la prima cosa che colpisce è senz’altro il silenzio di Tucidide sul nome del prigioniero, che nel suo resoconto rimane anonimo. Date però le strette somiglianze con quanto riportato da Plutarco ed Andocide, risulta piuttosto evidente che egli si riferisca alla vicenda dell’oratore. Perché, tuttavia, non ne fa il nome? Non tutti gli studiosi si sono concentrati sulla questione44, e chi lo ha fatto ha fornito pareri discordanti: Pelling, ad esempio, ritiene che il silenzio di Tucidide sia dovuto al fatto che egli non ritenga Andocide degno di essere nominato,

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a causa del suo comportamento in questa vicenda45; Furley, invece, ritiene che

Tucidide non faccia il nome dell’oratore per proteggerlo46. È difficile, a mio parere,

prendere posizione sulla questione: queste vicende sono molto intricate, come del resto lo stesso Tucidide ammette, e, considerando anche l’estrema sinteticità dello storico nella loro descrizione, è veramente complicato riuscire a trarre indizi riguardo al suo pensiero su di esse. L’unica cosa che sembra chiara è che egli non è per niente soddisfatto del risultato delle indagini relative alla questione delle Erme, riguardo alle quali afferma che i suoi concittadini non si impegnarono mai veramente a scoprire la verità sulla faccenda, le cui reali cause non furono mai accertate47.

Per quanto riguarda l’ossatura del racconto, essa risulta più o meno la stessa nelle tre fonti: Andocide si trova in carcere e, ad un certo punto, si convince a parlare, persuaso da un suo compagno di prigionia. Già in relazione all’identità del compagno di cella vi sono delle discrepanze: Andocide afferma che a convincerlo sia stato il cugino Carmide, con cui ha un legame molto stretto48; Plutarco parla di un giovane di nome Timeo; in Tucidide il compagno di prigionia resta anonimo come il protagonista dell’aneddoto. Gli studiosi si sono interrogati sul motivo di questa discrepanza, e sono state proposte diverse spiegazioni, che investono la questione più complessa delle fonti che Plutarco avrebbe utilizzato nella stesura della sua Vita di Alcibiade. Alcuni hanno ritenuto che Plutarco abbia utilizzato la Sui Misteri come fonte della sua biografia e spiegano la discrepanza del nome come un semplice errore di distrazione del biografo, che avrebbe scambiato Carmide con Timeo per il fatto che entrambi sono nomi di dialoghi platonici49. Tuttavia, in relazione a ciò, si deve evidenziare che la differenza tra Plutarco ed Andocide non consiste solo nel diverso nome di questo giovane, ma anche nel fatto che Plutarco non dice che si tratti del cugino dell’oratore: se la fonte di Plutarco fosse stata realmente la Sui Misteri, non si capisce il motivo per cui Plutarco avrebbe eliminato il legame familiare per fare di Timeo semplicemente una persona della quale l’oratore era diventato amico (συνήθη καὶ φίλον) durante la

45 Pelling 2000, 255-256 n. 4.

46 Furley 1996, 52 n. 18. Altra posizione, a mio parere meno verosimile, è che Tucidide non conoscesse il nome del prigioniero: Dalmeyda 1930, VI-VII.

47 Thuc. VI.60.2: τὸ δὲ σαφὲς οὐδεὶς οὔτε τότε οὔτε ὕστερον ἔχει εἰπεῖν περὶ τῶν δρασάντων τὸ ἔργον. Secondo Mann 2007, 245, è proprio la mancanza di chiarezza relativa a questi eventi che spinge Tucidide a non citare alcun nome delle persone coinvolte, come se volesse rendere il clima di assoluta incertezza che regnò ad Atene in quelle settimane.

48 Cfr. supra pp. 55-56. 49 Allen 1951, 134.

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permanenza in carcere50. Altra opzione, a mio parere preferibile, è che Plutarco si sia

servito qui di una fonte alternativa sia ad Andocide che a Tucidide, nella quale la storia della permanenza in carcere era raccontata in altro modo e con dettagli diversi51. Inoltre, come Furley evidenzia52, si deve notare come il concetto di famiglia sia al centro dell’attenzione dell’oratore e come costantemente Andocide cerchi nel corso dell’orazione di dare un’immagine di sé come di un uomo devoto ai legami familiari53:

in tal senso, è anche possibile che egli abbia sostituito nel suo racconto la figura di un giovane qualunque con quella di un cugino, per spingere i giudici a credere che egli si fosse sentito moralmente obbligato a fare la denuncia per salvaguardare la sua famiglia.

È inoltre interessante che, mentre Andocide dice che il cugino lo persuase a dire quello che sapeva sulla faccenda, sia Plutarco che Tucidide esplicitino il sospetto che la confessione non fosse veritiera, almeno non totalmente:

Plu. Alc. 21.5: