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Le qualità del Dante letterato e il confronto con il maestro bolognese

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 63-65)

Questa prima bucolica ha una bellezza che fa del suo autore un grande poeta anche in lingua latina. Il con- fronto con i versi di Giovanni del Virgilio e con tanta produzione esametrica coeva mostra le qualità di Dante ‘letterato’. A questo punto Giovanni del Virgilio, rico- noscendo all’Alighieri il merito di avere rinnovato il genere bucolico, riprende il calamo, per scrivere anche lui un’egloga virgiliana, e propone a Dante/Titiro, che abita a Ravenna, di raggiungerlo a Bologna per farsi maestro di cose nuove e antiche tra amici giovani e vecchi. Giovanni, accettando per sé l’abito pastorale di Mopso, si presenta in solitudine. Nella sua grotta gli giunge da Ravenna sulle ali del vento il canto di un nuo- vo Virgilio: alla sua meraviglia si associa quella di tutti gli abitanti dell’Arcadia. Per questo Mopso, che guida gli armenti, decide di cantare da bovaro: ora la corri- spondenza diventa a tutti gli effetti un certame bucoli- co. Con la sua egloga, più narrativa e meno brillante di

Andrea del Castagno (Castagno 1421 – Firenze

1427), Giovanni Boccaccio, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco, 1450, Galleria degli Uffizi, Firenze.

S

tudi

quella dantesca, Mopso dimostra di avere capito e per questo rinuncia a riprendere il tema della lingua della

Commedia e dell’incoronazione. Dante aveva chiuso

le porte su questo fronte; Giovanni così gli augura di potere rientrare in patria da quell’esilio ingiusto a cui un’ingrata città lo aveva condannato, e lì di poter ac- cogliere sul capo il meritato tributo. Avanza però una proposta: invita Titiro a trasferirsi presso il suo antro, di cui descrive le bellezze, per cantare insieme. Qui, circondato da pastori che portano doni, Virgilio redi- vivo potrà impartire la propria lezione. Nel contempo, replicando ai dubbi di Titiro, Mopso nega che le sue campagne siano pericolose. Mopso, come il Coridone della seconda egloga virgiliana trascurato da Alessi, che preferisce i doni del ricco Iolla, protesta perché, se Titiro non vorrà raggiungerlo, allora significa che non apprezza la sua grotta. Non è però ingenuo: sa bene che un nuovo Iolla, dietro cui si cela il signore ravennate Guido Novello da Polenta che ospita Dante negli ultimi anni di vita, lo impedirà. Se sarà disprezzato, si rivol- gerà ad Albertino Mussato, poeta coronato, che abita nelle terre di Padova. Ma è solo un espediente per con- vincere Titiro a lasciare le capanne di Iolla. Nel conge- darsi Giovanni/Mopso, memore di quel dono che gli era stato promesso, s’affretta a colmare dieci piccoli secchi di latte vaccino, pur nella consapevolezza che manda- re latte a un pastore è forse atto di superbia. Giovanni del Virgilio colma la sua bucolica, che si trascina per

97 esametri, di molte immagini che proiettano il lettore nel mondo pastorale. Nella sua egloga, che si adegua al canone stilistico imposto da Dante, egli dismette i panni del critico. Sta al gioco pastorale; in virtù della sua preparazione culturale dà alla replica la forma bu- colica, in attesa di una risposta, affermativa o di dinie- go, pur non nutrendo troppe speranze di poter attirare Titiro nel suo antro. A qualche tempo di distanza Dante risponde. Con la sua ultima egloga, che in conformità con l’estensione di quella delvirgiliana si sviluppa in 97 esametri, Dante rifiuta l’invito del suo interlocutore, nascondendo le proprie paure, che gli impediscono di andare da Mopso, dietro lo schermo dell’orrendo Po- lifemo che abita le terre di Sicilia. La seconda egloga di Dante presenta caratteri diversi dalla prima. Nuovi personaggi sono introdotti sulla scena pastorale; il tono diventa più elevato con il ricorso a una competenza mi- tologica di prim’ordine. La stessa ambientazione cam- bia: dall’Arcadia di Titiro e Melibeo si è ora nella Sicilia teocritea abitata da Titiro e da Alfesibeo, un altro pa- store che le glosse copiate da Boccaccio svelano essere Feduccio de’ Milotti, medico di origine certaldese da tempo trasferitosi in Romagna. Se Titiro e Alfesibeo pascolano i loro greggi sui verdi prati del Peloro, Mopso frequenta le caverne infuocate dell’Etna, la dimora di Polifemo. La bucolica si apre con la descrizione del- la stagione e dell’ora del giorno, sviluppata con quella sapienza astronomica che Dante sperimenta nella Com-

media: mentre il sole è alto nel cielo, Titiro e Alfesi-

beo si rifugiano all’ombra. Qui Titiro, il più anziano, se ne sta disteso sull’erba; Alfesibeo, in piedi, si stupisce che Mopso possa apprezzare le aride terre alle pendici dell’Etna. Già all’inizio è implicito il rifiuto di Dante di accogliere l’invito che Giovanni del Virgilio gli aveva rivolto. Il breve monologo di Alfesibeo si chiude all’ar- rivo di Melibeo/ser Dino, affannato e quasi incapace di parlare: è il messaggero che porta il canto di Mopso. Dopo le risate degli anziani pastori di Sicilia per il cor- to fiato di Melibeo, si verifica un prodigio: dalla zam- pogna, accostata alle labbra, escono suoni e parole che riferiscono l’egloga di Mopso. Il senso del messaggio è chiaro: Mopso desidera che Titiro si trasferisca nel suo antro. A questo punto Alfesibeo cerca di convin- cere Dante a non voler privare del suo nome glorioso le fertili terre del Peloro, ovvero Ravenna. Con una certa malizia la voce dello strumento suonato da Melibeo è paragonata a quella emessa dalle canne che divulgaro- no la vergognosa condizione di re Mida. L’antico so- vrano, dopo una gara poetica tra Apollo e Pan, aveva osato sostenere che a suo giudizio il vincitore avrebbe dovuto essere il satiro e non il dio, il quale, adirato, gli

Ritratto di Dante Alighieri (Firenze 1265 - Ravenna 1321), XIX secolo.

fece crescere orecchie da asino. Mida nascose la ver- gogna sotto un copricapo, ma il suo barbiere, l’unico a conoscere la verità, scavò una buca per seppellire la notizia: lì nacquero delle canne che diffusero il segreto ai quattro venti. A conti fatti si tratta di un ben strano complimento rivolto al canto di Mopso: così Titiro vuo- le replicare alle intemperanze che percorrono l’egloga del maestro bolognese. Tanto è l’affetto provato Titiro per Mopso che egli si trasferirebbe in quell’antro etneo, se lì non abitasse Polifemo. Chi si celi dietro questa ma- schera sanguinolenta non si sa con certezza. Potrebbe trattarsi di Fulcieri di Calboli, lo spietato persecutore di Firenze nel 1303, le cui nefande gesta sono presen- tate dalle profetiche parole di Guido del Duca in Purg., XIv 58-66. Capit ano di guer r a a Bol ogna nel giugno 1321, dal luglio di quell’anno ricoprì in città la carica di capitano del popolo. Tuttavia a questa identificazio- ne si può accostare un’altra considerazione. Potrebbe trattarsi di un’ingegnosa replica alle parole del maestro bolognese che aveva invitato Titiro nella sua grotta con le stesse parole impiegate dal Polifemo virgiliano per spronare l’amata Galatea ad abbandonare le acque del mare per andare da lui (Verg. Ecl. IX 39-43). Le imita- zioni dei classici latini, sperimentate da Giovanni nel costruire i suoi versi, non sfuggono a Dante che replica esprimendo il proprio timore per la ferocia di quel ci- clope, la cui presenza è suggerita dal suo interlocutore. Titiro insomma resterà presso il Peloro, non se ne an- drà nelle grotte dell’Etna, non priverà del suo nome i pascoli che lo amano. L’egloga finisce mentre il sole, alto nel cielo all’inizio, volge al tramonto e le pecore con i pastori ritornano nell’ovile. Negli ultimi tre versi, improvvisamente, Iolla/Guido da Polenta è presentato da Dante come testimone silenzioso del dialogo tra Ti- tiro e Alfesibeo. Il mondo ravennate che ruota intorno all’Alighieri, rappresentato dal colto signore della cit- tà, è significativamente introdotto: l’ultimo rifugio non vuole perdere l’onore della presenza di un altissimo po- eta. Guido Novello da Polenta e gli amici studiosi non avrebbero consentito a Dante di andarsene.

Nel documento Il poema del desiderio (pagine 63-65)