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Nella pratica dell’insegnamento ha percezione di questo bisogno di utilità, e la sensazione che la matematica appresa nel corso della secondaria di secondo grado sia percepita come inutile?

Sicuramente, la matematica delle superiori è percepita da molti studenti come inutile, soprattutto se li si fa lavorare su aspetti sintattici e su aspetti legati a questioni interne alla matematica, esclusivamente a questioni interne alla matematica. Ma soprattutto a questioni che sono fini a se stesse, sto pensando ai classici esercizi di scomposizione in fattori o semplificazioni di espressioni, calcolo di un limite, calcolo di equazioni, con tecniche strane; è chiaro che tutto questo viene vissuto come inutile perché fine a se stesso, cioè viene semplicemente a ottenere un buon voto, a superare l’anno di corso. Quindi che utilità ha, al di là di questa? Ed è ovvio che una volta superato quell’anno tutto questo si perde, non ha più alcun senso.

Il problema però è un pochettino diverso, perché gli adulti fanno riferimento alla matematica della scuola primaria, come all’unica utile. Penso che in questo caso ci sia un concetto di utilità un po’ limitato.

Io quando penso all’utilità della matematica, non penso semplicemente alle applicazioni pratiche nella vita quotidiana, ai piccoli calcoli, a costruirsi, ad esempio, un piano di ammortamento di un mutuo o roba del genere; penso anche a queste cose, ma non, assolutamente, soltanto a queste cose.

Penso a quello che la matematica può dare in termini di comprensione, di lettura del mondo che ci circonda. Una visione, diciamo, delle cose che ci riguardano: guardare a queste cose con occhio matematico.

Per esempio, semplicemente, anche all’informazione. Come viene veicolata? Dai mass media. Vedere un grafico che cresce sempre più, vedere delle oscillazioni, capire cosa vuol dire una variazione percentuale, capire cosa vuol dire un grafico con delle variazioni assolute o uno con variazioni di valori assoluti.

Ecco, leggere le informazioni in questa maniera, avere degli strumenti critici di lettura delle informazioni, diventare più consapevoli nel momento in cui vediamo, ad esempio, diverse conclusioni sugli stessi dati: per quale motivo si possono ottenere risultati così diversi sugli stessi dati?

E poi anche degli strumenti per affinare le argomentazioni: proprio perché si acquisiscono strumenti di lettura, si possono affinare anche le argomentazioni. Ecco, se noi riuscissimo a far comprendere questa utilità della matematica agli studenti, che ci mette a contatto con prodotti culturali, allora, forse, eviteremmo quel rischio che loro pensino in termini di utilità pratica soltanto, perché allora sì, una persona comune cosa usa di matematica oltre quello

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103 che si fa alla scuola elementare o ai primi anni delle medie? Niente. E allora è chiaro che tutto il resto viene messo tra parentesi.

Se invece riusciamo a far capire quell’altro discorso dell’utilità, e quindi appropriarsi di prodotti culturali, di diventare in qualche maniera più consapevoli dell’informazione che ci circonda, leggere in maniera più critica, allora forse otterremmo il risultato di avere degli adulti che guardano alla matematica con occhi diversi, perché è una matematica diversa.

A tal proposito, dunque, cosa si può fare nella pratica dell’insegnamento?

Per esempio, intanto evitare l’addestramento fine a se stesso, a meno che non sia consapevole. Cioè, tutti quelli esercizi di competenze tecniche di calcolo, che poi se uno prosegue certi studi in matematica possono anche essere utili, e io li proporrei soltanto quando lo studente è consapevole della possibile loro utilità, ad esempio, per proseguire gli studi: allora sì, ma non prima. Prima eviterei proprio la proposta di esercizi con tecniche fine a se stesse, ripetitivi, complessi e mi soffermerei soprattutto su attività del tipo: leggiamo un’informazione sui quotidiani e cerchiamo di capire cosa c’è dietro, come potrebbero essere rappresentati i dati in maniera diversa per far risaltare qualche altra caratteristica, magari per arrivare addirittura a delle conclusioni opposte. Per esempio, immaginiamo di avere dei dati in cui ci sono delle variazioni fatte coi numeri indice a base fissa o a base mobile: i grafici sono completamente diversi, in genere i numeri indice a base fissa hanno una visione telescopica, da molto lontano, per esempio guardo a questo fenomeno a partire dal 1950, allora è chiaro che le irregolarità si smussano, cioè riesco a vedere delle linee di tendenza, e quindi dò una certa tranquillità a chi legge; mentre se metto i numeri indice a base mobile vedo delle oscillazioni terribili, vedo caos, non riesco a dominare il fenomeno, quindi in questo caso metto nel lettore una certa agitazione.

Ecco, far capire queste cose, fare attività di questo tipo, costruire dei piccoli e semplici modelli, applicare la matematica a situazioni concrete. E poi, per esempio, sto pensando al percorso classico, che si faceva una e si fa ancora ora in alcune scuole, di geometria, oppure che è stato totalmente accantonato: partire dagli elementi di Euclide, alla Hilbert, con tutte quante le sistemazioni…E invece di questo far fare qualche attività in cui, con un software di geometria dinamica, si vedono delle configurazioni che cambiano, si chiedono gli invarianti, poi si chiede di giustificare, di dire il perché. Allora è chiaro che, siccome la teoria non è ancora costituita, non saranno delle dimostrazioni, si utilizzeranno certe proposizioni per giustificarne altre, e poi ci saranno delle inevitabili circolarità. Però allo stesso tempo si costruisce una rete di conoscenze, facendo fare le cose. Quindi un antidoto a questo è quella che si chiama, per sintetizzare, didattica laboratoriale.

Secondo lei, perché si cerca nella matematica, magari contraddistinguendola dalle altre discipline, una sua utilità?

Intanto bisognerebbe vedere cosa si intende per utilità, perché a volte un docente ritiene che questa sia matematica utile, quella fine a se stessa, perché ti prepara per poter fare matematica in futuro: se non sai fare semplici espressioni, non riuscirai a fare quelle più complesse, se non sai fare quelle più complesse non saprai fare quelle più complesse ancora. Allora è bene, se vuoi andare avanti negli studi, perché questo è il corso di matematica, che tu faccia questo corso interno alla matematica.

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104 Ci sono altri che vedono questa utilità in qualcosa che sia essenzialmente concreto, di semplice applicazione nella vita quotidiana. Vorrei dire che sono comunque molto dignitosi, tipo PISA, che è molto legata all’applicazione, al di là di quello che è il contesto dello studio che sta facendo, ma indipendentemente dal percorso scolastico che si è fatto, la matematica per applicarla a piccoli problemi.

Ma io, ripeto, non andrei a cercare questo tipo di utilità di quello che dice: di tutto quello che si è fatto in matematica, cosa ci è rimasto che ci serva per la vita quotidiana?

Io interpreterei il concetto di utilità in una maniera completamente differente, e cioè utile alla formazione come cittadino, e allora, se è questa utilità, perché la si cerca? Perché si pensa che nella scuola si formino persone, si dà occasione alle persone di formarsi, quindi acquisire competenze – chiamiamole - di cittadinanza, che fanno crescere una persona. È questa l’utilità, non solo della matematica, ma di qualunque disciplina.

L’utilità vista solo come immediatezza pratica è la più pericolosa, secondo me, penalizza il portare innovazioni nella didattica. Perché come si reagisce a quella didattica esclusivamente fine alle cose interne alla matematica? Si reagisce alla maniera di Hardy, che dice che la matematica è bella perché inutile, che è bellissimo come concetto. Ma Hardy si sta scontrando contro quel tipo, per cui se non ci sono applicazioni pratiche allora è inutile. No, l’utilità della matematica nel senso di Hardy è tutt’altro, quindi è inutile in quel senso, ma è utile alla formazione dello spirito. Ecco, c’è una posizione intermedia che è quella delle applicazioni, degli sviluppi interni. Freudenthal diceva che c’è una matematica orizzontale, una dimensione orizzontale, che è quella delle applicazioni, e una verticale in cui si affinano, si sistemano gli strumenti interni alla matematica; e Prodi lo stesso. Ci sono due sviluppi, uno interno e uno relativo alle applicazioni; entrambi devono andare avanti di pari passo, per lo sviluppo della persona.

Nella stesura del suo ultimo libro di testo, si è posto questo problema ed, eventualmente, come lo ha affrontato?

Il problema è stato affrontato in sede di progettazione, ma è stato affrontato in maniera naturale perché faceva parte delle mie idee, quindi, più che è stato affrontato è proprio alla base della scrittura del testo. Quando parlavo proprio della matematica e delle due dimensioni, verticale e orizzontale: il testo si sviluppa in questi due aspetti. Infatti, nel testo del biennio ci sono tantissime applicazioni della matematica alla vita quotidiana, alla lettura dell’informazioni, ma con poche sistemazioni. È un modo di iniziare a fare esperienza, a utilizzare quello che già si conosce per interpretare il mondo che ci circonda. Nel secondo volume, quindi il testo del terzo e quarto anno, si iniziano ad avere delle sistemazioni, cioè, dal momento in cui si è fatto un pochettino di lavoro in orizzontale, si comincia ad andare in verticale e a costruire delle piccole teorie. Quindi il percorso è quello di un avvio al sapere teorico, graduale, e con dei ritorni: non è che l’avvio al sapere teorico è sempre strettamente crescente, ci sono dei ritorni alle applicazioni – come è inevitabile che sia – per poi approfondire maggiormente degli aspetti teorici. Avevo scritto, una volta, che il testo del biennio è come un’educazione sentimentale alla matematica, quindi, in sostanza, un aiuto a poter leggere un buon manuale. Nel secondo biennio diventa, non dico un buon manuale, ma una cosa strutturata più verso la teoria, verso l’aspetto teorico. E si spera, che al quinto anno

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105 e all’università, lo studente riesca a leggere autonomamente un buon manuale di matematica, per utilizzarlo a fini di sviluppo interno o a fini applicativi.

Negli anni questo problema è stato affrontato? Come si è evoluto?

Da me sicuramente. Quando ho iniziato a insegnare non avevo riflettuto su tutte queste cose, ho cominciato a insegnare la scomposizione in fattori, il calcolo delle espressioni, quello che si faceva in tutte le classi, con un testo di matematica con migliaia di esercizi, prendevo di lì. E mi son reso conto che c’era qualcosa che non mi dava soddisfazione, perché vedevo che in termini di resa degli studenti non andava, c’era spesso simulazione di sapere: dopo un po’ si abituavano, riuscivano a fare le cose per benino, prendevano la sufficienza, dopo due mesi non ricordavano più niente, non avevano veramente appreso, quindi simulavano conoscenza, simulavano sapere. Questo non mi dava soddisfazione, non mi interessava il successo scolastico, mi interessava il successo formativo. Quindi – grazie alla collaborazione che ho avuto con quelli di ricerca in didattica della matematica – ho costruito questo percorso, arrivando a lavorare in maniera completamente diverso da come si lavorava nel 1984-1985. A livello nazionale, la situazione è diversificata, ma se vogliamo parlare mediamente, trovo che la maggior parte degli insegnanti sia ancora molto ancorata. Come possiamo renderci conto di quello che avviene, in media, a livello nazionale? Dai libri di testo! Se andiamo a vedere i libri di testo più adottati, che sono il Bergamini e il Sasso, senza fare una valutazione di qualità, e andiamo a vedere il tipo e il numero di esercizi che propongono, ci rendiamo conto che la situazione non è cambiata, purtroppo.

Come incidono, in tutto ciò, le prove INVALSI o quelle OCSE-PISA?

Sia le prove PISA, sia le prove INVALSI, secondo me incidono in maniera positiva, perché, nonostante i libri di testo siano sempre gli stessi, si inizia, da parte delle case editrici, ad avere una certa attenzione. Che poi sia un’attenzione che spesso sfocia in proposte che non sono del tutto esenti da critiche, è un altro discorso. Però c’è attenzione, e c’è attenzione da parte degli insegnanti.

Il problema è che spesso le prove INVALSI portano ad atteggiamenti del tipo: mi alleno a fare tanti test per la prova INVALSI, che è quello che non dovrebbe succedere. Quello che dovrebbe invece accadere è vedere cosa dicono le prove INVALSI e cosa le prove PISA, capire che forse, in qualche maniera, sono queste, almeno per certe competenze, che sono quelle che possono essere testare le prove INVALSI, abbiamo un’idea del percorso che dovremmo seguire.

Ecco, allora, che io dovrei modificare la strada, il percorso, che faccio localmente perché la conseguenza sarà che loro faranno una buona prova. Non mettermi a fare diecimila test tipo- INVALSI – che poi magari non sono nemmeno tipo-INVALSI – per allenarli, addestrarli a fare una buona prova INVALSI.

Però qualche contributo positivo, almeno a livello di dibattito che c’è intorno, la portano, tengono l’attenzione desta sul problema.

Un commento finale sulla difficoltà di confrontarsi con un “utile” (quello degli studenti) in continua evoluzione: quello che era utile per lei, probabilmente, non è più considerato utile dagli studenti attuali.

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106 Faccio fare, all’inizio e alla fine di ogni corso, una sorta di tema di matematica, cioè gli studenti, liberamente – possono decidere di mettere il nome o non metterlo, scriverlo a macchina, mandarlo per email, darlo in privato – su quella che è la loro percezione della matematica, e poi se è cambiata.

In genere la maggior parte risponde, alcuni la prendono positivamente – nel senso che entrano in sintonia con quella che è la mia idea – mentre molti rimangono ancorati a quell’idea di utile che è quella dell’applicazione pratica proprio, che è difficile da scardinare, e quindi ritengono, per esempio, che qualunque cosa che svii da quello sia del tutto inutile. Quindi anche il discorso di avvicinamento al sapere teorico sia inutile, perché non ci interessa. E in questo senso, devo dire che non sempre il discorso che faccio passa a tutti gli studenti, questo è normale.

Durante l’intervista sono stati toccati vari temi: innanzitutto abbiamo riscontrato la centralità dell’utilità della matematica insegnata a scuola e la necessità di chiarire quelle che sono le varie sfaccettature e sfumature attribuite a questa utilità.

Si vede come questo aspetto sia centrale nella pratica didattica e si evidenzia la difficoltà di cimentarsi con persone, studenti, che attribuiscono all’utilità un senso diverso da quello che intende il docente; vogliamo evidenziare a tal proposito l’escamotage individuato dal prof. Paola del testo narrativo, ad inizio e a fine corso, che può certamente permettere all’insegnante di individuare, o capire meglio, anche i bisogni dei propri studenti.

Tra gli altri temi toccati, evidenziamo qui quello delle prove nazionali e internazionali per la valutazione delle competenze matematiche degli studenti e, come visto, il prof. Domingo Paola ha espresso un parere positivo a livello di contributo al dibattito sull’insegnamento della matematica nelle scuole.

Abbiamo voluto a questo proposito intervistare anche Stefania Pozio, docente di matematica per la scuola secondaria di primo grado, collaboratrice INVALSI, e membro, per l’istituto, della Commissione Esaminatrice per l’area “Prove matematica”. Riportiamo, anche in questo caso, un estratto dell’intervista.