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tutto alla dea poiché lei è una mortale, mentre Calipso è immortale e non conosce vecchiaia. Inoltre, Odisseo non loda mai apertamente Penelope mentre si trova da Calipso, ma la µῆτις della moglie viene messa in evidenza soltanto nella parte finale del poema omerico, in relazione all’episodio della tela, anche se l’abilità oratoria di Odisseo emerge nel qualificare la sposa come περίφρων, mettendone in evidenza la saggezza ma senza davvero farne un elogio.

Questa constatazione sembra che la Calipso lucianea l’abbia conosciuta, come se avesse avuto modo di conoscere anche il proseguo degli eventi.

La menzione in questo contesto della σωφροσύνη di Penelope stride con il comportamento di Odisseo: infatti, l’eroe, scrivendo a Calipso dall’isola dei Beati, rimpiange il tempo trascorso da lei, non sembra comportarsi secondo la saggezza che lo contraddistingue non tanto nei poemi omerici quanto nella sua vita letteraria e filosofica successiva. Ermes, infatti, che – come abbiamo già visto in vari passi delle Quaestiones

Homericae di Eraclito – è definito λόγος razionale, si era recato dalla ninfa Calipso per

convincerla a lascar partire l’eroe. In relazione ad Odisseo, non dobbiamo poi dimenticare che il messaggero divino gli aveva già donato il µῶλυ quando egli era presso Circe e che questo radice gli era servita per sfuggire alla maga. Ed è proprio all’interno della serie delle intrappolatrici, come Circe, che potremmo catalogare anche Calipso, e in questo senso può venirci in aiuto il pensiero di Antistene, riportato dagli scoli:

Ἀντισθένης φησὶν εἰδέναι σοφὸν ὄντα τὸν Ὀδυσσέα ὅτι οἱ ἐρῶντες πολλὰ ψεύδονται καὶ ἀδύνατα ἐπαγγέλλειται. ἐπισηµαίνεται δὲ καὶ τὴν παραίτησιν δι᾽ἣν πεποίηται τῆς θεοῦ. ἐκείνης µὲν γὰρ ἐπὶ σώµατος ἐυµορφίᾳ καὶ µεγέθει µεγαλαυχούσης καὶ τὰ καθ᾽ἑαυτὴν προκρινούσης τῆς Πενελόπης, συγχωρήσας µὲν τοῦτο καὶ τῷ ἀδήλῳ εἴξας, ἄδηλον µὲν γὰρ αὐτῷ εἰ ἀθάνατος καὶ ἀγήρως, ἐπισηµήνασθαι ὅτι τὴν γαµετὴν ζητεῖ διὰ τὸ εἶναι περίφρονα, ὡς κἀκείνης ἄν ἀµελήσας, εἰ τῷ σώµατι καὶ µόνῳ κάλλει κεκόσµητο169.

169 Sch. E in Od., V, 211 (DINDORF 1855, p. 263): “Antistene dice che Odisseo, essendo saggio, sa chi

ama mente molto e promette cose impossibili. Loda anche la ragione per cui ha rifiutato [la proposta della dea]. Dal momento che la dea si vanta per la bellezza del corpo e la grandezza e preferiva le sue qualità a quelle di Penelope, adattando questo e paragonandolo all’ignoto – infatti, gli era sconosciuto se sarebbe diventato immortale e senza età –, indicava che cercava la sposa perché era saggia, come se lui avesse disdegnato anche lei, se avesse avuto solo la bellezza del corpo”.

Secondo Antistene, dunque, Odisseo non rifiuta Calipso perché preferisce per bellezza la moglie Penelope, ma, ritenendo l’offerta di immortalità della dea falsa, preferisce alle lusinghe della bellezza del corpo della ninfa la sua saggia Penelope170.

Una simile esegesi è proposta da Eustazio, che, oltre ad introdurre l’etimologia del nome della ninfa, fa di Odisseo la rappresentazione dell’anima che torna al proprio luogo di origine, al mondo ideale, quello della filosofia.

Osserviamo con attenzione l’esegesi del Tessalonicese:

µεταπλάττουσι δὲ αὐτὴν [scil. Καλυψὼ] τῇ ἀλληγορίᾳ εἰς τὸ καθ’ ἡµᾶς σῶµα, ὡς συγκαλύπτουσαν ἐντὸς δίκην ἐλύτρου τὸν ψυχικὸν µάργαρον. ἥτις καὶ αὐτὴ κατεῖχε τὸν φιλόσοφον Ὀδυσσέα ὡς ἄνθρωπον ἐνδεδεµένον σαρκί. καὶ µυθικῶς εἰπεῖν, ἐν ἀµφιρύτῃ νήσῳ ὄντα δενδρηέσσῃ ἥτις ὀµφαλός ἐστι θαλάσσης. τουτέστιν ἐν ὑγρῷ σώµατι ὄντα καὶ ὡς ἂν ὁ Πλάτων εἴπῃ, ἐπιῤῥύτῳ καὶ ἀποῤῥύτῳ. […] καὶ οὕτω µὲν Ὀδυσσεὺς δυσαπαλλάκτως εἶχε τῆς εἰρηµένης Καλυψοῦς οἵα ὡς εἰκὸς φιλόζωος. Ἑρµοῦ µέντοι ὡς ἐν τοῖς µετὰ ταῦτα αἰνίξεται ὁ ποιητὴς µεσιτεύοντος ὅ ἐστι λόγου, γέγονε τῆς κατὰ τὴν φιλοσοφίαν ποθουµένης πατρίδος, ἤγουν τοῦ νοητοῦ κόσµου. ὅς ἐστι κατὰ τοὺς Πλατωνικοὺς, ψυχῶν πατρὶς ἀληθής. ὁµοίως, γέγονε καὶ τῆς Πηνελόπης φιλοσοφίας, λυθεὶς καὶ ἀπαλλαγεὶς τῆς τοιαύτης Καλυψοῦς. λέλυται γὰρ τρόπον τινὰ τοῦ σώµατος ὁ φιλόσοφος, καὶ ἀσχέτως τούτῳ συνέχεται. καὶ ἔστιν οἰκεῖον εἰπεῖν τὴν τοιαύτην Καλυψὼ πρὸς τὸν ἀπόδηµον αὐτῆς τῇ διανοίᾳ φιλόσοφον, ὅτι ὁ νοῦς σου παρὼν, ἀποδηµεῖ171.

Eustazio è impreganto della teoria platonica, ripresa di pitagorici172, per cui il corpo è la prigione dell’anima. Ed è proprio nell’isola della ninfa, coperta di un fitto bosco, che è figura della materia, dal momento che proprio il termine ὕλη ha il significato primario di bosco, legno e poi quello filosofico di materia. Il flusso del mare potrebbe essere legato

170 BUFFIÈRE 1956, pp. 372-372 e MONTIGLIO 2011, pp. 34-35.

171 Eust., in Odysseam, 1389, 42-50 (VAN DER VALK 1976, p. 17, rr. 9-18): “Attraverso l’allegoria la

[scil. Calipso] paragonano al nostro corpo, come se nascondesse la perla dell’anima dentro una conchiglia: lei, infatti, tratteneva il saggio Odisseo, un uomo prigioniero della carne. Il mito dice che Odisseo si trova su un’isola tra due mari, ricoperta d’alberi, che è il centro del mare. Ciò vuol dire che è in un corpo umido e, come dice Platone, sottomesso al flusso e al riflusso. […] E così Odisseo aveva delle difficoltà a lasciare Calipso, tanto era attaccato alla vita. Ma con l’aiuto di Ermes – come indicherà più lontano il poeta, cioè della ragione, ha ritrovato la sua patria filosofica, cioè il mondo intelligibile – che è per i Platonici la vera patria delle anime. Tuttavia, ha ritrovato Penelope, la filosofia, dopo essersi sciolto e liberato da Calipso. In un certo modo la filosofia è separata dal corpo e lui non può starne prigionieri. Ed è appropriato chiamarla Calipso in rapporto al filosofo che sia allontana da lei per il pensiero, perché il suo spirito, pur presente, è lontano”.

172 Il primo a formulare un tale pensiero sembra essere stato Filolao, per cui si veda DK 44 B 14 =

Clem., Strom. III, 17: ἀ ψυχὰ τῷ σώµατι συνέζευκται καὶ καθάπερ ἐν σάµατι τούτῳ τέθαπται; “L’anima è collegata alla carne ed è come sepolta in questo cumulo”. Platone riprende le teorie pitagoriche in questo senso in Gorgia, 493a e Cratilo, 400bc.

4. L’ISOLA DI OGIGIA

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al pensiero espresso da Platone nel Timeo (43b), dove nota che il corpo è sottomesso ad un continuo afflusso di cibo che lo sommerge e poi ritorna indietro.

Proprio il fatto che quella di Calipso sia un’isola e che si specifichi un’ovvietà riguardo ad un’isola – cioè la presenza del mare tutt’attorno – ci fa pensare che questo non sia un dettaglio insignificante: in effetti, sin dal pensiero di Eraclito (si veda DK 22 A frr. 36 e 118) l’anima doveva aspirare ad abbandonare l’umidità per poter essere felice e abbandonare il divenire, e questo pensiero, passando per Platone, si svilupperà anche nel medioplatonismo, dato che è assai simile a quanto sostiene Porfirio in De Antro

Nympharum173, opera in cui – come visto – richiama il pensiero di Numenio e Cronio. Calipso pare, dunque, essere la prigione corporea dell’anima filosofica di Odisseo che tende a tornare dalla sua controparte femminile, Penelope, altrettanto figura della filosofia e della saggezza. La ninfa ha la capacità di offuscare l’intelletto – da qui l’etimologia del suo nome dal verbo καλύπτω, come spiegato da Eustazio – ma solo l’intervento di Ermes, il λόγος razionale permette all’eroe di partire, dal momento che la ninfa era stata costretta a liberarlo.

L’Odisseo di Luciano è completamente diverso dall’Odissea: nella lettera alla ninfa, infatti, rimpiange amaramente di aver abbandonato la vita felice che trascorreva presso di lei, dimentico totalmente del suo ruolo. Nell’opera omerica, infatti, adduce come motivo della partenza la presenza a casa, ad Itaca, di una moglie, una donna che non può competere per bellezza con una dea, ma saggia e per tanto vuole partire. Questo amore così sincero per Penelope e la capacità di resistere alle attrazioni e seduzioni della bella Calipso sembrano essere completamente svanite nell’eroe lucianeo: il profondo rimpianto per il gran rifiuto fatto in gioventù – considerando la storia letteraria di Odisseo come una vita umana – che traspare dalla lettera è, d’altra parte, un rifiuto di qualsiasi qualità della moglie legittima, Penelope, divenendo quasi disprezzo. Anche l’agire di nascosto dalla moglie (VH, II, 29) al fine di consegnare a Luciano la missiva per Calipso non mette certo in buona luce il rapporto che Odisseo ha con Penelope. Inoltre, durante il pranzo tra i naviganti e la ninfa, ella rivolge loro delle domande su Odisseo, Penelope, il suo aspetto e la sua saggezza. Siamo noi lettori, però, – ed è proprio su questo che Luciano-autore

gioca – che ci immaginiamo le risposte più ovvie, sulla base della conoscenza della letteratura precedente, e cioè che gli ospiti le abbiano confermato che era una donna saggia, ipotesi oltretutto confermata dalla chiosa καὶ ἡµεῖς τοιαῦτα ἀπεκρινάµεθα, ἐξ ὧν εἰκάζοµεν εὐφρανεῖσθαι αὐτήν174, confermando di risponderle non secondo verità ma secondo un certo interesse nel compiacere la ninfa.

Un’altra caratteristica del modus operandi di Luciano-autore nell’episodio della visita ad Ogigia è che non descrive assolutamente l’isola e la dimora della ninfa poiché è uguale a quella descritta da Omero.

L’intento di riscrittura e correzione del poeta – che si realizza sull’isola dei sogni (si veda cap. 6) – non si realizza per l’isola di Ogigia, o meglio, non si realizza nella forma della correzione dell’aspetto dell’isola, ma solo in quella del completo stravolgimento dell’attitudine di Odisseo nei confronti della ninfa.

Tra i vari punti di contatto tra la descrizione che Omero fa dell’isola di Ogigia (Od., V, 50-75) e il racconto lucianeo individuati dalla critica175 ce n’è uno in particolare che merita di essere sottolineato: Luciano e i compagni, oltre ad arrivare come Ermes sull’isola e a trovare la ninfa che filava nella sua grotta, svolgono – come il dio greco – la funzione di ambasciatori, il primo di un messaggio divino e i secondi di un messaggio di Odisseo.

Questa constatazione apre la strada ad una sovrapposizione interessante: Luciano e i compagni rappresenterebbero, in questo caso, il nuovo λόγος, un nuovo impianto razionale, assumendo la funzione classica di Ermes. Proprio come il messaggero degli dei si fanno veicolo di questo pensiero e lo portano alla ninfa.

In ultima analisi, questo pensiero, questa filosofia, richiama quell’esegesi esemplificativa della teoria del piacere epicurea, per la quale Odisseo avrebbe mostrato presso i Feaci che la vita di un popolo unito e i banchetti abbondanti sono il bene più prezioso176 e a questo sarebbe il vero piacere a cui gli epicurei aspiravano. Infatti, Epicuro – sebbene avesse bandito la poesia dal suo sistema filosofico – si servì del passo odissiaco

174 Luc., VH, II, 36: “e noi le rispondemmo ciò che pensavamo le avrebbe fatto piacere”. 175 Già in STENGEL 1911, pp. 84-85 e poi VON MÖLLENDORFF 2000, pp. 453-455.

176 Si veda Od., IX, 5-11 e il commento dello scolio in Sch. Q in Od., IX, 5 (DINDORF 1855, p. 404):

ἐγκαλοῦσι δὲ τῷ Ὀδυσσεῖ φιληδονίαν, λέγοντες τὴν ἀπόλαυσιν τέλος ἡγούµενον τοῦ βίου διὰ τούτων; “(Alcuni) rimproverano ad Odisseo il suo amore del piacere, dicendo che in questi versi ritiene il godimento il fine della vita”.

4. L’ISOLA DI OGIGIA

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in questione per esemplificare la sua teoria177. Molto spesso bollati come elogiatori del piacere corporale e sessuale, gli epicurei non godono di una buona reputazione: ad esempio, Eraclito nella parte finale della sua opera attacca duramente l’operato di Epicuro: [scil. Ἐπίκουρος] ἃ γὰρ Ὀδυσσεὺς ὑποκρίσει παρ᾽Ἀλκίνῳ µὴ φρονῶν ἐψεύσατο, ταῦθ᾽ὡς ἀληθεύων ἀπεφήνατο τέλη βίου178 e ancora Ἀλλ᾽ὅ γ᾽Ἐπίκουρος ἀµαθίᾳ τὴν Ὀδυσσέως πρόσκαιρον ἀνάγκην βίου κατεβάλετο δόξαν179.

La spiegazione che Odisseo abbia agito solo per convenienza si trova anche presso le Ps.-Plutarco, sostenendo che abbia dialogato con Alcino lodandone la condotta solo πρὸς χάριν, per cortesia (si veda De Hom., 150); continua – poi – dicendo che τούτοις παραχθεὶς καὶ Ἐπίκουρος τὴν ἡδονὴν τέλος εὐδαιµονίας ἐνόµισε180, aggiungendo, infine, che Aristippo, il fondatore della scuola cirenaica, vi leggeva una rappresentazione di colui che sopporta le pene della vita ma, d’altra parte, ne accetta i piaceri, gettando le basi per la dottrina eudaimonistica epicurea, in cui i piaceri corporali sono solo un mezzo per giungere alla vera εὐφροσύνη181.

Da questa ricerca del piacere e soprattutto del piacere del ventre, qui appena tratteggiata presso la corte di Alcinoo anche se presente in altri passi dell’Odissea, deriva la rappresentazione poco favorevole di Odisseo che la letteratura tragica e soprattutto comica ne ha dato, rappresentandolo come un parassita, sottomesso alla “tyranny of the belly”182.

Spesso, in occasione delle critiche mosse alla filosofia del Giardino, si dice che Epicuro dipendeva da Omero183 e ne aveva emulato una morale disdicevole.

Anche Luciano, nel De parasito, prende Odisseo a modello del parassita che afferma (si vedano §§ 10-11) che Omero, sapiente, ha ammirato la vita del parassita e l’ha definita come l’unica invidiabile e lodata. Dopo aver citato i versi già visti dell’inizio di Od., IX,

177 Si veda RAMELLI-LUCCHETTA 2004, p. 260.

178 Eracl., Quaest. Hom., LXXIX, 3: “Le cose false che Odisseo disse in modo ipocrita presso Alcinoo,

queste [scil. Epicuro] le ritiene seriamente il fine della vita”.

179 Eracl., Quaest. Hom., LXXIX, 10: “ma Epicuro, nell’ignoranza, scambiò la necessità momentanea

di Odisseo con una filosofia di vita”.

180 Ps.-Plut., De Hom., 150: “Epicuro, fraintendendo questi versi, ritenne che il fine di una vita felice

fosse il piacere”.

181 Si veda BUFFIÈRE 1956, pp. 318-322.

182 MONTIGLIO 2011, p. 96. Si vedano i passi odissiaci citati a prova dell’atteggiamento di Odisseo. 183 Si vedano i paragoni citati da HILLGRUBER 1999, pp. 335-336.

il parassita sostiene che Omero avesse proprio voluto presentarci questo modello di vita come il migliore, dal momento che ha messo in bocca parole di lode al più saggio dei Greci, Odisseo; se avesse voluto presentarci l’eroe come paradigma della filosofia stoica, lo avrebbe ritratto mentre lodava altre azioni, come la presa di Troia, come quando trattenne i Greci dalla partenza anticipata, etc.

D’altro canto, – sostiene ancora Luciano – Omero non ha nemmeno ritenuto che il modello della vita epicurea di Odisseo fosse ὅτε αὐτῷ ὑπῆρχεν ἐν ἀργίᾳ τε βιοτεύειν καὶ τρυφᾶν καὶ βινεῖν τὴν Ἄτλαντος θυγατέρα καὶ κινεῖν πάσας τὰς λείας κινήσεις. οὐδὲ τότε [scil. Ὅµηρος] εἶπε τοῦτο τὸ τέλος χαριέστερον, ἀλλὰ τὸν τῶν παρασίτων βίον184.

Nelle Verae Historiae Luciano sembra cambiare punto di vista rispetto al De Parasito: il modello di vita che Odisseo propone non sembra più essere solo quello del parassita che loda i banchetti e la vita felice presso i Feaci ma, oltre a questa caratteristica, nella lettera che Odisseo affida a Luciano-personaggio emerge il rimpianto sia per l’immortalità che Calipso gli avrebbe donato sia per “la vita presso di te” (τὴν παρὰ σοὶ δίαιταν), evidentemente sottintendendo quanto il parassita esprime nel dialogo lucianeo, cioè la vita di piacere e mollezze che l’eroe conduceva presso la ninfa.

Inoltre, è da evidenziare che l’Odisseo che scrive questo pensiero si trova sull’isola dei Beati, luogo di pace e serenità per eccellenza: avrebbe poco senso rimpiangere un luogo molto simile solo per gli aspetti di bellezza della natura circostante, potremmo dire. L’isola di Calipso, così come descritta da Omero e da Luciano – che, per via dell’estrema somiglianza con la descrizione del Poeta, rifiuta di descriverla rimandando alle parole del cantore di Chio –, ha un’ambiente molto simile a quello dell’isola dei Beati, sia secondo la lunga descrizione di Luciano (VH, II, 5-6 e 11-14) e secondo quanto riporta Omero in

Odissea, IV, 561-569, ed entrambi i luoghi rappresentano il modello dei loci amoeni.

Sembra illogico, dunque pensare che Odisseo rimpianga la piacevolezza del luogo ed è ancora più assurdo che un abitante dell’isola dei Beati voglia fuggire da quel luogo per andare in un altro. L’unica soluzione plausibile è che Luciano stia effettivamente facendo proprie quelle accuse di eccessiva dedizione ai piaceri più bassi rivolte agli epicurei in

184 Luc., De Parasito, 10: “quando faceva quella vita presso Calipso, e viveva in ozio e in morbidezze,

e giaceva con la figlia di Atlante, e si muoveva in tutte quelle emozioni, [scil. Omero] non disse mai che quella vita era la più felice, ma la vita del parassita”.

4. L’ISOLA DI OGIGIA

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tutta la storia della filosofia antica, rappresentando il temperante Odisseo che desidera con ardentemente tornare a gozzovigliare presso l’amata Calipso.

Luciano, come visto nel De parasito, conosceva la vera interpretazione che di Odisseo davano gli epicurei ma in questo caso, per effetto parodico, utilizza quella preferita da coloro che disprezzavano la filosofia del giardino cioè gli stoici, di cui soprattutto Eraclito riporta il pensiero e l’atteggiamento verso l’Odisseo epicureo. Luciano sfrutta questo bisticcio filosofico per rappresentare un Odisseo ai limiti del verosimile, come colui che vuole lasciare l’isola dei Beati per tornare dai piaceri della ninfa Calipso.

Nel ventre della balena

In questo quarto capitolo – come nel successivo – ci soffermeremo sulla terza tipologia di esegesi allegorica, quella mistica, che prende le mosse dalla filosofia neopitagorica e medioplatonica di Numenio e Cronio. Più nel dettaglio, nel quarto capitolo analizzeremo l’episodio della parmanenza di Luciano e dei compagni nel ventre della balena (VH, I, 30 – II, 2): se essa da un lato si configura come un antro, un luogo – in termini platonici – lontano dalla luce della verità, dall’altro la scelta di far inghiottire i naviganti proprio da un κῆτος, una balena, sembra rievocare l’episodio biblico di Giona.

5.1 La balena come luogo di intrappolamento

Più volte durante la narrazione dell’intero episodio della balena ci si riferisce ad essa nei termini di “caverna” o “prigione”. Ad esempio, appena entrati all’interno del mostro si dice che τὸ µὲν πρῶτον σκότος ἦν καὶ οὐδὲν ἑωρῶµεν, ὕστερον δὲ αὐτοῦ ἀναχανόντος εἴδοµεν κύτος µέγα185; oppure, durante il secondo scontro, con le grandi grida che i

185 Luc., VH, I, 31: “all’inizio era buio pesto e non vedevamo niente, ma dopo, quando essa aprì la