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7. Incontri con i filosofi e le filosofie

7.1 Socrate

Il primo filosofo incontrato da Luciano è Socrate mentre si intrattiene dialogando con Nestore e Palamede. Entrambi sono personaggi fondamentali del ciclo epico: il primo è lodato da molti per la sua saggezza; il secondo, assente nei poemi omerici, è il protagonista di alcune tragedie – tutte perdute o molto frammentarie – dei tre tragediografi maggiori, che ricordano come sia stato ingiustamente tradito e ucciso da Odisseo.

Proprio la morte ingiusta è ciò che lega Palamede a Socrate, tanto che ad esso il filosofo si confronta, secondo quanto riportano entrambe le Apologie. Senofonte, infatti, dice: παραµυθεῖται δ’ ἔτι µε καὶ Παλαµήδης ὁ παραπλησίως ἐµοὶ τελευτήσας· ἔτι γὰρ καὶ νῦν πολὺ καλλίους ὕµνους παρέχεται Ὀδυσσέως τοῦ ἀδίκως ἀποκτείναντος αὐτόν260. Platone, invece, va oltre, riportando il desiderio di Socrate di incontrare Palamede – desiderio realizzato per così dire da Luciano – dicendo: ἐπεὶ ἔµοιγε καὶ αὐτῷ θαυµαστὴ ἂν εἴη ἡ διατριβὴ αὐτόθι, ὁπότε ἐντύχοιµι Παλαµήδει καὶ Αἴαντι τῷ Τελαµῶνος καὶ εἴ τις ἄλλος τῶν παλαιῶν διὰ κρίσιν ἄδικον τέθνηκεν, ἀντιπαραβάλλοντι τὰ ἐµαυτοῦ πάθη πρὸς τὰ ἐκείνων261.

Per quanto riguarda Nestore sappiamo che Antistene lo interpretò come modello di sobrietà262 e questo apprezzamento potrebbe risalire proprio a Socrate, maestro di Antistene. Uno scolio porfiriano ad Od., I, 1, riporta il pensiero di Antistene in difesa della πολυτροπία di Odisseo: il frammento, che potrebbe essere parte di un’opera dialogica di Antistene263, riporta inizialmente il pensiero dell’interlocutore di Antistene, il quale, sostenendo la negatività dell’ingegno di Odisseo, dice che οὐδὲ τὸν Νέστορα τὸν σοφὸν [scil. Ὅµηρος] οὐ µὰ Δία δόλιον καὶ παλίµβολον τὸ ἦθος ἀλλ’ ἁπλῶς τῷ

260 Senof., Apologia, 26: “Palamede, morto per circostanze assai simili alle mie, mi dà consolazione;

ancora adesso procura inni molti più nobili rispetto ad Odisseo, che lo uccise ingiustamente”.

261 Plat., Apologia, 41b: “Sarebbe un passatempo straordinario per me, se m’imbattessi in Palamede, in

Aiace Telamonio o in qualcun altro degli antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando le mie esperienze alle loro”.

262 RAMELLI-LUCCHETTA 2004, p. 74 n. 89. 263 DECLEVA CAIZZI 1966, p. 105.

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Ἀγαµέµνονι συνόντα καὶ τοῖς ἄλλοις ἅπασι264, e più avanti dirà lo stesso di Achille. I personaggi di quest’opera dialogica perduta sembrano essere Socrate e un accusatore di Odisseo265, forse proprio quell’Ippia dell’Ippia Minor platonico, che sostiene che Omero rappresenti Achille come il migliore e Nestore come il più saggio mentre Odisseo astuto, cioè – nell’ottica di Ippia – mentitore (si veda Ippia Minor, 364c-365d). Socrate controbatte il pensiero di Ippia, sostenendo che la πολυτροπία di Odisseo non sia sinonimo di essere bugiardo, ma si riferisca all’abilità dimostrata dall’eroe nelle varie situazioni; proprio una dimostrazione simile, che fa perno sulla versatilità dell’eroe, è quella portata avanti da Antistene nel seguito del fr. succitato.

La considerazione di Socrate nei confronti di Odisseo non appare, per tanto, negativa e, in questo senso, Antistene seguirebbe le orme del maestro Socrate266. Certo, l’unico caso in cui Socrate non apprezza e anzi condanna il comportamento di Odisseo è quello del tradimento e uccisione di Palamede, come testimoniato dalle Apologie, ma questo non sembra pregiudicare un generale apprezzamento per le doti intellettuali dell’eroe. Comunque, più in generale, appare evidente che Socrate si occupasse anche della caratterizzazione etica degli eroi omerici: il suo interesse, però, sembra più legato a vedere in Omero un insieme di esempi e non un manuale di etica, tanto che per controbattere Ippia (vedi supra) decide di “abbandonare Omero” (si veda I. M., 365d).

Insomma, il fatto che Luciano faccia incontrare Socrate con Nestore e Palamede, oltre a soddisfare un desiderio – quello dell’incontro con Palamede, morto come lui ingiustamente – di Socrate, espresso chiaramente in entrambi i racconti dei suoi ultimi momenti di vita, lega il filosofo all’interpretazione di Odisseo. Benché – come visto – non appaia totalmente negativa la caratterizzazione che Socrate fa di Odisseo, quello che Luciano sembra far emergere tra le righe di questo incontro è più conforme al trattamento riservato ad Odisseo nel V secolo sia dalla filosofia che dal teatro: basta solo ricordare il

264 SSR II V A, 187 = fr. 51 Decleva Caizzi = fr. 187 Prince = Sch. HMQR in Od. (DINDORF 1855, p. 9-

11): “nemmeno a Nestore, il saggio, [scil. Omero] ha dato un carattere mutevole e ingannevole, ma sincero quando parlava con Agamennone e con tutti gli altri”.

265 Si veda MONTIGLIO 2011, p. 22, che cita in nota DECLEVA CAIZZI 1966, p. 105; BRANCACCI 1990,

pp. 47-52; LÉVYSTONE 2005, p. 196 e PRINCE 2015, pp. 597-598.

discorso di Gorgia In difesa di Palamede oppure le tragedie267 perdute o molto frammentarie dedicate all’eroe, in cui il Laerziade, tenditore di tranelli, è più volte accusato e additato come responsabile della morte di Palamede.

Nestore verrebbe ad identificarsi come contraltare di Odisseo, come la saggezza che non scende a compromessi, l’intelletto non piegato alla malvagità, di cui Palamede rappresenta la vittima.

7.2 Platone

Luciano non gioca solo attraverso i personaggi presenti, ma forse il trattamento di un grandissimo assente risulta assai interessante sul piano del rapporto con Omero. Il primo vero filosofo della Grecità tutta è assente dall’isola dei Beati perché – dice Luciano – vive ἐν τῇ ἀναπλασθείσῃ ὑπ᾽αὐτοῦ πόλει (“nella città da lui stesso inventata”), vivendo secondo le sue stesse τῇ πολιτείᾳ καὶ τοῖς νόµοις. È interessante notare il termine che Luciano utilizza per definire la città di Platone: essa è un πλάσµα268, un’invenzione, una creazione fittizia del filosofo, configurandosi, quindi, come un doppione dell’isola dei Beati, frutto di un’altra invenzione del nostro Luciano.

Platone nella città da lui fondata vive secondo “la costituzione e le leggi che lui stesso aveva scritto”: se ad una prima lettura può sembrare una naturale conseguenza il fatto che Platone, andando a vivere in una città immaginaria da lui stesso fondata, ne sia stato anche il legislatore, non dobbiamo dimenticare i diversi livelli della parodia lucianea: proprio ἡ Πολιτεία e οἱ Νόµοι sono i titoli di due delle opere fondamentali di Platone, la Repubblica e le Leggi. Platone, dunque, si fa personaggio delle sue stesse opere letterarie, vivendo nell’utopica città da lui stesso immaginata nella Repubblica ed applicando il sistema di leggi da lui stesso definito nelle Leggi. In relazione ad Omero, oltretutto, si ricordi la condanna della poesia omerica nella Repubblica: il rifiuto (si vedano pp. 28-30) è in relazione al piano educativo dei giovani e alla rappresentazione empia degli dei che

267 Eschilo (frr. 181-182 Nauck), Sofocle (frr. 437-440 Nauck) e il Palamede di Euripide del 415 (frr.

578-590 Nauck).

268 Si vedano in proposito LAIRD 2003, p. 122, dove menziona anche Luc., Vit. auct., 17, dove Socrate

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forniscono i poemi omerici, anche se chiarita dall’interpretazione allegorica (si veda

Resp., 377d ssg.; 606e-607d).

È chiaro come la scelta di rappresentare un Platone fuori dall’isola dei Beati sia motivata proprio dal suo rifiuto per la poesia omerica e la connessa allegoria: Platone vive in un mondo di cui è autore, un mondo senza Omero, opposto al mondo dell’isola dei Beati, in cui – come stiamo osservando – tutto è pervaso dalla costante presenza del Poeta269. Luciano inserisce, dunque, l’autore all’interno della sua opera e gli permette in qualche modo di viverla, esasperandone per effetti parodici le caratteristiche270.

7.3 Aristippo ed Epicuro

Caratteristica della dottrina etica sia della scuola cirenaica – di cui Aristippo, allievo di Socrate, è tradizionalmente il fondatore – che del Giardino epicureo è quella di presentarsi come un sistema edonistico, che si concentra, cioè, sulla ricerca del piacere. Se per Antistene, contrario ad ogni forma di piacere – vale la pena ricordare il celebre detto a lui attribuito “preferirei impazzire piuttosto che provare piacere” –, gli eroi modello erano Eracle, sottoposto alle dodici fatiche, e l’Odisseo che ha subito un lungo ritorno, capace di adattarsi alle varie ‘prove’ e di superarle grazie al suo multiforme ingegno, Aristippo sottolinea piuttosto la prontezza di Odisseo ad accogliere i piaceri271. Epicuro e gli epicurei sembrano concordare con Aristippo: si è già notato (si veda cap. 6) come in relazione all’apprezzamento della vita presso la corte di Alcinoo espresso da Odisseo gli epicurei abbiano tratto il loro modello di vita, alla ricerca del godimento come scopo della vita (si veda Sch. Q in Od., IX, 5 (DINDORF 1855, p. 404)). Nel passo già

citato del De Homero (150) sono nominati sia Epicuro che Aristippo come promotori di

269 Si veda NÍ MHEALLAIGH 2014, pp. 242-243.

270 Si veda ancora NÍ MHEALLAIGH 2009, p. 21. Ní Mheallaigh sostiene che l’assenza di Platone sia da

ricollegare alla sua assenza all’interno delle sue opere, e specialmente dei suoi dialoghi e che, come una specie di contrappasso, Luciano lo allontani e lo condanni all’isolamento nella città da lui stesso creata. Credo, piuttosto, che l’assenza del filosofo sia da imputare al trattamento che lui ha riservato nelle sue opere alla poesia epica.

questa interpretazione di Odisseo a cui Luciano allude anche nella sua opera De Parasito (10).

Nel dire che Aristippo, Epicuro e i suoi discepoli riscuotevano molto successo per via della loro piacevolezza, Luciano – come abbiamo già notato in occasione della lettera di Odisseo a Calipso – allude sì all’idea di edonismo propria di questa filosofia, cioè quella della ricerca del piacere anche del corpo, perché solo in un corpo che non soffre ci può essere un’anima capace di felicità, ma anche a quel tipo di edonismo rinfacciato da molto all’epicureismo, e, cioè, intendendo con edonismo la dedizione ai piaceri del corpo, i piaceri carnali a cui anche l’Odisseo di Luciano si sarebbe dedicato, soprattutto quando nella lettera che scrive alla Ninfa rimpiange la vita con lei.

7.4 Diogene e il cinismo

Di Diogene, uno dei più importanti esponenti del cinismo, Luciano dice che era cambiato totalmente: aveva persino sposato un’etera e si lasciava andare ai fumi del vino.

Noto è il suo apprezzamento, come del resto per tutti i cinici, per la figura di Odisseo. Espandendo un tema già proprio di Antistene272, quello della capacità di Odisseo di sopportare diverse sventure grazie alla sua πολυτροπία, Diogene prosegue l’allegoria moralizzante, ad esempio della trasformazione in porci dei compagni di Odisseo (si veda

Od., X) da parte di Circe273, che sarà molto importante anche nella scuola stoica274, come conferma anche De Homero, 126, in cui la motivazione della vittoria di Odisseo ai piaceri della maga è data dall’aiuto fornito da Hermes, allegoria del λόγος. Dell’eroe viene esaltata soprattutto la capacità di assumere le sorti del mendicante, come fece, sotto consiglio di Atena, al suo arrivo in patria, ad Itaca. Nelle cosiddette Lettere Ciniche, una raccolta epistolare sicuramente non autentica ma che pare riportare abbastanza

272 Si veda BUFFIÈRE 1956, pp. 372-374.

273 Si vedano PÉPIN 1976, pp. 109-111 e PONTANI 2011, pp. 30-31. Dione Crisostomo, nell’Oratio VIII,

ci trasmette questa esegesi di Diogene.

274 Sul tema della perseveranza di Odisseo nel combattere e rifiutare i piaceri e perseguire la via della

virtù le scarse fonti che abbiamo per il cinismo non ci permettono di separare precisamente questo elemento dall’esegesi similissima che ne fanno gli stoici. Si veda MONTIGLIO 2011, pp. 66-68.

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fedelmente alcuni tratti del pensiero cinico275, si mette in evidenza proprio questo atteggiamento, cioè dell’esaltazione di Odisseo come mendicante, ignorando, però, che la sua condizione di straccione era temporanea e finalizzata alla riconquista del regno.

Dione Crisostomo, parlando di Diogene, sostiene che abbia imitato in tutto Odisseo: ὁ δὲ ὅµοιος ἦν ἐν ἅπαντι· τῷ ὄντι γὰρ ἐῴκει βασιλεῖ καὶ δεσπότῃ, πτωχοῦ στολὴν ἔχοντι, κἄπειτα ἐν ἀνδραπόδοις τε καὶ δούλοις αὑτοῦ στρεφοµένῳ τρυφῶσι καὶ ἀγνοοῦσιν ὅστις ἐστί, καὶ ῥᾳδίως φέροντι µεθύοντας ἀνθρώπους καὶ µαινοµένους ὑπὸ ἀγνοίας καὶ ἀµαθίας276.

A quanto pare, Luciano, dipingendo un Diogene completamente diverso da quello che la tradizione ci consegna, ne ridicolizza anche l’interpretazione da lui fornita del mendicante Odisseo, che avrebbe cercato di evitare i piaceri e il benessere il più possibile277.

7.5 Crisippo e lo stoicismo

Luciano, come era prevedibile, data la sua avversità alla filosofia sistemica degli stoici, li esclude dall’isola dei Beati. Dice che stessero salendo ancora l’erto monte della virtù e che a Crisippo, il “secondo fondatore” potremmo dire del movimento filosofico, non era concesso arrivare presso i Beati se non si fosse sottoposto per la quarta volta al trattamento dell’elleboro. In relazione alla poesia è noto l’atteggiamento degli stoici: oltre ad interpretare diversi eroi – tra cui Eracle e Odisseo, come fecero i cinici – come integerrimi nell’esercizio della virtù e, per tanto, felici anche nelle avversità, gli stoici, e in questo caso soprattutto Crisippo, ampliarono quel sistema allegorico in relazione alle divinità omeriche già iniziato almeno a partire da Teagene di Reggio, creando un sistema teologico complesso e razionalizzando le divinità omeriche interpretandole o come

275 MONTIGLIO 2011, pp. 68-70.

276 Dio Chrys., Or. IX, 9-10: “assomiglia davvero ad un re e ad un signore che, nei panni di un

mendicante, si muove tra i suoi schiavi e i suoi servi che vivevano nello sfarzo e ignoravano chi lui fosse, sopportando pazientemente loro, ubriachi e fuori di loro per via dell’ignoranza e della stupidità”.

277 Per un’idea generale del rapporto tra Luciano e il Cinismo si vedano NESSELRATH 1998 e BOSMAN

elementi del cosmo o come entità astratte278. Anche nei secoli successivi e nell’età imperiale, sebbene con qualche variazione, l’allegoria etica e teologica si ritroverà negli stoici romani – Seneca soprattutto per quella etica e Cornuto per quella teologica, come testimonia il suo Compendium theologiae Graecae – e di lingua greca, come Eraclito con le Quaestiones Homericae. Questa influenza si estenderà anche ai non stoici, come conferma lo Ps.-Plutarco con il De Homero.

È già stata notata nelle pagine precedenti relative all’analisi di singoli episodi delle

Verae Historiae l’avversità di Luciano nei confronti di questa interpretazione di Omero,

che lo rendeva in tutto e per tutto uno stoico, nei tre piani del sistema filosofico della Stoà, cioè sulla logica, l’etica e la fisica. E l’avversità del nostro autore è confermata proprio dal trattamento riservato a Crisippo: dovrà subire quattro volte la cura dell’elleboro.

Proprio con questo medicinale doveva essere trattato anche Aiace Telamonio, secondo il giudizio di Radamanto (VH, II, 7): Luciano, infatti, appena arrivato sull’isola dei Beati, è sottoposto a giudizio dal giudice del regno di morti e, attendendo il suo turno in tribunale, assiste ad altre cause, tra cui proprio quella dell’eroe. Morto suicida nell’omonia tragedia sofoclea per via della vergogna per aver fatto strage di pecore scambiate per gli Atridi a seguito di un incantesimo lanciatogli da Atena, Radamanto è chiamato a decidere se possa stare tra gli eroi o no proprio a causa della pazzia e suicidio. Il suo verdetto stabilisce che dovrà essere consegnato al medio Ippocrate per essere sottoposto al trattamento dell’elleboro e poter così riacquisire il senno, prima di prendere parte al banchetto.

In una chiave di lettura stoica il suicidio di Aiace può essere letto come gesto di estrema libertà del filosofo che, forte della virtù, rifiuta la vita in caso di gravi situazioni: Crisippo, infatti, sostiene che ὁ δὲ τῆν ἀρετὴν ἔχων καταλείποι ἂν ποτε τὸν βίον τὸν µετὰ ἀρετῆς ἑκῶν διὰ τὴν ἐξαγωγὴν τὴν εὔλογον279; altrove, inoltre, ritiene οὔτως κἀνταῦθα ἔστί τινα ἐξαγαγεῖν ἑαυτὸν διὰ λῆρον280 e nel solito frammento fa un paragone con dei

278 Si vedano BUFFIÈRE 1956, pp. 374-386; STANFORD 1968, pp. 118-127; PÉPIN 1976, pp. 125-131;

RAMELLI-LUCCHETTA 2004.

279 Alexander Aphrod., De anima libri mant., p. 159, 19, Bruns = Chrysippus 767, SVF III, p. 190:

“l’uomo virtuoso potrebbe decidere di lasciare la vita, seppure secondo virtù, attraverso una morte ragionevole”.

280 Excerpta philos. Cod. Coislin. 387 Cramer Anecd. Paris Vol. IV 403 = Chrysippus, 768, SVF III, p.

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versi dell’Aiace di Sofocle, sempre in relazione al suicidio ma questa volta a causa di una grave malattia. Anche se non direttamente, però, può saltare all’occhio il confronto con l’eroe omerico, che vittima della pazzia e della vergogna che da essa scaturisce, decide di togliersi la vita. Luciano, forte di questa ipotetica connessione, ha reso Aiace simbolo di coloro che la filosofia ha fatto impazzire e che per ‘guarire’ e tornare ad avere senno devono cibarsi di una pianta che farà dimenticare loro tutto quanto.

La pianta dell’elleboro viene menzionata anche in altri passi lucianei in relazione alla filosofia e al liberare la mente o in vista dell’impegno filosofico oppure proprio dalle strutture sistematiche della filosofia: in Vit. Auct. 23, è lo stesso Crisippo a sostenere che si debba bere τρὶς ἐφεξῆς τοῦ ἐλλεβόρου per poter diventare sapienti, ma in Herm., 86, a conclusione del trattatello contro gli Stoici, Ermotimo, decisosi contro la Stoà, sostiene di essere pronto a bere l’elleboro per dimenticare tutto quanto ha appreso.

Dunque, proprio come Aiace, Crisippo, per poter accedere all’isola dei Beati, dovrebbe rinnegare quattro volte il suo operato, dimenticando il suo assurdo sistema filosofico, e rinsavire grazie alla pianta dell’oblio. Se per Platone era ipotizzabile la sua assenza dall’isola vista la quasi onnipresenza di Omero nell’operetta lucianea, a rigore di logica, il lettore si sarebbe aspettato di vedere molti stoici in questo regno, che, seppur con diverse sfaccettature, hanno tutti contribuito alla creazione del mito di Omero e all’esaltazione della sua πολυµάθεια: Luciano, lungi dall’agire in modo prevedibile, disattende puntualmente una plausibile aspettativa del lettore, disegnando una situazione completamente opposta.

7.6 L’Accademia

Altri grandi assenti – o meglio ancora in viaggio – sono gli accademici: Luciano si riferisce ai seguaci della Nuova Accademia, cioè quel movimento filosofico che si presenta come naturale prosecuzione dell’Accademia platonica, che, però, ne aveva modificato alcune posizioni, prendendo una direzione scettica già sotto lo guida di

Arcesilao (scolarca nel 265-240 a. C. circa) e poi, ancor più, di Carneade (scolarca nel 167-129 a. C. circa), ponendosi con quest’ultimo sempre più in contrasto con l’altra grande filosofia ellenistica, cioè lo stoicismo.

Anche se gli accademici non sembrano essersi interessati alla poesia, e soprattutto ad essa come fonte di verità, del loro rapporto con l’interpretazione allegorica parla Cicerone nel suo De Natura Deorum: nel III libro l’accademico Aurelio Cotta solleva diverse obiezioni contro la tesi favorevole all’allegoresi, sostenuta dallo stoico Balbo. La maggior parte di queste argomentazioni sembra derivare dal pensiero di Carneade, riportato dai suoi discepoli Clitomaco e Filone, visto che il loro maestro – come dice Diogene Laerzio, IV, 65 – non ha scritto niente281. Cotta, seguendo l’impianto accusatorio dell’epicureo Velleio, attacca fortemente la divinizzazione dei corpi celesti attuata dagli stoici: Illa

autem Balbe, quae tu a caelo astrisque ducebas, quam longe serpant non vides. solem deum esse lunamque, quorum alterum Apollinem Graeci alteram Dianam putant282, mettendo poi in luce l’assurdità di tutti gli esempi che lo stesso Balbo aveva riportato in II, 68-69. Infatti, lo stoico sosteneva che tutti i fenomeni atmosferici fossero in realtà rappresentazioni di divinità, ma – come controbatte Cotta – ergo hoc aut in inmensum

serpet, aut nihil horum recipiemus; nec illa infinita ratio superstitionis probabitur; nihil ergo horum probandum est283.

Come già gli Stoici e Platone, anche gli Accademici sono vittime del loro stesso sistema filosofico. Immobilizzati dal loro concetto di ἐποχή, cioè quella sospensione del giudizio che impediva di sbilanciarsi verso una qualsiasi presa di posizione, essi non sono in grado di determinare l’esistenza o meno dell’isola dei Beati e, quindi, di raggiungerla284. Temono, inoltre il giudizio di Radamanto dal momento che loro stessi hanno sospeso qualsiasi criterio di verità.

Come già, e. g., nella Vitarum Auctio, in cui Luciano inscena l’asta delle diverse vite e dottrine dei filosofi, la linea di pensiero scettica è aspramente criticata perché in aperto

281 Si veda RAMELLI-LUCCHETTA 2004, pp. 258-259.

282 Cic., De nat. deorum, III, 51: “Non vedi, o Balbo, quanto ci portino lontano quei ragionamenti che

tu hai dedotto dal cielo e dalle stelle: che cioè il sole e la luna siano divinità, l’uno dei quali i Greci chiamano Apollo e l’altra Diana”.

283 Cic., De nat. deorum, III, 52: “o concediamo che questi ragionamenti si estendano all’infinito, oppure

non accettiamo niente di questo; non si approverà quella infinita dottrina della superstizione; dunque, non si accetterà nessuno di questi”.

284 Luciano gioca sul doppio significato del verbo καταλαµβάνω, da intendersi come ‘raggiungere

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contrasto con il pragmatismo necessario alla vita reale285, anche se, più in generale, Luciano stesso utilizza schemi di ragionamento accademico-scettici: lungi dall’apprezzare questa scuola filosofica – proprio perché di scuola, e quindi di pensiero sistemico e dogmatico si tratta –, nel momento in cui il Nostro si trova a criticare atteggiamenti filosofici avversi all’Accademia e al pirronismo, sembra utilizzarne gli argomenti; l’atteggiamento dissacrante di Luciano nei confronti della Verità – come evidente dall’opera che ci proponiamo di analizzare – non è tuttavia da intendere come mera adesione allo scetticismo286.

7.7 Pitagora

Anche Pitagora raggiunge l’isola dei Beati nel tempo in cui vi era anche Luciano: dopo aver vissuto quanto egli stesso predicava, cioè la dottrina della metempsicosi,