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3. Le donne-vigna e le donne-asino

3.1 L’episodio delle donne-vigna

3.1.4 Le Sirene e Odisseo dopo Omero

Tra Omero e Luciano, però, sono passati molti secoli: la concezione stessa delle Sirene non era univoca già in epoca arcaica come testimoniano alcune rappresentazioni figurative, in cui esse, ad esempio, accompagnano le anime dei morti137; Omero non parla del loro aspetto ma da tradizioni successivi letterarie e vascolari siamo abituati a pensarle come creature alate, un ibrido tra donna e uccello138 – ed è anche questa rappresentazione che ci permette di immaginare le Sirene come precedente delle donne-vigna.

133 Si veda, e. g., quando Odisseo ascolta Demodoco alla corte di Alcinoo, in Od., VIII, 367-368. 134 Si veda PERCEAU 2014, pp. 44-46.

135 Od., XII, 191: “e sappiamo tutto quanto avviene sulla terra che molti nutre”.

136 La prova della loro conoscenza può essere data dal fatto che riconoscono subito Odisseo, mentre

altre figure – come Polifemo o Circe – lo interrogano sulla sua identità.

137 Si veda in proposito BUSCHOR 1944. 138 Si veda Ps.-Apollodoro, Epitome VII, 19-20.

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Il lento scorrere dei secoli che separano i due autori ha permesso il formarsi di una duplice interpretazione delle Sirene odissiache e del loro canto, con cui Luciano ‘gioca’, per così dire, in questa operetta. Se da un lato il comportamento di Odisseo nell’ascoltare il canto onnisciente delle Sirene è stato riformulato, dall’altro, è stato variamente interpretato il loro ruolo, soprattutto in relazione all’Aldilà o – per entrare già in atmosfera platonica – nell’Iperuranio. Iniziamo proprio dal primo filosofo dell’Antichità.

Platone in Respublica, X, 617b, durante la narrazione del mito di Er, ci informa che le Sirene sono otto e il loro canto, lungi dall’essere pericoloso, muove otto sfere celesti, ognuna creando una nota e, insieme, l’armonia celeste, il tutto chiaramente alla luce delle dottrine pitagoriche sulla musica, tanto che Giamblico139 dice che Pitagora faceva ascoltare queste melodie per la purificazione dei suoi allievi. Non sembrano avere niente a che fare con le Sirene omeriche, queste creature spaventose e che insidiano l’uomo, quelle, le platoniche, generatrici dell’armonia celeste che ricorda il mondo delle Idee. Plutarco, però, ricorda il pensiero del suo maestro, il retore e filosofo Ammonio d’Atene140, il quale avrebbe riconciliato le Sirene omeriche con quelle platoniche; ad un intervento del peripatetico Menefilo contro l’introduzione da parte di Platone delle Sirene come generatrici della melodia delle sfere celesti, ruolo che – a suo dire – spetterebbe alle Muse, Ammonio risponde che, secondo lui, Platone τὰς Μούσας ‘Σειρῆνας’ ὀνοµάζειν ‘εἰρούσας’ τὰ θεῖα καὶ λεγούσας ἐν Ἅιδου141, perché interpretando correttamente il Poeta, si capisce come Omero abbia parlato in modo simbolico e la loro musica non sia pericolosa per l’uomo (si veda 745d).

Tuttavia, la concezione platonica delle Sirene è tutto fuorché univoca: ad esempio, in

Fedro, 259a Socrate esorta Fedro a non cedere alla calura del pomeriggio come davanti

139 Si veda Giamblico, De mysteriis Aegyptiorum, Chaldeorum et Assyriorum, XV, 65.

140 Plutarco sembra attribuirgli un forte influsso pitagorico e di diversi elementi mistico-religiosi. Si

veda DILLON 1996, pp. 228-230.

141 Plut., Quaest. Conv., IX, 14, 5, 745f: “chiama le Muse ‘Sirene’ perché annunciano i precetti divini e

li dicono nell’Ade”. La presenza delle Sirene nell’Ade è ben testimoniata anche nel Teatro: si vedano Sof., fr. 777 (con cui Ammonio chiude il suo discorso); Sof., fr. 861; Eur., Hel., 167-179. Anche in Plat., Crat., 403d-3 si dice che né le anime che sono nell’Ade né le Sirene vogliono tornare sulla terra, poiché affascinate dai discorsi di Ade.

alle Sirene, ma a proseguire nella navigazione – simbolo della ricerca filosofica142 – come Odisseo.

E proprio la temperanza di Odisseo e la sua capacità di resistere ai piaceri saranno due elementi fondamentali che sia Stoicismo che Cinismo metteranno in rilievo a proposito dell’eroe omerico, che si avvia navigare sulla via della filosofia fino a diventare lui stesso Ὁ φιλόσοφος Ὀδυσσεύς143. Il De Homero ci informa ancora in questo senso: gli Stoici, ritenendo la virtù dell’anima il più grande dei beni, hanno letto in quest’ottica le varie avventure dell’Odissea, dove τὸν σοφώτατον καὶ φρονιµώτατον πεποίηκεν ὑπὲρ εὐκλείας πόνου καταφρονοῦντα καὶ ἡδονῆς ὑπερορῶντα144. Presso i cinici, primo tra tutti Antistene (di cui Diogene Laerzio riporta un gran numero di scritti su Odisseo e l’epica omerica)145 ma anche successivamente Diogene146, Odisseo – ed anche Eracle – fu consacrato come modello di virtù, e questa considerazione continuerà nello stoicisomo romano147, per poi, con in Medio- e soprattutto con il Neoplatonismo, assumere uno slancio mistico come tentativo da parte dell’uomo virtuoso di liberarsi dai vincoli dei piaceri sensibili.

In riferimento particolare alle Sirene, Seneca, nelle Epistulae, XXXI, 2148, rivolgendosi a Lucilio, gli suggerisce, per sfuggire ai richiami dei beni che il volgo reputa tali, di tapparsi le orecchie con un mezzo di chiusura più spesso rispetto a quello che usò Ulisse per i compagni, e sempre in una corrispondenza con Lucilio (CXXIII, 12) le voci delle Sirene davanti alle quali Ulisse è passato soltanto legato sono il termine di paragone per dire di rifiutare le voci di ciò che ci distoglie dal conseguimento degli obiettivi

142 RAMELLI-LUCCHETTA 2004, p. 213.

143 Eust., in Odysseam., I, 51; VAN DER VALK 1971.

144 Ps.-Plut., De Hom., 136: “il più saggio e assennato disprezza le fatiche per la gloria e disdegna il

piacere”.

145 Diog. Laert., Vit. Phil., VI, 15-18. Per i frr. di Antistene: frr. 51-55 C., in cui si mette in relazione il

carattere di Odisseo con quello di altri eroi omerici (es. Nestore) e se ne apprezza la πολυτροπία, caratteristica già evidenziata presso i Sofisti e apprezzata anche da Platone. Si vedano PÉPIN 1976, pp. 105-

109 e RAMELLI-LUCCHETTA 2004, pp. 72-75.

146 Si vedano PÉPIN 1976, pp. 109-111 e RAMELLI-LUCCHETTA 2004, p. 77. L’apprezzamento era

dovuto principalmente all’imperturbabilità dell’eroe.

147 Si vedano Hor., Ep., I, 2, 17-26; Sen., De const. sap. 2 e Ep., 88, 5; 123, 12; 56, 15; 31, 1-2. Si veda

STANFORD 1968, pp. 118-127.

148 Sen., Ep., XXXI, 2: Ad summam sapiens eris, si cluseris aures, quibus ceram parum est obdere;

firmiore spissamento opus est quam in sociis usum Vlixem ferunt. Illa vox, quae timebatur, erat blanda, non tamen publica, at haec, quae timenda est, non ex uno scopulo, sed ex omni terrarum parte circumsonat.

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filosofici. Questo a testimonianza del fatto che le Sirene continuavano ad essere intese in maniera negativa, almeno in area stoica o marcata da un profondo influsso stoico.

In un testo ciceroniano – e questa sembra esserne la prima attestazione149 – troviamo, però, il secondo elemento dell’Odisseo presso le Sirene che, sebbene solo accennato in

Od., XII, sembra non essere stato colto da parte degli interpreti di varie scuole di pensiero,

cioè quello del desiderio di conoscenza di Odisseo.

In De Finibus, V, Cicerone espone le teorie etiche di Antioco di Ascalona, filosofo platonico, maestro dell’Arpinate dal 79 a. C. nonché ultimo scolarca dell’Accademia di Atene: in V, 48-50 si concentra sulle parti dell’anima e sul desiderio di conoscenza, che – sostiene – è innato nell’uomo come ci può confermare l’atteggiamento curioso dei bambini, ed è proprio questo che Omero aveva in mente quando immaginava il canto delle Sirene.

neque enim vocum suavitate videntur aut novitate quadam et varietate cantandi revocare eos solitae, qui praetervehebantur, sed quia multa se scire profitebantur, ut homines ad earum saxa discendi cupiditate adhaerescerent. Ita enim invitant Ulixem—nam verti, ut quaedam Homeri, sic istum ipsum locum —:

O decus Argolicum, quin puppim flectis, Ulixes, Auribus ut nostros possis agnoscere cantus!

Nam nemo haec umquam est transvectus caerula cursu, Quin prius adstiterit vocum dulcedine captus,

Post variis avido satiatus pectore musis Doctior ad patrias lapsus pervenerit oras. Nos grave certamen belli clademque tenemus, Graecia quam Troiae divino numine vexit,

Omniaque e latis rerum vestigia terris. [Od., XII, 184-191]

Vidit Homerus probari fabulam non posse, si cantiunculis tantus irretitus vir teneretur; scientiam pollicentur, quam non erat mirum sapientiae cupido patria esse cariorem150.

149 BONAZZI 2019.

150 Cic., De Fin., V, 49: “E infatti pare che esse fossero solite richiamare i naviganti non per la dolcezza

delle voci o per una qualche novità e diversità nel canto, ma perché dicevano di sapere molte cose, cosicché gli uomini rimanevano imprigionati ai loro scogli per il desiderio di imparare. Così invitano Ulisse – infatti, ho tradotto, oltre ad altri passi di Omero, anche questo:

O gloria degli Argivi, perché non inverti la rotta, Ulisse, affinché tu possa ascoltare il nostro canto?

Nessuno mai navigò oltre queste onde azzurre

senza prima essersi fermato, preso dalla dolcezza della voce. Poi, saziato nell’avido cuore dai canti multiformi,

navigando giungere più dotto ai patri lidi.

Noi conosciamo la grave contesa bellica e lo scontro, che la Grecia inflisse a Troia per volere divino, e tutte le cose sulla vasta terra. [Od., XII, 184-191]

Se nel primo Platonismo la figura di Odisseo non era considerata per aspetti gnoseologici151, Antioco di Ascalona sembra ‘riscattarne’ per così dire la figura: non indugia presso le Sirene perché attratto da cantiunculis, ma perché profondamente preso da una cupido sapientiae, quella sapienza che le Sirene promettevano di concedere a chi si fosse avvicinato, dal momento che conoscono tutte le vestigia rerum, termine connotato ben più filosoficamente dell’omerico ὅσσα γένηται. Ulisse non è più colui che desidera solo tornare alla sua Itaca e che è costretto a subire peripezie che lo terranno lontano dalla meta per dieci lunghi anni, ma diventa modello della ricerca gnoseologica del filosofo, spinto dal desiderio.

Come è stato notato, l’Ulisse qui presentato non si adatta perfettamente ai criteri Stoici – per i quali il desiderio, nemmeno se per la sapienza, era da condannare, poiché è una mancanza che mina l’imperturbabilità – ma sarebbe piuttosto da ricondurre alle dottrine peripatetiche e, meglio ancora, a quelle platoniche, per le quali il desiderio di conoscenza, stando ai dialoghi platonici, è caratteristica di tutti e soprattutto del filosofo152.

Questa sfaccettatura, una delle tante del multiforme eroe filosofico e letterario, avrà larga fortuna (si pensi al Neoplatonismo – in cui Odisseo è colui che, attraverso la navigazione nel mare della filosofia, torna alla sede propria dell’anima – e, più in là nel tempo, all’Inferno dantesco), è messa in risalto anche da Luciano nelle Verae Historiae. Quando al § 5 descrive le motivazioni del suo viaggio oltre le Colonne d’Ercole, dice: αἰτία δέ µοι τῆς ἀποδηµίας καὶ ὑπόθεσις ἡ τῆς διανοίας περιεργία καὶ πραγµάτων καινῶν ἐπιθυµία καὶ τὸ βούλεσθαι µαθεῖν τί τὸ τέλος ἐστὶν τοῦ ὠκεανοῦ καί τίνες οἱ πέραν κατοικοῦντες ἄνθρωποι153. Luciano ha chiaramente ben presente anche questa interpretazione della vicenda odissiaca: infatti, Luciano-protagonista condivide con l’eroe omerico, suo alter ego, quell’“ardore […] a divenir del mondo esperto” di cui Cicerone e Antioco di Ascalona ci parlano.

Omero vide che il mito non poteva ottenere approvazione, se un uomo così grande fosse stato trattenuto intrappolato da canzoncine; promettono il sapere, e non è strano che sia più caro della patria per chi è desideroso di sapienza”.

151 Si veda in proposito, da ultima, MONTIGLIO 2011, pp. 38-65. 152 BONAZZI 2019, pp. 6-8.

153 Luc., VH, I, 5: “La causa e l’intenzione del mio viaggio era la curiosità di conoscere e il desiderio di

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