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3.4.1 Jung e l'umiliazione del padre

Carl Gustav Jung rilegge l'episodio biblico in modo assolutamente diverso dalla tradizione. Interrogandosi sulla figura divina, il noto psicoanalista, psichiatra e antropologo svizzero nota che Dio mostra un volto crudele e in un certo senso nuovo: egli, garante della Legge, simbolo di giustizia, la infrange senza alcun ripensamento o senso di colpa, affidando il suo più fedele figlio nelle mani di Satana. Rompe il patto con l'uomo che egli aveva stipulato al tempo di Davide e rinsaldato grazie a Noè, macchiandosi di una serie di delitti, mancando di soccorrere l'uomo e, soprattutto, mostrando un'ira ingiustificata.

Nel Libro di Giobbe, dunque, Dio si mostra in contrapposizione con se stesso, diverso a tal punto che l'uomo si rivolge a lui chiedendo giustizia, sicuro di poter avere ancora un Dio difensore dalla sua parte, come se la divinità si fosse scissa in due. In realtà:

Yahwéh non è diviso in due, egli è un'antinomia, una totale opposizione interna, l'indispensabile presupposto della sua immensa e atroce dinamica, della sua onnipotenza e della sua onniscienza138.

Egli è dunque, il bene e il male insieme, per questo motivo Giobbe, nonostante le sciagure che si abbattono su di lui e il mancato supporto della moglie degli amici, affronta a viso aperto Dio, perché sa ancora di poter contare sulla bontà divina.

Dio tuttavia si scaglia contro di lui con una forza inaudita, e anche eccessiva, tuonando rimproveri con lo scopo di mostrare tutta la sua potenza e al tempo stesso umiliare e ristabilire le giuste gerarchie in cui lui è il padrone indiscusso. Giobbe, data la sua fragile condizione umana, deve «ripiegare ad un più alto livello di ragionevolezza, dando così prova, senza saperlo e senza volerlo, di essere leggermente superiore al suo partner divino sia intellettualmente che moralmente»139.

Giobbe, ripiegando il capo di fronte al padre tirannico, mostra di possedere qualcosa 138 Jung C. J., Risposta a Giobbe, Milano, Il Saggiatore, 1979 [1965], p.19

che a Dio manca, ossia la coscienza. La sua dimensione umana, caratterizzata dalla fragilità e la debolezza e, soprattutto, dall'inevitabile scontro con l'impossibile, lo dota della capacità di autoriflessione e autoimposizione. Dio, diversamente, in quanto essere onnipotente non incontra mai un ostacolo insormontabile e, dunque, non deve mai cautelarsi dai pericoli e riflettere sulle proprie azioni. Privo, dunque, di coscienza, dimenticando la sua essenza, scatena la sua ira su Giobbe come se si stesse scontrando con una divinità di pari potere. Giobbe, pertanto, accettando l'atteggiamento tirannico della divinità e allo stesso tempo invocandone l'aiuto, dimostra di intuire l'antinomia interna a Dio, la quale sembra sconosciuta alla stessa divinità, pertanto, senza rendersene conto si «innalza silenziosamente e progressivamente a un livello della conoscenza della divinità che Dio stesso non possedeva»140. Egli non solo «viene sfidato

come se fosse un Dio»141 -ciò spiega la reazione sproporzionata del suo avversario- ma

si rivela superiore.

Yahwèh vede in Giobbe qualcosa che noi difficilmente riusciamo a scorgervi e che saremo propensi ad attribuire piuttosto al primo dei due, vale a dire una forza che a Lui pare uguale alla Sua e che lo spinge ad esibire in un imponente parata tutta la sua potenza. Yahwèh proietta su Giobbe il volto del dubbio, che Egli non ama, perché è il Suo stesso volto che lo osserva con un'inquietante sguardo critico. Egli teme questo volto perché, infatti, è soltanto contro qualcosa di angoscioso che si fa un tale sfoggio della propria forza, potere, coraggio, invincibilità, ecc. che cosa ha a che fare tutto ciò con Giobbe? Al forte vale la pena di spaventare un topo?142

Dio sembra non rendersi conto della sproporzione del duello, e mostra al piccolo uomo la propria brutale onnipotenza. Egli risponde a Giobbe ricordando il momento della creazione, pertanto da un lato elegge l'uomo a giudice della divinità, dall'altro lato sembra voler ricordare più a se stesso che non all'uomo chi egli sia. Attraverso la Sapienza, qui personificata nell'originaria sposa di Dio prima di Israele, egli compie un atto di autoriflessione:

le cose non potevano continuare come erano andate sino ad allora; il Dio 140 Ivi, p. 30

«giusto» non poteva più continuare a perpetuare lui stesso ingiustizie, e l'«onnisciente» a comportarsi da sprovveduto e sciocco. L'autoriflessione diventa una necessità inesorabile, e perciò indispensabile la Sapienza: Yahwèh deve ricordarsi del Suo sapere assoluto. Perché se Giobbe riesce a riconoscere Dio, anche Dio deve conoscere se stesso. Non era possibile che la doppia natura di Yahwèh divenisse palese a tutto il mondo e restasse nascosta solo a Lui. Chi conosce Dio, agisce su di Lui. Il fallimento del tentativo di perdere Giobbe ha mutato Yahwèh143.

La divinità quindi ricorda la propria identità riscoprendo l'essenza femminile con la quale ha potuto generare il mondo. Tuttavia, egli capisce che per poter mantenere il proprio potere e la propria credibilità dopo l'episodio di Giobbe, deve mostrare nuovamente il suo volto amorevole e misericordioso, pertanto decide di scendere sulla terra nella figura del figlio, Cristo. Giobbe lo ha spinto a sottoporsi ad un esame di coscienza dal quale può uscirne rinnovato solo nel momento in cui si ritrova faccia a faccia con se stesso:

Qui la natura umana raggiunge il divino, proprio nel momento in cui il dio fa esperienza dell'uomo mortale […]. È qui che viene risposto a Giobbe e, come si vede chiaramente, anche questo attimo supremo è tanto divino quanto umano, tanto “escatologico” quanto “psicologico”144.

Cristo in croce, il quale si rivolge disperatamente a Dio -«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»- ripropone la figura di Giobbe, del figlio sofferente ed esanime che invoca il padre, il quale rimane in silenzio. Pertanto, secondo Jung, la risposta di Dio a Giobbe è la sua incarnazione in Gesù Cristo, attraverso il quale può riparare alla sua condotta e tornare ad essere il garante della legge.

Jung, in particolare, permette di capire la causa del cambiamento del padre interpretato da Brad Pitt. Egli discende dalla propria posizione di preminenza per avvicinarsi al figlio nel momento in cui scorge nel bambino non solo un ostacolo alla sua “onnipotenza” ma anche una persona che ha compreso un suo aspetto che egli stesso non aveva colto. Allorché il figlio Jack afferma di essere cattivo quanto il padre, di condividerne quindi il volto crudele, mostra un'antinomia che prima di tutto è sua: egli ama i propri figli, ma si mostra crudele perché loro possano imparare subito 143 Ivi, p. 50

quanto la vita sia dolorosa e vincere, senza illusioni.

Il figlio, dunque, pone il padre di fronte a uno specchio attraverso il quale il genitore, posto a confronto con la madre, comprende di essere stato troppo severo e repressivo nei suoi confronti. Il Padre- Dio, secondo Jung, per redimersi moralmente discende sulla terra, diventa uomo e si immola sulla croce, allo stesso modo nel film la narrazione della storia familiare si conclude con il trasferimento del padre: «Chiudono lo stabilimento. Mi hanno fatto scegliere: niente lavoro, o il trasferimento a fare un lavoro che nessuno vuole».