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4.3.3 McCarthy e il mito classico

Nati in due mondi diversi -quello vivo e colorato del passato il padre, quello devastato dalla catastrofe e grigio il figlio- i due protagonisti rappresentano l'ultimo barlume di speranza: essi appartengono ai «buoni», sono i «portatori del fuoco».

Più volte il padre spiega al figlio che sono buoni e portano il fuoco, quasi a volerlo rassicurare che al mondo esiste ancora il bene, oltre al male che imperversa tra i pochi esseri umani ancora esistenti, che violentano, uccidono, mangiano carne umana.

188 Ivi, p. 27

189 L'ipotesi appare avvalorata se si confronta questo romanzo con il precedente Non è un paese per

vecchi, in cui è possibile riscontrare nel protagonista la figura dell'Anticristo [per un approfondimento

si rinvia a “Non è in paese per vecchi”. La percezione pneumatica di un moderno anticristo, a cura di Gianpiero Ariola in Anticristo. Letteratura, cinema, storia, teologia, filosofia, psicoanalisi a cura di

-Noi non mangeremo mai nessuno, vero? -no. certo che no.

-Neanche se stessimo morendo di fame? […] Comunque non mangeremo persone

-No. Non le mangeremo. -Per niente al mondo. -No. Per niente al mondo. -Perché noi siamo i buoni. -Si

-E portiamo il fuoco. -E portiamo il fuoco. Sì. -Ok190

La caratteristica di “portatori del fuoco” dei due protagonisti ricorda la figura di Prometeo. Secondo la tradizione, il titano Prometeo è punito da Zeus per aver rubato il fuoco e averlo donato agli esseri umani, con una condanna eterna: incatenato a una rupe sulla cime di un monte mentre un'aquila gli divora il fegato, che ogni notte risorge. Tale versione è quella più nota del mito di Prometeo, che ha ispirato l'immaginazione di autori antichi e moderni (da Eschilo a Goethe). Esiodo tratta il mito in due versioni, narrate rispettivamente nella Teogonia e Le opere e i giorni. Nella prima opera Prometeo inganna Zeus durante un'offerta sacrificale, dividendo il bue e donando alla divinità la parte immangiabile, nella seconda opera il mito del titano è collegato a quello di Pandora. Il padre degli dei infatti dapprima punisce Prometeo incatenandolo al mondo e poi crea la prima donna, «gioia e dolore dell'intera umanità». Eschilo riprende il mito tre secoli dopo nel Prometeo incatenato, dove emerge anche la figura di Efesto, restio a legare con le catene che lui stesso ha forgiato Prometeo, il quale si lamenta della sua ingiusta punizione. Egli infatti ha reso la vita degli uomini migliore, poiché non solo ha donato loro il fuoco, ma anche le arti.

Il coro consola il titano affermando: io ho ferma speranza che, sciolto infine da queste catene sarai potente non meno di Zeus191.

Il ritratto che ne fa Goethe nel Prometheus è diverso e per certi aspetti simile alla figura del padre di La strada. «Io sto qui e creo uomini a mia immagine e somiglianza, una stirpe simile a me, fatta per soffrire e piangere, per godere e gioire e non curarsi di te, come me»192. Prometeo disconosce una dimensione inferiore rispetto alla divinità per

190 Ivi, pp. 98-99 191 Ivi, p. 58

dichiarare non solo che egli è al suo stesso piano, ma in un certo senso superiore poiché ha sofferto. Per tale motivo creerà la stirpe umana, cosi come nelle versioni di Ovidio (Met I 76-88) e Platone (Protagora), somiglianti però non a Dio ma a se stesso. Nell'inno di Goethe il desiderio di ribellione di Prometeo rispetto alla divinità è maggiore poiché in Goethe Zeus è il padre di Prometeo. Pertanto, come il mito di Giobbe, si ha la ribellione del figlio nei confronti del padre divino, a cui il figlio è superiore in quanto più umano.

Il padre della Strada presenta lo stesso carattere irriverente nei confronti della divinità: «Ci sei? […] Riuscirò a vederti prima o poi? Ce l'hai un collo per poterti strangolare? ce l'hai un cuore? Sii stramaledetto per l'eternità, ce l'hai un'anima? Oh Dio [...]. Oh Dio»193.

Nel momento in cui lui e il figlio scoprono accidentalmente una cantina in cui sono rinchiusi degli esseri umani, denutriti e incatenati in fila che attendono il loro turno per essere mangiati, egli teme di dover sparare al bambino per proteggerlo e pensa: «Bestemmia Dio e muori»194.

Egli, come la figura titanica di Prometeo, bestemmia contro Dio, che secondo la tradizione cristiana è anche il Padre. Al tempo stesso, dal momento che presenta il figlio come verbo di Dio, sembra quasi voler professare un'altra fede. Come nell'inno di Goethe, l'uomo si innalza allo stesso piano della divinità: «Se fosse stato Dio avrebbe creato il mondo precisamente com'era, senza cambiare una virgola»195.

Altri elementi presenti nel romanzo sembrano richiamare la tradizione classica del mito: l'immagine di un falco che scende in picchiata per mangiare il cuore di un'animale ricorda l'aquila che divora il fegato di Prometeo, l'allusione ai cani alati che ricordano quelli di Zeus della versione dell'Eschilo Incatenato, e il legame tra la donna e la morte, che rievoca il mito di Pandora.

Anche il figlio è definito come un portatore del fuoco, eppure i due protagonisti sono diversi. Come emerge dalla stessa narrazione, focalizzata sul padre (suoi infatti sono i sogni e le riflessioni), egli sembra essere incatenato al passato. Non fa che ricordare e sognare il mondo in cui viveva prima, un mondo completamente diverso, pieno di vita e di colori. Questo gli provoca un enorme dolore, poiché come ricorda Primo Levi: 193 Ivi, p. 9

«Guai a sognare: il momento di coscienza che accompagna il risveglio è la sofferenza più acuta»196. All'esperienza di coloro che hanno vissuto nei campi di concentramento

allude esplicitamente l'autore presentando un mondo in cui la differenza tra vivi e morti è molto labile, in cui gli uomini, privati anche del nome, devono lottare per mantenere la propria umanità e non farsi risucchiare dall'oblio. «[Il bambino] sembrava uscito da un campo di concentramento. Affamato , esausto, sconvolto dalla paura»197.

In un mondo come quello descritto da Levi, infernale, grigio e senza futuro, l'incapacità paterna di guardare alla realtà delle cose è espressa attraverso un richiamo al mito della caverna di Platone.

Quel centinaio di notti che avevano passato svegli a discutere sui pro e sui contro dell'autodistruzione con il fervore dei filosofi incatenati alle pareti di un manicomio198.

Lui e la moglie, provenienti dal mondo ancora vivo del passato, appaiono incapaci di valutare la vita nel mondo ormai giunto al termine. Nel sogno iniziale, con cui si apre il romanzo, il padre è in una grotta insieme al bambino che lo guida tenendolo per mano.

Il fascio di luce della torcia danzava sulle pareti umide di concrezioni calcaree. Come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una bestia di granito. […] rannicchiata lì, pallida, nuda e traslucida, con le ossa opalescenti che proiettavano la loro ombra dietro di lei199.

Il padre appare come il viandante di una «favola», che guarda la parete della roccia in cui le ossa della bestia «proiettano la loro ombra».

Il bambino, diversamente, forse proprio perché non ha conosciuto altra vita che non quella nella terra desolata, sembra essere l'unico che ha ancora speranza nel futuro, che crede negli altri e nel bene, che, come il filosofo della caverna, riesce a voltarsi. È infatti solo lui, e non il padre, a voltarsi spesso indietro durante il loro cammino e a dispiacersi delle persone che incontrano per strada e che non possono aiutare. Proprio perché nato e cresciuto nel mondo di prima il padre si rende conto del degrado che lo 196 Levi Primo, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1989, p. 44.

197 McCarthy Cormac, op. cit., p. 90 198 Ivi, pp. 45-46

circonda e appare ancora più disilluso e amareggiato. Il bambino diversamente non conosce altro mondo che non questo pertanto, seguendo gli insegnamenti del padre, egli crede che qualcosa di buono ancora possa esistere.

Nel romanzo il rapporto padre e figlio appare in tutta la sua esemplarità: il loro vivere in due mondi diversi- qui lo sono letteralmente- la figura del padre presentata come il testimone di un passato che consegna al figlio attraverso l'insegnamento, l'idea del figlio come speranza.