• Non ci sono risultati.

Il Kenya possiede 3,47 milioni di ettari di copertura forestale, pari al 5,6% del territorio nazionale (FAO, 2010). Come abbiamo visto al paragrafo 1.6, le principali minacce per le foreste keniane riguardano la rapida e inarrestabile crescita della popolazione, l’espansione agricola, l’elevata domanda di legno per energia e sussistenza, e per politiche poco attente e poco lungimiranti. Le risorse forestali sono fondamentali per i servizi ambientali ed ecosistemici che forniscono, come la conservazione del suolo, delle acque, della biodiversità, nonché nel mitigare il clima (Government of

Kenya - Ministry of Environment, Water and Natural Resources, 2013, p.11) e per il loro contributo allo sviluppo economico e sociale, soprattutto nei contesti rurali. Nello specifico, circa il 70% dell’approvvigionamento idrico del Kenya, viene fornito dai bacini idrici che si formano nelle sue foreste. In più, gran parte della biodiversità (soprattutto la fauna selvatica), importante fattore per attirare il turismo estero, dipende dalle foreste e dai boschi, come, anche, la popolazione rurale che trova in esse legna da ardere, carbone di legna, cibo, erbe medicinali, e altre risorse, fondamentali per la sopravvivenza comunitaria (The REDD Desk, 2015, sito theredddesk.org9) Per quanto riguarda l’economia legata alle foreste, l’industria del taglio legno è certamente la più produttiva. Si è stimato che, a metà degli anni ’90, gli occupati diretti nel settore fossero circa 30.000 e oltre 300.000 nell’intero indotto e che, nel 2007, il settore forestale abbia contribuito per l’1% del PIL nazionale (16,4 miliardi di Scellini) (FAO, 2010). L’eccessivo sfruttamento e la conseguente perdita su larga scala delle foreste porterebbe, il Kenya, ad un catastrofico sconvolgimento ecologico nel Paese, che inciderebbe pesantemente sulla produttività agricola, sullo sviluppo del potenziale industriale, sulle condizioni di vita e aumenterebbe la vulnerabilità ai disastri ambientali, come siccità e alluvioni, ed, inoltre, sarebbe messo in pericolo l’approvvigionamento idrico dell’intero Paese. Ma il Kenya, riconoscendo l’importanza fondamentale delle sue foreste, ha inserito nella Costituzione del 2010 un importante principio, che almeno il 10% del suo territorio debba essere a copertura boschiva. Inoltre, nel progetto di sviluppo economico sostenibile del paese, la Vision 2030, attraverso il sostegno ad altri settori primari dell’economia, si mira a proteggere i cinque grandi bacini idrografici nazionali (Monte Kenya, Aberdares, Foresta Mau, Cherangani e Monte Elgon) andando ad aumentare la copertura forestale per mezzo di un programma di rimboschimento, ripopolamento e ripristino (The REDD Desk, 2015). Nonostante il Kenya non disponga ancora ufficialmente di uno specifico quadro giuridico

9 Il REDD Desk si occupa di fornire informazioni, notizie e analisi sulle politiche forestali e le

campagne di riforestazione atte a ridurre le emissioni di gas serra causate dalla deforestazione e dalla cattiva gestione forestale.

REDD+10, tramite la politica ambientale integrata proposta dal NEP, il Governo si propone di formulare strategie più incisive per aumentare la copertura forestale; sviluppare e attuare un progetto nazionale per la riabilitazione e il ripristino degli ecosistemi forestali degradati, anche con il coinvolgimento e la partecipazione attiva delle comunità locali; sostenere efficacemente l’attuazione delle varie politiche e legislazioni forestali; realizzare standard nazionali per quel che riguarda i principi e i criteri di gestione forestale sostenibile; incoraggiare lo sviluppo e l’implementazione di adeguati programmi e progetti di investimento per proteggere e valorizzare l’importantissimo patrimonio forestale nazionale; infine, coinvolgere maggiormente e potenziare il lavoro svolto dalle comunità locali nella gestione degli ecosistemi forestali (Government of Kenya - Ministry of Environment, Water and Natural Resources, 2013, p.12).

2 IL CLIMA E' GIA' CAMBIATO

Procedendo sempre più verso Ovest, ci eravamo lasciati alle spalle la caotica e rovente città di Nakuru, che con i suoi oltre 300.000 abitanti è la quarta città del Kenya. Dopo qualche chilometro svoltammo a sinistra, lasciando la A104 e imboccando la strada C56 che porta direttamente verso la Foresta Mau e la zona di Mariashoni, voltandomi potevo ammirare, ancora per qualche istante, le cristalline acque del grande Lago Nakuru. Dolcemente salivamo di quota su per il Rift, il paesaggio si faceva, via via, meno brullo, le varie tonalità di marrone lasciavano sempre più spazio al verde della foresta che, in lontananza, copriva l’orizzonte. Superati i 2000 metri già il clima si faceva più fresco e piacevole ma il cielo era plumbeo: minacciava una imminente pioggia. Però, prima del mio arrivo a Mariashoni, necessitavo di rifornirmi di cibo e soprattutto di acqua. Fu così che decidemmo di fermarci a Elburgon, che come mi raccontava Weclief, è un po’ l’ultima città prima delle verdeggianti colline di Mariashoni, una sorta di città di frontiera da cui poi comincia la foresta. Elburgon è una

10 REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation) è un

meccanismo internazionale, istituito con la Conferenza delle Parti di Cancun nel 2010, che consente di finanziare progetti di riforestazione e protezione delle aree forestali, ma anche attività di recupero e ripristino ecosistemico.

cittadina davvero carina e vivace, la strada principale, che la divide in due, è affollata e costellata, ai lati, da centinaia di negozi e bancarelle che vendono un po’ di tutto: telefonini, frutta, vestiti, scarpe, pneumatici, bigiotteria e molto altro. Quella fu la prima volta in vita mia, in cui mi trovavo ad essere l’unico bianco, mi sentivo osservato e imbarazzato. Mi pareva che tutti gli occhi fossero puntati su di me, migliaia di occhi! Di certo, per strada, non passai inosservato ma incontrai tanti sorrisi e anche tanta cordialità, superati timori iniziali mi sentii subito a mio agio e pronto ad affrontare la grande avventura che mi aspettava. Quando entrammo in un piccolo supermercato, già si sentivano in lontananza i primi tuoni, il mio autista, lo vedevo, si faceva sempre più preoccupato. Infatti, la strada che da Elburgon conduce a Mariashoni non è in asfalto ma è in terra battuta e, come mi diceva Weclief, quando piove diventa un vero fiume di fango rendendo lungo e difficoltoso il viaggio, per questo motivo feci la spesa in maniera veloce. Sfrecciavo freneticamente per le brevi corsie, provocando un’aria di ilarità nelle commesse del negozio ma, nonostante l’imminente acquazzone, per una di loro, era una graziosa e gentile ragazza sui 35 anni, ero comunque fortunato, infatti mi disse che, rispetto al passato, pioveva molto meno e che potevo prendermela con una certa calma. Così in un lampo mi venne alla mente la banale ma preziosa considerazione che, anche da queste parti, il clima stava profondamente cambiando, anzi era già cambiato. A livello globale stiamo correndo un rischio assai grande e le cause, di questo cambiamento così pericoloso, vanno ricercate nell’azione umana, l’enorme consumo di energia fossile, l’uso irrazionale del suolo, la devastazione delle foreste, l’eccessiva urbanizzazione (Carraro, Mazzai, 2015, p.15). La temperatura della Terra dipende da un sottile equilibrio fra energia in entrata ed energia in uscita dal nostro pianeta. La quantità di energia, o meglio, di calore presente sulla Terra è tenuto sotto controllo dall’effetto di isolamento prodotto da alcuni gas serra, il vapore acqueo (H2O), l’anidride carbonica

(CO2), il metano (CH4) e il protossido di azoto (N2O): questi funzionano

come i vetri di una serra, trattenendo calore che in caso contrario andrebbe disperso. Senza l’effetto di questi gas la temperatura media del nostro pianeta sarebbe almeno di 30 gradi in meno rispetto a quella attuale. Ma un aumento eccessivo dei gas serra (in particolare del CO2 che rappresenta

circa l’85% del totale) può concorrere nel far aumentare la temperatura terrestre e, conseguentemente, avere impatti permanenti sul clima. Fino ad un certo livello gli ecosistemi come gli oceani e le foreste e con loro l’atmosfera e il suolo, sono in grado di assorbire l’incremento dei gas serra, tuttavia, oltre una certa soglia, questi inquinanti non riescono più ad essere smaltiti dando origine, soprattutto, al grave problema del riscaldamento della temperatura terrestre. E’ proprio da questo processo di progressivo aumento delle temperature medie che deriva l’espressione «cambiamento climatico» (Bignante, Celata, Vanolo, 2014, p.91). Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), la commissione internazionale sul cambiamento climatica fondata nel 1988 e che conta la collaborazione di centinaia di scienziati da tutto il mondo, nell’ultimo secolo, la concentrazione di anidride carbonica (CO2) in atmosfera è

aumentata del 40%, provocando un aumento della temperatura media globale della superficie terrestre di 0,8 gradi dagli inizi del ‘900 (Carraro, Mazzai, 2015, p.17). Continuando a questo ritmo, l’aumento della temperatura raggiungerà i 3,7-4,8 gradi alla fine del XXI Secolo rispetto alla media degli anni 1850-1900 (IPCC 2013a). I numerosissimi negazionisti del cambiamento climatico obiettano che “il clima è sempre cambiato”. L’affermazione è assolutamente vera, infatti, il clima e le temperature terrestri hanno subito diversi cicli nella storia, cicli che è stato possibile ricostruire, studiare e confrontare grazie alle informazioni intrappolate nei ghiacci millenari. Queste informazioni ci forniscono un elemento assai rilevante, ovvero, che, negli ultimi 800.000 anni, le concentrazioni di anidride carbonica e degli altri gas serra nell’atmosfera sono sempre andati di pari passo con le variazioni di temperatura. Però, quello che è successo negli ultimi 150 anni è completamente nuovo. Con l’espansione della produzione industriale, i gas serra nell’atmosfera, in particolare il CO2, sono

aumentati moltissimo, superando le 400 parti per milione quando mai, in 800.000 anni, aveva superato le 300 parti per milione (Carraro, Mazzai, 2015, pp.17-19). Questo incremento, che sale di circa 2 ppm all’anno, potrebbe indicare che i, cosiddetti, carbon sinks (pozzi di assorbimento naturali del carbonio come la vegetazione, il suolo, gli oceani) del nostro pianeta, stanno riducendo in modo sempre maggiore la loro capacità

naturale di trattenere i gas serra. Secondo la National Oceanic Atmospheric Administration (NOAA) degli Stati Uniti il riscaldamento terrestre è più intenso sulle terre emerse che sugli oceani, e alle latitudini settentrionali è maggiore che altrove. Tuttavia, le temperature degli oceani stanno crescendo molto più rapidamente di quanto si stimava solo qualche anno fa. Temperature più alte provocano un aumento dell’acidità delle acque, il che potrebbe minacciare seriamente la vita marina. Inoltre, mari più caldi rilasciano più CO2 accelerando il processo di riscaldamento globale. In

particolare per quel che riguarda il Mar Glaciale Artico, i dati forniti dai satelliti, a partire dal 1978, mostrano che la copertura media annua di ghiaccio si riduce di circa il 3% ogni decennio e che le temperature sono aumentate di ben 7°C. Il risultato è stato che, negli ultimi 50 anni, la calotta artica si è ridotta di oltre la metà. Anche i ghiacciai presenti sulle montagne di entrambi gli emisferi si stanno ritirando sempre più velocemente, ciò ha provocato e sta continuando a provocare un notevole innalzamento dei livelli del mare. Come se non bastasse, il riscaldamento sta intensificando il rischio siccità in molte aree del pianeta mentre provoca precipitazioni più intense in altre (Giddens, 2015, pp.20-22). Questa mutazione climatica è alla base dell’incremento di casi e di violenza delle siccità, delle alluvioni e degli uragani, cioè di quei fenomeni che ormai abbiamo imparato a conoscere, perché fortemente enfatizzati dai mass media, e che chiamiamo «eventi estremi» (Shiva, 2009, p.17). Il lavoro dell’IPCC ha avuto un’influenza enorme sulla maniera in cui il mondo concepisce il riscaldamento globale. Il suo grande obiettivo è quello di raccogliere quanti più dati scientifici possibile sulle variazioni delle condizioni climatiche, sottoporli a rigorosi esami per giungere a conclusioni generali sullo stato dell’opinione scientifica (Giddens, 2015, p.23). Nel suo quarto rapporto, pubblicato nel 2007, l’IPCC afferma: ”Il riscaldamento del sistema climatico è inequivocabile” (IPCC, 2007), il clima è già cambiato.

2.1 LE RESPONSABILITA'

Attraverso la nostra esperienza personale, anno dopo anno, ci stiamo accorgendo che il clima sta cambiando o, addirittura, che è già cambiato. Ma ormai non è più solo una questione di opinione o di sensibilità personale, i dati scientifici sono chiari e dimostrano che la quantità di energia solare (in particolare il calore) assorbita dalla Terra è sempre crescente. Per questo motivo, il pianeta sta perdendo il proprio equilibrio energetico e diverrà quindi necessariamente sempre più caldo nei prossimi decenni (Carraro, Mazzai, 2015, p.25). Wyclef, quando mi diceva che “in Kenya si è tagliato tanto, troppo”, alludeva al fatto che è stata l’irresponsabile azione umana la principale ragione della distruzione e del peggioramento delle condizioni ambientali. Ed è anche la stessa attività dell’uomo la prima causa del cambio climatico. Infatti, secondo gli studi condotti dall’IPCC, negli ultimi 20 anni, è emerso che, con ogni probabilità (pari al 95%), i cambiamenti climatici hanno come principale spiegazione causale le emissioni umane di gas serra (fig.7) (IPCC, 2013a). I risultati di un’importante ricerca, condotta da Richard Muller (professore di fisica all’Università della California, Berkeley) nel contesto del progetto triennale Berkeley Earth Surface Temperature (BEST), dimostrano che la temperatura della superficie terrestre, negli ultimi 250 anni, è aumentata in media di 1,5°C, di cui 0,9 solo nell’ultimo mezzo secolo! In particolare, questo studio prova che il rapporto fra l’aumento della temperatura terrestre e quello della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera rappresenta, ad oggi, la principale spiegazione dei cambiamenti climatici, che sono da attribuire in larga parte alle attività umane (fig.8) (Carraro, Mazzai, 2015, p.26). Il progetto BEST ha anche l’obiettivo di affrontare le critiche sollevate dagli scettici del clima su come sono stati elaborati i vari dati esistenti riguardo alle variazioni della temperatura media della superficie terrestre. E’ vero che la correlazione dei dati non prova in maniera scientifica il nesso causale tra l’aumento di concentrazione di CO2 nell’atmosfera e il riscaldamento

globale, ma una corrispondenza così forte ne rende il gas serra il principale colpevole (Carraro, Mazzai, 2015, p.29). A questo proposito, il professor Muller ha affermato: "Per essere considerata seriamente ogni altra spiegazione alternativa deve dimostrare, con i dati, di avere una correlazione

forte almeno quanto quella della CO2” (Muller, 2012). E allo stato attuale

ciò non è ancora avvenuto.