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Il pensiero verde trova le sue radici nel movimento conservazionista statunitense, che vede, nel 1892, la nascita del Sierra Club, la prima organizzazione ambientalista mondiale. Rifacendosi al pensiero romantico di autori come Ralph Waldo Emerson e Henry Thoreau, il Sierra Club aveva come principale obiettivo la protezione delle aree naturali nonché la protesta contro la costruzione delle prime grandi dighe fluviali. Il termine «verde» è stato coniato negli anni ’70 del Novecento in Germania, da dove, poi, ha avuto origine l’attuale movimento verde. Da quel momento, la sensibilità e le idee verdi si sono estese e sviluppate a livello globale. Il loro primo meeting mondiale è avvenuto nel 1992, poco prima della Conferenza di Rio de Janeiro delle Nazioni Unite. Oggi, l’organismo di azione politica più importante è il Global Green Network che riunisce partiti provenienti da circa ottanta paesi. Spesso, i verdi, sono stati accusati di essere contro il

mondo scientifico, in realtà, la loro, non è una critica alla scienza, quanto piuttosto allo «scientismo», inteso come illimitata fede nella scienza e, soprattutto, nella tecnologia. In particolare, un elemento fondamentale del pensiero verde, in relazione alla tecnologia, è il cosiddetto principio di precauzione. Questo principio fa riferimento al rischio, o meglio, ad una parte di esso: il danno. Infatti, nel rifiuto delle tecnologie, i verdi, evidenziano il fatto che, spesso, non è possibile o è difficile provare, in queste, l’assenza di rischi e di pericolosità a danno degli esseri umani e degli ecosistemi (Giddens, 2015, pp.59-60). Può sembrare strano, ma per quel che riguarda il cambiamento climatico, esso non nasce all’interno del pensiero verde che preferiva sottolineare parole chiave come armonia, equità, democrazia partecipativa, giustizia sociale, localismo. Il riscaldamento globale non è un’estensione delle forme tradizionali di inquinamento industriale e, non essendo visibile, non suscita reazioni emotive immediate. Fino a dieci anni fa, i verdi non si mobilitavano contro il cambiamento climatico. Questo è stato oggetto di aspre critiche da parte del mondo scientifico che, al contrario, definisce il cambiamento climatico un problema scientifico, non superabile con semplici «cure palliative». Infatti, secondo il mondo scientifico, non basterà vivere in modo sostenibile e in armonia con la Terra, poiché il problema del cambiamento climatico necessita di più scienza, tecnologia monitoraggio e di un cambio radicale negli stili di vita che, al momento, ci sono ignoti. Inoltre, alcune tecnologie, che la scienza ha valutato come necessarie per contrastare i cambiamenti climatici (energia nucleare, OGM, pale eoliche, eccetera) sono giudicate molto negativamente dal movimento verde. Per di più, è sempre più chiaro che il problema del cambio climatico, necessiterà di un maggiore coordinamento e di interventi nazionali e internazionali, in cui il ruolo chiave sarà giocato dagli stati, dalle organizzazioni internazionali e, anche, dalle grandi imprese che, come detto, sono state sempre oggetto di critiche da parte dai verdi. Infine, il conflitto fra ambientalisti e tecnocrati riguarda, pure, il principio di precauzione. Se da un lato (gli ambientalisti) il conservazionismo conduce al principio secondo il quale dovremmo essere cauti e non interferire nei processi naturali, dall’altro (il mondo scientifico), c’è chi dice che “chi si ferma è perduto” perché, per avere qualche speranza

di sconfiggere il cambiamento climatico, bisogna assumersi dei rischi, proporre interventi e politiche audaci ed innovative (Giddens, 2015, p.65).

2.5 LE POLITICHE

Nel suo famoso libro La politica del cambiamento climatico, pubblicato nel 2011, il sociologo politico Anthony Giddens propone un interessante elenco di concetti chiave, fondamentali per analizzare e promuovere efficaci politiche sul cambiamento climatico nel contesto degli organismi politici: 1. Principio del «chi inquina paga»: questo concetto sta a significare che chi provoca inquinamento, attraverso emissioni di gas serra (CO2 su tutti),

dovrebbe pagarne il costo in base al danno provocato. Questo è alla base delle imposte sulle emissioni e dei mercati dei permessi di emissione; ed è, inoltre, all’origine del principio secondo il quale i paesi che maggiormente hanno contribuito all’inquinamento atmosferico in passato, dovrebbero agire di più per ridurre. In generale questo principio, ha l’obiettivo di incentivare il potenziale inquinatore a ridurre quanto più possibile le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (Giddens, 2015, pp.75-76).

2. Stato garante: oggi lo stato deve avere come compito quello di essere un «attivatore», ossia promuovere e stimolare gruppi, organizzazioni per trovare possibili soluzioni a problemi collettivi. Inoltre, per l’appunto, lo stato deve essere garante e quindi monitorare gli obiettivi dei cittadini e fare in modo che questi siano realizzati in modo accettabile e chiaro.

3. Convergenza politica: lo stato deve sostenere l’attivazione di politiche che, oltre ad obiettivi propri, abbiano, anche, conseguenze positive alla lotta al cambiamento climatico. Fra le principali aree di convergenza politica troviamo, ad esempio, la sicurezza e la pianificazione energetica, l’innovazione tecnologica, le politiche di mobilità e trasporto urbano sostenibile.

4. Convergenza economica: lo stato si deve far promotore nell’incentivare le soluzioni «win-win» cioè, attraverso l’integrazione strutturale, fare il bene dell’economia e, in maniera indiretta, contribuire positivamente alla salute dell’ambientale. Di questa tipologia di convergenza è un esempio l’economia circolare (ad esempio con i soldi derivanti dall’aumento delle

tasse sui rifiuti costituire un fondo per finanziare progetti di sostenibilità e recupero ambientale), l’ecologia industriale, e la Green Economy (per esempio un insieme di imprese che cooperano in simbiosi tra loro scambiandosi energia, rifiuti, acqua), in cui la molla è il guadagno economico ma indirettamente si limitano le immissioni di CO2 e di altri

inquinanti.

5. Mantenere la questione in primo piano: visto che il cambiamento climatico potrebbe avere conseguenze catastrofiche è necessario tenerlo sempre in cima alla lista nelle agende politiche e nella sensibilità di ciascun cittadino.

6. Positività degli obiettivi sul cambiamento climatico: nella lotta al riscaldamento globale c’è la necessità di porsi obiettivi positivi per cui valga la pena attivarsi e lavorare. Questi vanno cercati nelle aree della convergenza politica ed economica.

7. Trascendere la politica: le risposte legate al cambiamento climatico non devono essere viste come una questione politica di sinistra o di destra ma devono andare oltre, devono, appunto, trascendere i partiti politici.

8. Principio percentuale: bisogna individuare una linea d’azione (o di inazione) che permetta di mantenere un equilibrio tra rischi e opportunità. 9. Imperativo dello sviluppo: ai paesi impoveriti e quelli in via di sviluppo deve esser consentito di svilupparsi economicamente, anche se questo processo comporta un notevole incremento delle emissioni di gas serra. 10. Sovrasviluppo: saper gestire i problemi generati dal sovrasviluppo rappresenta un elemento molto importante di convergenza con le politiche utili a combattere il cambiamento climatico.

11. Adattamento proattivo: il cambiamento climatico è, oramai, un dato inequivocabile, quindi, occorrerà elaborare una politica di adattamento che ci aiuti a prepararci in anticipo e in maniera preventiva ai potenziali impatti (Giddens, 2015, pp.80-84).

Secondo l’IPCC, bisogna agire ora, non si può più temporeggiare, perché ogni ritardo ci allontana, sempre più, da una possibile «transizione verde» che consenta di separare la crescita economica dall’aumento delle emissioni di gas serra. Per raggiungere questo obiettivo, continua l’IPCC, gli stati e le

organizzazioni internazionali, in collaborazione con il mondo scientifico, devono proporre adeguate politiche di mitigazione per la riduzione dei gas serra. L’IPCC non emana politiche ma fornisce agli attori politici, nazionali ed internazionali, gli strumenti necessari per prendere decisioni consapevoli. Le principali azioni di mitigazione indicate prendono in considerazione, in particolar modo, l’efficienza energetica e la decarbonizzazione attraverso: fonti di energia rinnovabile, energia nucleare, cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS – Carbon Capture and Storage), bioenergia, riduzione della deforestazione e gestione delle foreste, riduzione e gestione dei rifiuti, mercato del carbonio, tassazione del carbonio, riduzione o rimozione dei sussidi ai combustibili fossili, cambiamenti nello stile di vita della persone. Purtroppo, siamo lontani dal «mondo ideale» in cui queste politiche e queste azioni di mitigazione sono messe in atto con successo, ad oggi, ci muoviamo ancora troppo lentamente e in maniera assai poco uniforme: siamo ancora indietro. Basti pensare che, fra il 2000 e il 2010, le emissioni di gas serra sono aumentate più rapidamente che in qualsiasi altra decade precedente, con un tasso di crescita annuo del 2,2%, mentre nel periodo che va dal 1970 al 2000 si assestava ad un tasso dell’1,3% annuo. Inoltre, continuiamo ad utilizzare in modo massiccio i combustibili fossili, che rappresentano il 78% delle emissioni totali. Fra i vari settori, quello forestale sembra essere l’unico in cui è cominciata una significativa riduzione delle emissioni, dovuta, soprattutto, alla diminuzione della deforestazione e al conseguente aumento della capacità, da parte delle foreste, di assorbire anidride carbonica. I dati dell’IPCC sono chiari, se vogliamo avvicinarci al cosiddetto «obiettivo dei due gradi» è necessario raggiungere, quanto prima, il picco di emissioni, per poi vederle gradualmente diminuire del 40-70% a metà di questo secolo, fino a raggiungere la quota zero nel 2100. Se non aumentiamo gli sforzi di mitigazione, avverte l’IPCC, giungeremo ad una crescita della temperatura media globale alla fine di questo secolo compresa tra i 3,7 e i 4,8 gradi centigradi rispetto ai livelli del periodo preindustriale. Cosa, questa, che ci allontanerebbe definitivamente dal «limite dei due gradi» formalizzato durante i negoziati della COP 16 ( Sedicesima Conferenza delle Parti) di Cancún del 2010. L’obiettivo dei due gradi rispetto ai livelli preindustriali è

riconosciuto a livello globale come la soglia che non si dovrebbe oltrepassare se si intende rispettare l’articolo 2 del UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change) secondo cui bisogna controllare le emissioni a livello mondiale per “prevenire una pericolosa interferenza antropogenica con il sistema climatico” (UNFCCC, 1992, art.2). Tuttavia, visti i livelli di concentrazione di gas serra già presenti in atmosfera e quelli attesi nell’immediato futuro, il Quinto Rapporto di Valutazione dell’IPCC sottolinea come questo ambizioso obiettivo sia diventato, oramai, difficile se non impossibile da raggiungere (Carraro, Mazzai, 2015, pp.43-46).

3 GLI IMPATTI DEL CAMBIO CLIMATICO

Usciti dal piccolo supermarket ci dirigemmo, con la spesa in mano, verso la nostra auto parcheggiata fra le bancarelle. Il cielo, in quel momento, era davvero cupo e qualche goccia di pioggia cominciava già a cadere giù, accompagnata da un leggero venticello umido. Però, nonostante il clima minaccioso, Elburgon era davvero una città carina, aveva un’aura vitale che mi faceva stare bene, ero carico e determinato ma, soprattutto, ero pronto per raggiungere Mariashoni. Sempre col mio fidato autista riprendemmo il viaggio, ormai mancava davvero poco alla meta finale. Improvvisa svolta a sinistra e, lasciata la via principale in asfalto, imboccammo una strada sterrata in salita che si faceva via via più sconnessa e fangosa: era la via che conduceva a Mariashoni. Dopo qualche curva, si potevano già ammirare le sue verdi colline, costellate da una vegetazione che, francamente, non mi sarei mai aspettato di incontrare. Infatti, c’erano qua e là boschi di pini e cipressi, ad un certo punto mi sembrava di stare, quasi, sulle nostre Alpi. Avevo davanti un paesaggio magnifico ma inaspettato, forse anche un po’ disorientante, diverso da come me lo immaginavo. Chiesi a Weclief qualcosa su quegli alberi e mi rispose che quelli non erano alberi indigeni ma che erano stati piantati, al posto degli autoctoni, solo per il business del legno. Non mi seppe dire molto di più, ma quella informazione era davvero importante per il mio lavoro, mi promisi di indagare il prima possibile sugli eventuali effetti che una copertura forestale completamente diversa

dall’originaria avrebbe potuto causare all’ecosistema e al clima locale. Ma guardando quelle persone a piedi ai bordi della strada che, per la pioggia sempre più insistente si riparavano sotto la vegetazione, riflettevo proprio sul clima e sul suo cambiamento, e di come possibili impatti potessero influenzare la quotidianità, la salute, la cultura e lo sviluppo delle comunità umane indigene, anche nel rapporto con il loro territorio ancestrale (fig.9).