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Gli impatti dei cambiamenti climatici sulle nostre vite toccano inevitabilmente anche l’alimentazione e il tema della nostra sicurezza alimentare. Come sostenuto dal Quinto Rapporto di Valutazione dell’IPCC il riscaldamento globale ha già cominciato a colpire duramente il settore agricolo e le proiezioni per il futuro mostrano che gli impatti sulla produzione agricola saranno sempre più negativi e importanti (Carraro, Mazzai, 2015, p.59). Nel prossimo futuro, l’ulteriore aumento della temperatura media globale contribuirà ad intensificare ancor di più questi impatti che, inevitabilmente, avranno effetti devastanti sulle colture agricole e ittiche, mettendo quindi a rischio la sicurezza alimentare di molte società umane nel mondo (Carraro, Mazzai, 2015, pp.59-60). Inoltre, il cambiamento climatico unito ai biocombustibili, alla speculazione e alla distruzione delle economie locali ha contribuito ad un elevato aumento dei prezzi dei generi alimentari che incide a sua volta sulla sicurezza alimentare globale (fig.13) (Shiva, 2009, p 153); ad esempio, nel biennio 2007-2008 il prezzo del grano a livello mondiale è aumentato del 130% (BBC, 14 aprile 2008) mentre, nel primo trimestre del 2008, il prezzo del riso è raddoppiato

(BBC, 17 aprile 2008). Comunque sia, coloro che dovranno fronteggiare le maggiori difficoltà saranno soprattutto i più poveri. E’ il caso dell’Africa Sub-Sahariana che, con un innalzamento delle temperature fra l’1,5 e i 2 gradi, vivrà entro il 2040 una perdita complessiva del 40-80% della terra coltivabile. Secondo le stime della Word Bank, se il riscaldamento globale dovesse raggiungere i 4 gradi, le precipitazioni annue diminuirebbero del 30% nel 2080 nell’Africa Meridionale, mentre aumenterebbero nell’Africa Orientale, provocando probabili processi migratori conflittuali (World Bank, 2014). Più in generale, per Anthony Giddens il cambiamento climatico interagirà con il sistema alimentare mondiale in due modi principali. Da un lato, la crescita sempre maggiore della popolazione e, quindi, di domanda di prodotti alimentari ha la necessità di essere soddisfatta in condizioni climatiche via via più estreme; dall’altro lato, la domanda di cibo per una popolazione in rapida crescita deve essere soddisfatta attraverso una simultanea consistente riduzione delle emissioni di gas serra. Salvo l’intervento di clamorosi avanzamenti tecnologici di qualche tipo, che permettano di sfruttare terre sterili e inospitali, le possibilità di mettere nuove terre a coltura, per far fronte all’elevata domanda alimentare, sono attualmente assai remote. Deforestare per creare nuove aree agricole sarebbe una follia in quanto, come abbiamo già visto, la deforestazione è una delle principali cause di emissioni di carbonio in atmosfera. Al contrario, nel contesto del cambiamento climatico, le politiche di riforestazione dovrebbero avere la precedenza sulla messa a coltura di nuove terre. Secondo Giddens, è impossibile aumentare la produzione agricola e contemporaneamente ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera senza

sostenere i progressi nelle biotecnologie e, quindi, degli organismi geneticamente modificati (OGM). Questo perché saranno necessarie nuove varietà di prodotti agricoli in grado di resistere alle inondazioni, alle siccità, all’aumento della salinità dell’acqua e alla possibile comparsa di nuovi parassiti e malattie delle piante. Per il sociologo politico britannico “ci sono meno rischi negli OGM che nel cercare di fare affidamento solo su processi agricoli preesistenti. Inoltre, tali rischi sono in larga misura controllabili mediante l’esame scientifico in condizioni controllate” (Giddens, 2015, p.78). Infatti, riguardo al riscaldamento globale, l’agricoltura e

l’allevamento moderni rilasciano in atmosfera un gas serra ancora più pericoloso dell’anidride carbonica. La produzione alimentare ha un grosso impatto sui cambiamenti climatici, basti pensare che oltre il 30% delle emissioni di gas serra dell’Unione Europea è generato direttamente dal settore agricolo. Nel contesto dell’agricoltura di tipo convenzionale, le emissioni possono essere in qualche misura ridotte senza un’importante perdita di produttività, ad esempio per mezzo di una maggiore efficienza nell’uso dell’acqua e dei fertilizzanti. Tuttavia, questo non basterà, si avrà bisogno di notevoli progressi nella tecnologia e nell’innovazione agricola per soddisfare la crescente domanda di beni alimentari e parallelamente diminuire le emissioni di gas serra (Giddens, 2015, pp.77-79). La fisica e ambientalista indiana Vandana Shiva propone, invece, un altro approccio. Partendo dal fatto che l’agricoltura industriale si basa sui combustibili fossili e che questa contribuisce, a livello globale, al 14% delle emissioni di gas serra in atmosfera, Vandana Shiva sostiene la necessità di passare a sistemi alimentari locali, biologici e biodiversi. Secondo l’autrice l’agricoltura ecologica localizzata può contribuire a ridurre in larga parte le emissioni di gas serra e contemporaneamente migliorare la qualità dei suoli, della terra, delle risorse idriche e più in generale dell’ambiente; può favorire una più efficiente ed efficace mitigazione ai cambiamenti climatici; può rafforzare l’economia naturale; può aumentare la sicurezza del sostentamento degli agricoltori; può migliorare le qualità e le caratteristiche nutrizionali dei cibi e accrescere la libertà e la democrazia (Shiva, 2009, pp.156-157). Questo approccio è in antitesi a quello tecnocratico teorizzato da Anthony Giddens, in cui servono maggiori investimenti nel campo scientifico e tecnologico per favorire la nascita di biotecnologie e di OGM. Invece, per Vandana Shiva, il modello da seguire è quello delle fattorie biodiverse, dei sistemi alimentari locali che offrono sicurezza in questo periodo di incertezza climatica, in quanto producono cibo in maggior quantità e in qualità migliore, e contribuiscono alla creazione di più occupazione (Shiva, 2009, p.176). Inoltre, bisogna proteggere e sostenere la biodiversità che favorisce la capacità di riprendersi dagli shock provocati dai disastri ambientali e, in questa fase di caos climatico, essa può essere il fulcro dell’adattamento ai cambiamenti climatici (Shiva, 2009, p.194).