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L'errato utilizzo del modello di calcolo del VaR

4. Le problematiche del VaR

4.3 L'errato utilizzo del modello di calcolo del VaR

Come chiarito inizialmente, al Value at Risk vengono attribuite molte limitazioni che però non possono essere considerate come tali, poiché esse non riguardano la misura del VaR, ma piuttosto, l'impiego e l'implementazione scorretta di tale misura61.

Una prima critica che viene erroneamente imputata al Value at Risk riguarda le ipotesi su cui si fondano i diversi approcci per il calcolo del VaR: si ritiene che esse non siano attinenti alla realtà e quindi, se tali ipotesi non vengono condivise

61 RESTI A., SIRONI A., Rischio e valore nelle banche. Misura, regolamentazione, gestione, Milano,

in modo universale, la computazione del rischio sarà invalidata dall'inaffidabilità della misura.

A questa critica si risponde semplicemente sottolineando che le ipotesi alla base del VaR, seppur alle volte ritenute discutibili, permettono al soggetto che utilizza tale tecnica di calcolo di operare secondo una linea ben precisa e non in maniera del tutto discrezionale ed oscura, come nel caso di chi non adopera alcun modello di riferimento.

È da evidenziare, inoltre, che una volta che si conoscono minuziosamente le ipotesi alla base delle metodologie del VaR ed esse sono esplicite e quindi condivisibili, è possibile apportare alcune modifiche che rendano queste metodologie più appropriate, in relazione agli andamenti del mercato o comunque, variazioni che riflettano in modo più adeguato e realistico alcune particolarità osservate dal management in funzione dei rischi da quantificare.

In sostanza, si ritiene preferibile essere a conoscenza dei limiti e delle particolarità attinenti ad un modello per poterlo così modificare in base alle necessità riscontrate, piuttosto che non essere consapevoli degli strumenti che si utilizzano e delle loro caratteristiche.

Una seconda critica promossa contro i diversi metodi di calcolo del Value at Risk, attiene al fatto che questi, rispetto ad uno stesso portafoglio oggetto di analisi, producano risultati divergenti.

A tale affermazione si obbietta rispondendo che risulta normale tale circostanza, poiché essendo state proposte differenti metodologie di calcolo del VaR, che sono basate su presupposti diversi, prendono in considerazione un intervallo di osservazioni differente come campione, un arco temporale differente, come anche il numero e la tipologia di fattori di rischio individuati e la modalità di mapping, oltre ad altri fattori o considerazioni diversi, risulta perciò intuibile che i risultati prodotti da queste siano divergenti tra loro. Ma ciò non implica l'inadeguatezza di una o più delle varianti sviluppate per il calcolo del VaR, perché ogni metodologia è preferibilmente applicabile in situazioni dove emergono determinate caratteristiche.

Non essendo tutti i portafogli uguali e neanche i contesti in cui si definiscono tali strumenti o in generale tali rischi, omogenei, risulta importante avere la possibilità

di scegliere l'approccio per il calcolo del Value at Risk più idoneo alle necessità che un ente ha, senza per questo incorrere nell'errore di pensare che gli altri approcci siano sbagliati perché producono risultati diversi. Tale difformità di risultato non deve essere presa in considerazione fine a sé stessa, ma portata ad un livello più ampio: se tra le diverse unità di business di una banca, l'approccio utilizzato per il calcolo del VaR è sempre lo stesso, allora, la coerenza nell'impiego dello strumento porterà a risultati appropriati, se invece, in ogni unità di business si utilizza un diverso approccio per la quantificazione del VaR, in questo caso, la coerenza dell'impiego dello strumento verrebbe meno, comportando valutazioni inidonee e scorrette.

In definitiva, ciò che assume rilievo in questo tema è il fatto che appare evidente come l'elemento essenziale riguardi l'impiego di criteri uniformi per la quantificazione del rischio in ogni singola unità della banca e non tanto i risultati differenti prodotti dai diversi approcci di misurazione.

Una terza critica concerne il fatto che tale misura manifesta gli eventuali shock di mercato in ritardo, comportando, di conseguenza, una certa inefficienza per ciò che riguarda l'azione di prevenzione delle perdite.

In primo luogo si deve sottolineare che il ritardo di cui si parla è una conseguenza naturale della quantificazione del Value at Risk, perché essa si basa essenzialmente sulla stima della volatilità storica, da cui poi si ricava la volatilità futura ipotetica. Si deve inoltre tener presente che se si implementassero le metodologie di misurazione del VaR mediante previsioni più raffinate, sarebbe possibile ottenere delle misure di rischio idonee a prevedere e anticipare eventuali crisi. A tal proposito, si deve ricordare che esistono dei metodi statistici di stima fondati su basi storiche che riescono a prevedere e anticipare in modo sufficientemente idoneo probabili fenomeni di crisi.

In secondo luogo, nonostante l'esistenza di tecniche che riescono a prevedere eventi di crisi in maniera abbastanza reattiva, è generalmente riconosciuta l'incapacità di qualsiasi tecnica previsionale di anticipare, o comunque prevedere, le variazioni dovute a fenomeni estremi di crisi dei mercati. Le variazioni rare ed estreme, infatti, sono impossibili da prevedere.

Infine, si deve sottolineare che lo scopo del VaR non è la previsione delle perdite che si possono manifestare in casi estremi, ma la misurazione delle perdite che possono presentarsi in condizioni normali di attività.

Una quarta critica, connessa alla precedente, riguarda l'impossibilità del Value at Risk di ricoprire tutti i possibili eventi di perdita, ricompresi quelli estremali. Com'è noto dalla definizione, il Value at Risk è riferito ad un prestabilito livello di confidenza (può essere il 95%, oppure il 99%, ecc.) ma non alla totalità dell'intervallo (non verrà mai calcolato un VaR con un livello del 100%), vi saranno sempre degli eventi di perdita che non verranno considerati all'interno del calcolo del VaR, eventi che corrisponderanno a quelli estremi e rari, ovvero gli eventi che giacciono sulle code della distribuzione di probabilità dell'attività o del portafoglio in esame.

Il VaR, infatti, è una misura potenziale, non assoluta, poiché, come visto nel primo capitolo, se si dovesse utilizzare una misura di rischio assoluta, nel caso si detenesse uno o più strumenti e si volesse quantificare la loro massima perdita assoluta, risulta evidente che questa coinciderebbe esattamente con l'esposizione complessiva, ovvero, l'ammontare di capitale impiegato in tali strumenti. Ovviamente, in questo modo, detenere 100 azioni o detenere 100 obbligazioni in portafoglio comporterebbe lo stesso livello di rischio, ovvero, una perdita massima assoluta di 1000€, ma è comunemente noto che il rischio associato alle azioni è più elevato di quello associato alle obbligazioni, perciò l'utilizzo di una tipologia di misurazione basata sulla perdita assoluta non sarebbe idonea, proprio perché si incorrerebbe in un'evidente contraddizione.

Date le circostanze, è preferibile adottare una misura di rischio basata sulla massima perdita potenziale, la quale avrà luogo, perciò, solo in un determinato set di casistiche possibili: si dovrà, di conseguenza, delineare un insieme ampio di situazioni sfavorevoli che, però, non vada mai a coincidere con la totalità delle situazioni possibili (sennò si determinerebbe la perdita assoluta e non quella potenziale).

La percentuale delle situazioni sfavorevoli prese in considerazione potrebbe essere pari, ad esempio, al 99% di tutti gli scenari possibili, così da non coincidere con la totalità delle situazioni avverse, ma, allo stesso tempo, comprenderne un numero

sufficientemente elevato: solo nel remoto caso in cui si verificasse il rimanente 1% di scenari sfavorevoli la perdita che si registrerebbe sarebbe superiore a quella stimata dalla misura di rischio.

Risulta evidente a questo punto che tale criticità obiettata è legata alla mancata conoscenza delle finalità e delle caratteristiche del Value at Risk, il quale non ha come obiettivo quello di rendere inattaccabile e quindi, comportare l'impossibilità del fallimento per una banca, ma di determinare un ammontare di capitale che sia sufficiente per limitare e coprire le perdite che potrebbe subire in un determinato arco temporale futuro e quindi, diminuire il più possibile la possibilità che essa fallisca, ma di certo non renderla completamente immune da rischi e dalle perdite connesse ad essi.

Un’ultima critica che possiamo fare è che amplificano l'instabilità dei mercati. Se tutte le banche si dotano di un modello VaR, è chiaro che, in caso di eventuali cadute dei mercati, i loro trader riceveranno probabilmente lo stesso segnale operativo. In realtà, questa critica soffre di due limiti principali.

Anzitutto, i modelli VaR adottati dalle istituzioni finanziarie non sono tutti uguali (diversa identificazione dei fattori di mercato, diversi livelli di confidenza, diversi criteri di stima di volatilità) e quindi producono misure di rischio diverse. Inoltre, nel caso in cui si dovesse verificare una crisi di mercato, gli operatori delle diverse istituzioni finanziarie tendono ad adottare comportamenti uniformi, ma ciò è dovuto alla natura umana e alle modalità di funzionamento dei mercati finanziari.

CAPITOLO III

EVOLUZIONE DELLE DISPOSIZIONI