Sezione II: Il controllo del giudice.
3. L'impostazione della Corte Costituzionale
Il ruolo dei giudici costituzionali sul tema della natura da attribuire alla sentenza patteggiata e sul problema del riconoscimento o meno dell'accertamento di responsabilità non è stato risolutivo. Anzi, spesso la posizione della Corte è stata oscillante, evitando in questo modo di prendere una posizione sulla questione.
Con la storica pronuncia n°313 del 1990, la Corte si è posta in contrastro con quanto espresso nella Relazione del progetto preliminare del codice(178), volta ad accentuare il carattere transattivo (176) L. CREMONESI, Oblazione e patteggiamento: quali differenze? in Cass.pen,
1993, pag 2164.
(177) L. CREMONESI, Il patteggiamento nel processo penale, CEDAM-Padova, 2005, pag 263.
(178) Nella Relazione al progetto preliminare del c.p.p, in G.U, suppl.ord.n.2, 24 Ottobre 1998, n°250, 107-108, si sottolineava che "al giudice non viene
del rito.
La sentenza del 1990 oltre ad arginare i dubbi circa la tenuta costituzionale del rito propone soluzioni interpretative volte a sostenere la necessità di un accertamento positivo della fondatezza dell'accusa, affermando che il controllo del giudice non si arresta "alla cornice di legittimità". L'organo giurisdizionale, una volta valutata la correttezza dell'accordo e delle circostanze, procede a controllare se la pena risulta congrua cioè se è rispettosa del principio rieducativo della pena.
Dunque il controllo sulla congruità attribuisce al giudice un ruolo di garanzia e controllo sull'esito del procedimento.(179)
Nel corso del tempo però si sono susseguiti contrasti interpretativi che hanno indotto la Corte costituzionale, in base all'esigenza di non disconoscere la rilevanza della volontà delle parti e di recuperare la valenza negoziale del patto, a rivedere la propria posizione.
Così avveniva nella pronuncia n°251 del 1991(180) dove la Corte sembra
attenuare la posizione espressa precedentemente e porre le premesse per un evoluzione in senso contrario: ossia prendere le distanze dalla riconducibilità della sentenza "patteggiata" alla sentenza di condanna. In questa sentenza la Corte era impegnata a giustificare la deroga al principio di pubblicità e al fine di rafforzare le argomentazioni a sostegno della legittimità della scelta operata dal legislatore afferma che "la giurisprudenza costituzionale [...] non ha inteso riferire alla
riconosciuto alcun sindacato sulla congruità della pena richiesta, trattandosi di materia riservata alla determinazione esclusiva delle parti e che il compito del giudice è di accertare, sulla base degli atti, se esistono le condizioni per il proscioglimento e, in caso negativo, se è esatto il quadro nel cui ambito le parti hanno determinato la pena, mentre non occorre un positivo accertamento della resaponsabilità penale."
(179) D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, Giuffrè editore, 2000, pag 313.
sentenza adottata a seguito del patteggiamento la natura propria della sentenza di condanna disposta sulla base di un accertamento pieno della fondatezza dell'accusa e delle responsabilità dell'imputato." Diversamente, si è sottolineato come il procedimento speciale in esame, piuttosto che comportare un accertamento pieno di responsabilità, fondato sul contraddittorio tra le parti, trovi la sua essenza "nell'accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell'imputazione" (sent n°66 del 1990(181)), dal momento che chi chiede
la pena pattuita "rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa" (sent n°313 del 1990).
Secondo la Corte sono i profili di negozialità e il rilievo della volontà delle parti a determinare l'attenuazione delle garanzie riconosciute all'imputato e a giustificare "l'indagine su profili determinati, senza investire quell'accertamento pieno e incondizionato sui fatti e sulle prove che rappresenta, nel rito ordinario, la premessa necessaria per l'applicazione della sanzione penale".
Dunque, in forza del tipo di accertamento, si deduce la difficoltà di attribuire alla sentenza "patteggiata" la natura di vera e propria sentenza di condanna.(182)
A testimonianza dell'approccio oscillante della Corte costituzionale volto a privilegiare, a seconda delle questioni e delle esigenze sottese, il ruolo del giudice o i poteri delle parti, appaiono altre due sentenze in tema di incompatibilità del giudice penale dove la verifica dei caratteri e dell'incidenza dell'attività decisoria risultava pregiudiziale al fine della risoluzione del dubbio di incostituzionalità relativo all'art 34 c.p.p.
(181) Corte Costituzionale, 8 Febbrario 1990, n°66, in Giur.cost, 1990, pag 274. (182) D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, Giuffrè editore,
La prima è la sentenza n°124/1992(183) in cui la Corte, dopo aver
richiamato la sentenza n°313/1990, si limita ad affermare, a proposito della richiesta di applicazione della pena, che il giudice opera "una valutazione non formale, ma di contenuto circa l'idoneità delle risultanze a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato" tale da escludere un cumulo di funzioni in capo allo stesso.
Nella seconda sentenza (n°155 del 1996(184)) la Corte tenta di unificare
i criteri interpretativi emergenti dai precedenti giurisprudenziali, collegando i principi espressi dalla sentenza n°313 all'attività di controllo giurisdizionale e recuperando l'impostazione accolta dalla sentenza n°251 in relazione alla natura della "sentenza patteggiata."(185)
Nello specifico, la Corte delinea le caratteristiche della decisione del giudice e afferma che egli non è limitato "alla mera ricezione e certificazione della volontà ritualmente espressa dalle parti" ma che è tenuto "a svolgere valutazioni, fondate direttamente sulle risultanze in atti, aventi natura di giudizio non di mera legittimità ma anche di merito, concernenti tanto la prospettazione del caso, contenuta nella richiesta di parte, quanto la responsabilità dell'imputato, quanto infine la pena."
Riguardo alla "responsabilità" si osserva che la sentenza applicativa della pena su richiesta delle parti presuppone "un accertamento negativo" circa l'insussistenza dei casi di proscioglimento di cui all'art 129 c.p.p, accertamento che "non equivale di per sè a una pronuncia positiva di responsabilità". Tuttavia la sentenza con cui si accoglie la richiesta delle parti di definizione del processo mediante un accordo sulla pena in un certo senso "presuppone pur sempre la responsabilità"
(183) Corte Costituzionale, 25 Marzo 1992, n°124, in Foro.it, 1992, pag 2318. (184) Corte Costituzionale, 20 Maggio 1996, n°155, in Cass.pen, 1996, pag 2858ss. (185) D. VIGONI, La natura della sentenza ex art 444 c.p.p, in Riv.dir.proc, 1999,
che è alla base della espressa equiparazione fissata dall'art 445 comma 1 c.p.p.
In sostanza, anche se con riguardo all'accertamento la sentenza patteggiata richiede un quid minoris rispetto alla sentenza di condanna, è comunque sufficiente a prospettare un caso di incompatibilità da aggiungersi all'art 34 c.p.p.
Dunque nella giurisprudenza costituzionale emerge l'impossibilità di riconoscere nella sentenza di patteggiamento la "natura di vera e propria sentenza di condanna", alla luce di un accertamento incompleto e dei profili negoziali che caratterizzano il rito.
Nonostante l'affermazione di una non identità, non emerge però (fino all'ordinanza n°399 del 1997) una decisa posizione nel senso di affrancare l'applicazione della pena dall'accertamento della responsabilità.(186)
Lo sviluppo dell'orientamento anti-cognitivo della giurisprudenza di legittimità ha provocato una stasi nella giurisprudenza costituzionale, che risponde alle varie questioni di incostituzionalità celandosi dietro a un non liquet.
Si individuano, infatti, i primi segni di cedimento nell'orientamento della Corte Costituzionale, che si distacca dai criteri di fondo della sentenza n°313 del 1990, dove si affermava che "la decisione di cui all'art 444 c.p.p quando non è decisione di proscioglimento, non può prescindere dalle prove di responsabilità."
A testimonianza di ciò si fa riferimento all'ordinanza n°399/1997.(187)
La Corte, con tale ordinanza di manifesta inamissibilità, risponde alle censure fondate sull'art 27 Cost, che esprime il principio della
(186) D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, Giuffrè editore, 2000, pag 315.
(187) Corte Costituzionale, ord 11 dicembre 1997, n°399, in Cass.pen, 1998, pag 1061ss.
presunzione di non colpevolezza, da cui si deduce l'essenziale collegamento tra pena e responsabilità, e sull'art 3 Cost con riferimento ad un ingiustificata disparità di trattamento tra imputati, determinata dal diversità del rito prescelto.
Nell'ordinanza, dopo aver rilevato che la questione non riguarda solo il tema della natura della sentenza "patteggiata" ma investe anche la fisionomia del rito, i giudici costituzionali osservano che un intervento additivo volto a riconoscere nella sentenza patteggiata l'accertamento della responsabilità o una pronuncia di condanna, sarebbe escluso perchè "comporterebbe una completa revisione dell'istituto in esame". La "diversa natura" attribuita alla sentenza ex art 444 e la specifica "qualificazione" proposta comporterebbe una "riscrittura ex novo" della normativa che per quanto riguarda gli esiti vede l'alternativa tra applicazione delle pena e proscioglimento in base all'art 129 c.p.p e per quanto riguarda i poteri del giudice vede una limitazione alla verifica della correttezza della qualificazione giuridica del fatto, dell'applicazione/comparazione delle circostanze e della congruità della pena concordata fra le parti.
Infine, dato che l'ordinanza incide "sui meccanismi predisposti dal codice di rito per creare un opportuno equilibrio tra la struttura negoziale e gli irrinunciabili accertamenti e controlli giurisdizionali" è attribuita alla discrezionalità del legislatore provvedere in merito.(188)
La soluzione contenuta nell'ordinanza di manifesta inamissibilità si fonda su ragioni di opportunità che, da un lato a non smentiscono l'indirizzo accolto dalla giurisprudenza di legittimità, e dall'altro non entrano nel merito della questione.
La Corte, dunque, si rifugia nell'ordinanza di inamissibilità ed evita di
(188) D. VIGONI, L'applicazione della pena su richiesta delle parti, Giuffrè editore, 2000, pag 330.
affrontare la questione arrendendosi così all'orientamento espresso dalle Sezioni Unite.
Peraltro non è la prima volta che la Corte si "nasconde" dietro ad un ordinanza di inamissibilità; era già successo con l'ordinanza n°297/1997. In questa occasione, sempre in riferimento alla revoca di diritto della sospensione condizionale e alla mancata equiparazione della sentenza patteggiata a quella di condanna, la Corte, oltre ad escludere ogni intervento additivo che si risolveva in un trattamento sfavorevole per l'imputato, sottolineava che "la scelta discrezionale operata dal legislatore non può ritenersi espressione di mero arbitrio, poichè la disposizione censurata è coerente con il carattere premiale del patteggiamento ed è suscettibile di controllo giurisdizionale nel momento in cui il giudice è chiamato a pronunciare sentenza ex art 444 c.p.p è imposta la valutazione della congruità del trattamento sanzionatorio negoziato dalle parti."
Anche in questo caso è chiara la volontà di non mettere in dubbio la ricostruzione offerta dalle Sezioni Unite circa la sentenza "patteggiata" che nega in relazione ad essa l'accertamento della colpevolezza.(189)