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L’orientamento della giurisprudenza amministrativa italiana

3. Il regime di invalidità dell’atto amministrativo «anticomunitario»

3.1. La teoria della disapplicazione in ogni tempo

3.1.2. L’orientamento della giurisprudenza amministrativa italiana

L’attuale sistemazione della materia, che ha trovato conferma nella giurisprudenza amministrativa51, considera inammissibile la disapplicazione dell’atto amministrativo anticomunitario e ciò nella chiara consapevolezza che il regime di tutela accordata dall’ordinamento giuridico italiano risponde ai principi di equivalenza, effettività e certezza del diritto, così come elaborati dalla Corte di giustizia. Inoltre, la disapplicazione di provvedimenti amministrativi non ritualmente impugnati, privi di natura normativa, finirebbe per sovvertire le regole del giudizio impugnatorio e per snaturarne i caratteri essenziali e, in definitiva, per consentire l’elusione del termine di decadenza stabilito al fine di ottenere dal giudice amministrativo l’eliminazione degli atti lesivi di interessi legittimi52.

Attualmente, la giurisprudenza riconduce l’invalidità comunitaria dell’atto amministrativo nell’ambito della categoria dell’annullabilità; ciò implica la definitiva affermazione dell’inderogabilità del termine decadenziale anche nei casi di violazione del diritto dell’Unione europea53.

In tale ambito, occorre segnalare una pronuncia del giudice amministrativo nazionale che, in una specifica ipotesi, ha proceduto alla disapplicazione di un atto amministrativo,

della c.d. pregiudizialità amministrativa), in Riv. it. dir. pub. com. – 2006, pp.518-520, in particolare, l’autore

evidenzia che «la disapplicazione dell’atto amministrativo non risulta imposta da “necessità comunitarie”, così come codificate dalla giurisprudenza della medesima Corte di giustizia, e risulta anzi contraddetta da espressa disciplina imposta dalle stesse fonti comunitarie». Al riguardo, «basta considerare il regime dell’atto amministrativo comunitario (e, cioè , la decisione), la cui impugnazione è sottoposta a precisi termini di decadenza, analoghi ai nostri. Ebbene, la Corte di giustizia è ferma nel giudicare che la definitività dell’atto (diremmo noi, la inoppugnabilità) preclude in radice che possa essere rimessa in discussione la relativa validità, da parte di chi (lo Stato membro, in caso di ricorso per constatazione di inadempimento, il singolo cittadino attraverso l’eccezione di illegittimità) fosse legittimato alla impugnazione diretta dell’atto medesimo: l’esigenza che la normativa comunitaria sia applicata immediatamente e direttamente è, dunque, soddisfatta esclusivamente dalla possibilità di impugnazione diretta della decisione, che non può essere posta altrimenti in discussione, per ovvie necessità di certezza del diritto».

51 La giurisprudenza amministrativa esclude la possibilità di ricorrere all’istituto della disapplicazione degli atti invalidi nel processo amministrativo, a meno che non si tratti di controversie rientranti nella giurisdizione esclusiva, ovvero a fronte di atti regolamentari.

52 Cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 10 gennaio 2003, n. 35, in www.giustizia-amministrativa.it.

53 Cfr. S. STICCHI DAMIANI, Violazioni del diritto comunitario e processo amministrativo, op. cit., p. 74, al riguardo l’autore evidenzia che la scelta di ricondurre l’invalidità comunitaria dell’atto amministrativo nell’ambito dell’annullabilità segna sicuramente «una rivitalizzazione del principio di autonomia procedurale degli Stati e dunque di certezza del diritto, ma al contempo determina la definitiva compromissione del canone dell’effetto utile inteso come corollario del principio d supremazia, conseguenza questa che appare inconciliabile con la scelta compiuta dal nostro ordinamento di partecipare all’Unione europea in una logica di leale collaborazione. Tale impasse ha condotto ad una rideterminazione del concetto di effetto utile che, oltre ad essere svincolata da una rigida affermazione del principio di supremazia, presuppone la compatibilità del diritto processuale interno ai canoni, in verità troppo generici, della ragionevolezza e della certezza del diritto, per come concepiti dal diritto comunitario».

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distinguendosi per una innovativa soluzione volta a risolvere il contrasto tra il principio di legalità dell’azione amministrativa sotto il profilo europeo e la certezza del diritto.

Il TAR Sardegna, Sez. I, Sentenza 17 marzo 2007, n .549, pur aderendo all’orientamento rivolto ad escludere il potere del giudice di disapplicare provvedimenti individuali e concreti anticomunitari, distingue da questo l’ipotesi in cui il privato domandi in giudizio l’applicazione dell’atto contrastante con diritto europeo. In tale eventualità, a parere del collegio, la disapplicazione diviene un atto doveroso.

In particolare, il giudice amministrativo, evidenzia che il vizio generato dall’inosservanza delle norme del diritto dell’Unione europea va ricondotto alla categoria dell’illegittimità per violazione di legge con conseguente annullabilità del provvedimento. Pertanto, l’atto ancorché viziato da «anticomunitarietà», è idoneo, secondo principi noti, a produrre tutti i suoi effetti, con conseguente onere per l’interessato di proporre avverso il medesimo tempestiva impugnazione ed impossibilità per il giudice amministrativo di disapplicare l’atto anticomunitario. Purtuttavia, rileva che, laddove il ricorrente non contesti l’atto emanato in violazione del diritto europeo, ma, al contrario, fondi su di esso le propri ragioni, affermando che il provvedimento impugnato è illegittimo perché contrastante con l’atto «anticomunitario», la regola sull’onere di impugnazione, con tutti i suoi portati, ivi compresa la necessità di proporre tempestiva impugnazione e l’impossibilità per il giudice amministrativo di disapplicare l’atto anticomunitario, non viene in rilievo, poiché anzi il privato chiede l’applicazione dell’atto viziato sotto il profilo comunitario. Cosicché non possono frapporsi ostacoli a che il giudice giudichi la controversia alla luce degli effettivi parametri di legalità sostanziale, nel pieno rispetto del principio di preminenza del diritto comunitario, senza tener conto dell’atto anticomunitario54.

In sintesi il collegio, pur condividendo le acquisizioni giurisprudenziali in ordine alla problematica della disapplicazione, quando essa riguardi il provvedimento oggetto di gravame55, «ritiene che la questione debba porsi in termini differenti nel caso in cui il

54 Cfr. M. MACCHIA, La violazione del diritto comunitario e l’«eccezione disapplicatoria», in Gior. dir.

amm., n. 8/2007, pp. 859-867, in cui l’autore rileva che utilizzando l’iter argomentativo del tribunale

amministrativo «l’efficacia del provvedimento illegittimo divenuto definitivo sembra valere per i privati e per l’amministrazione, ma non per il giudice amministrativo». In senso critico, viene inoltre evidenziato che «il giudice avrebbe anche potuto

55 Giova riportare quanto espresso, con estrema chiarezza, dal giudice amministrativo circa tale aspetto: «la prevalente giurisprudenza nazionale, prendendo le mosse dalla tesi che definisce i rapporti tra diritto interno e diritto comunitario in termini di integrazione fra i due ordinamenti, ha ricondotto il vizio generato dall’inosservanza delle norme comunitarie alla categoria dell’illegittimità per violazione di legge con

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ricorrente non contesti l’atto emanato in violazione del diritto comunitario, ma, al contrario, fondi su di esso le propri ragioni, affermando che il provvedimento impugnato è illegittimo perché contrastante con l’atto anticomunitario». In sintesi, la problematica dei riflessi sul processo del vizio derivante da violazione della normativa europea è stata sempre affrontata nell’ottica del soggetto leso dall’atto, concentrandosi la discussione sulla necessità o meno di proporre tempestiva impugnazione.

«Nella descritta ipotesi, la regola sull’onere di impugnazione, con tutti i suoi portati, non viene in rilievo, poiché anzi il privato chiede l’applicazione dell’atto viziato sotto il profilo comunitario, cosicché non possono frapporsi ostacoli a che il giudice giudichi la controversia alla luce degli effettivi parametri di legalità sostanziale, nel pieno rispetto del principio di preminenza del diritto comunitario». «Del resto, in termini più generali, l’esigenza che la valutazione dell’azione amministrativa sia condotta sulla base di canoni di legittimità sostanziale e non meramente formale, deve ritenersi immanente nell’ordinamento e trova, ormai, sicuri riscontri normativi nella nuova disciplina del procedimento amministrativo introdotta con la L. 7/8/1990 n°241». «Deve, pertanto, ritenersi che nell’ipotesi descritta, l’atto (anche negoziale) su cui il ricorrente fonda le proprie pretese, possa esplicare i propri effetti solo laddove sia conforme al diritto comunitario, non potendo, in caso contrario, costituire fonte di legittime aspettative del privato. In quest’ultima ipotesi, sarà doveroso per il giudice disapplicarlo o comunque giudicare la controversia senza tenerne conto. Alle considerazioni svolte occorre aggiungere che la tesi prospettata dalla ricorrente condurrebbe all’assurda conseguenza di

conseguente annullabilità del provvedimento, (cfr., da ultimo, Cons. Stato, V Sez., 10/1/2003 n°35). […] Sul piano processuale, i riflessi della riferita impostazione sostanziale hanno portato la giurisprudenza nazionale ad escludere che il giudice possa disapplicare (salva l’ipotesi degli atti di normazione secondaria) l’atto contrario al diritto comunitario, e a ritenere che tale conclusione non risulti incompatibile con il principio della “primautè” del diritto comunitario e con il suo carattere vincolante, oltre che per i giudici, per il legislatore e le amministrazioni. Il provvedimento, ancorché viziato perché emanato in violazione del diritto comunitario, è idoneo, secondo principi noti, a produrre tutti i suoi effetti, con conseguente onere per l’interessato di proporre avverso il medesimo tempestiva impugnazione, (cfr., fra le tante, Cons. Stato IV Sez., 21/2/2005 n°579, nonché citata sent. n°35/2003). La possibilità di disapplicare minerebbe le esigenze di certezza dei rapporti giuridici pubblicistici, nonché i principi di stabilità, affidamento, continuità dell’azione amministrativa, presunzione di legittimità che pure hanno una loro funzione nell’attività amministrativa. Giova segnalare, peraltro, che la Corte di Giustizia, nel confermare che non contrasta con la normativa europea la legislazione nazionale che assoggetti a termini decadenziali il ricorso avverso provvedimenti illegittimi per violazione delle norme comunitarie, ove questa non restringa ingiustificatamente la tutela delle situazioni giuridiche garantite dalle dette norme, ha ammesso la possibilità di disapplicazione laddove la tempestiva impugnazione sia stata ostacolata da fatti imputabili alla pubblica amministrazione (cfr., da ultimo, Corte Giust. C.E. 27/2/2003 in causa C-327/00, idem 18/6/2002 in causa C- 92/00 e 29/4/1999 in causa C-224/97). La giurisprudenza nazionale, confortata almeno in linea di principio da quella comunitaria, risulta, dunque, orientata ad escludere tassativamente la disapplicazione dei provvedimenti individuali e concreti», T.A.R. Sardegna, Sez. I, Sentenza 27 marzo 2007, n. 549, in www.giustizia-amministrativa.it.

110 annullare un atto conforme al diritto comunitario».

Il Consiglio di Stato non ha ritenuto condivisibili le linee argomentative e le conclusioni alle quali è pervenuto il Tribunale Amministrativo Regionale. Il Collegio, ha infatti ritenuto che «un provvedimento amministrativo […] il cui contenuto sia in contrasto con norme o principi comunitari, non possa essere disapplicato dall’amministrazione, sic et simpliciter, ma debba essere rimosso con il ricorso ai poteri di autotutela di cui la stessa amministrazione dispone. L’esercizio di tali poteri, peraltro, deve ritenersi soggetto, anche in questi casi, ai principi che sono a fondamento della legittimità dei relativi provvedimenti, rappresentati dalla contemporanea presenza di preminenti ragioni di interesse pubblico alla rimozione dell’atto, se si tratta di situazioni consolidate o di atti che abbiano determinato un legittimo affidamento in coloro che ne sono interessati, e dalla osservanza delle garanzie che l’ordinamento appresta per i soggetti incisi dall’atto di autotutela, prima fra tutte quella di consentire ai soggetti interessati di partecipare al relativo procedimento»56.

Pertanto, mentre costituisce principio pacifico quello secondo cui una norma interna contrastante con il diritto dell’Unione europea deve essere disapplicata da parte del giudice interno, la prevalente giurisprudenza amministrativa è e rimane contraria ad ammettere la disapplicazione, da parte del giudice o della Pubblica Amministrazione di atti amministrativi.

Secondo questa impostazione, «la verifica d’ufficio della compatibilità del diritto interno applicabile con il diritto comunitario […] non comporta la conseguente possibilità di scrutinare di ufficio la validità di atti comunitari che siano il presupposto di validità di atti amministrativi di diritto interno impugnati innanzi al giudice nazionale. I dubbi di legittimità sugli atti comunitari presupposti di atti amministrativi interni devono essere proposti, dai privati, nei termini di legge previsti dall’ordinamento processuale interno, con il ricorso introduttivo del giudizio»57.

Concludendo, la giurisprudenza amministrativa ha smentito quell’orientamento, in effetti minoritario, di dottrina e giurisprudenza che, in specifiche condizioni, aveva sostenuto la disapplicazione dell’atto amministrativo contrastante con il diritto europeo, sulla falsariga di quanto previsto, sul piano normativo, per le leggi nazionali a questo non

56 Così Consiglio di Stato, Sez. V, 9 settembre 2008, n. 4263, in www.giustizia-amministrativa.it.

57 Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16 febbraio 2005, n. 516, in www.giustizia-amministrativa.it; Sul punto cfr. Consiglio di Stato, V Sezione, 8 settembre 2008, n.4263, Nota in tema di autotutela, in Giur. it., 2008, n.2.

111 conformi.

Lo strumento della disapplicazione, a ben vedere, nasce, in ambito amministrativo, per consentire al giudice amministrativo di non dare attuazione agli atti regolamentari in caso di conflitto con norme di livello superiore, nei casi in cui tale contrasto non sia stato oggetto di impugnativa di parte; ciò in ragione dell’esigenza, fatta propria dal nostro sistema di giustizia amministrativa, della necessaria previa diretta impugnazione dei provvedimenti attuativi ritenuti lesivi sulla base di specifici motivi di impugnazione.

In definitiva, l’istituto della disapplicazione è ritenuto strumento non idoneo a risolvere il problema del contrasto con la normativa Ue, in quanto «la disapplicazione in ogni tempo minerebbe le esigenze di certezza dei rapporti giuridici, nonché i principi di stabilità, affidamento, continuità dell’azione amministrativa, presunzione di legittimità, che pure hanno una loro funzione nella attività amministrativa, e che, per questo, sono tutelati e riconosciuti anche nell’ambito dell’ordinamento comunitario, inteso quale apparato amministrativo»58. Inoltre, la tesi della disapplicazione in ogni tempo sarebbe in contrasto con il principio dispositivo (impulso delle parti), che ad oggi regge lo svolgimento del processo amministrativo, riducendo al minimo il potere officioso del giudice. Nei confronti dell’atto amministrativo «anticomunitario», la disapplicazione «rischia dunque di rilevarsi un rimedio abnorme, che, nell’affermare a tutti i costi l’effetto utile, finisce per scardinare altri pilastri dell’ordinamento integrato, minacciando di far crollare un edificio costruito su

58 Così Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 21 febbraio 2005, n. 579, in www.giustizia-

amministrativa.it. «Non può sostenersi che, se oggetto di disapplicazione può essere l’atto normativo, a

fortiori, se anticomunitario, deve essere sottoposto al medesimo regime l’atto di natura amministrativa, sotto pena di inversione del valore giuridico degli atti nazionali. É vero, al contrario, che, una volta che la norma comunitaria sia entrata a fare parte integrante dell’ordinamento interno, essa gode del medesimo regime di illegittimità-legittimità degli atti o conformi alle altre disposizioni dell’ordinamento nazionale. Se si consentisse al giudice adito (o all’amministrazione) la disapplicazione delle norme nazionali processuali che impongono la impugnazione a pena di decadenza, si creerebbe una discriminazione alla rovescia a danno delle norme nazionali, invece sottoposte a quel regime. […] La tesi della disapplicazione in ogni tempo sarebbe in contrasto anche con le previsioni del Trattato, che per gli atti delle istituzioni comunitarie prevedono esplicitamente, a tutela dei suddetti principi, termini di decadenza. Il principio della non elusività dei termini di decadenza e della necessità della impugnazione è stato ritenuto, nell’ambito del ricorso avverso atti comunitari, anche dalla Corte di Giustizia […]. La medesima giurisprudenza della Corte di Giustizia, in applicazione del principio di autonomia degli Stati membri, nel fissare le modalità procedurali che governano la tutela giurisdizionale dei diritti di derivazione comunitaria, ritiene che la fissazione di termini decadenziali, e regimi di preclusioni che ne derivano, siano legittimi, salvo che non rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti (Sentenza Peterbroek 14 dicembre 1995, causa C-312/1993, in ordine ad un termine di decadenza proprio di sessanta giorni). Pertanto, la previsione di un termine di decadenza non è incompatibile, ma al contrario, in armonia con la normativa comunitaria, salva la verifica in concreto della circostanza, non riscontrata nel caso dell’ordinamento processuale italiano, e in verità non dedotta come tale nell’atto di appello, che detto termine non mini principi di effettività ed equivalenza di tutela».

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più livelli»59. In definitiva, la teoria che ravvisa nell’istituto della disapplicazione uno strumento per consentire il controllo diffuso di «comunitarietà» nei confronti degli atti amministrativi nazionali definitivi, contrasta sia con i principi del processo amministrativo, quali il principio di inoppugnabilità ed il principio dispositivo, ponendosi in antitetica contrapposizione con l’omologa disciplina processuale prevista dalle fonti europee. Infatti, ragioni di certezza del diritto, codificate dall’art. 263 TFUE, precludono ogni possibilità di rimettere in discussione la validità di atti europei produttivi di effetti giuridici non impugnati o non impugnati per tempo60.