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La patologia dell’atto amministrativo per violazione del diritto europeo

europea direttamente applicabile. – 3. Il regime di invalidità dell’atto amministrativo «anticomunitario». – 3.1. La teoria della disapplicazione in ogni tempo. – 3.1.1. La giurisprudenza della Corte di giustizia. – 3.1.2. L’orientamento della giurisprudenza amministrativa italiana. – 3.2. La teoria della nullità. – 3.3. L’annullabilità dell’atto amministrativo «anticomunitario». – 3.4. La tesi intermedia tra l’annullabilità e la nullità. – 4. Invalidità dell’atto amministrativo per violazione del diritto UE e autotutela amministrativa. – 4.1. L’autotutela amministrativa-brevi cenni. – 4.2. Atto amministrativo «anticomunitario» e autotutela amministrativa. – 4.2.1. La posizione del giudice interno. – 4.2.2. La posizione della Corte di giustizia. – 4.3. Considerazioni di sintesi.

1. PREMESSA

Secondo le nozioni di teoria generale del diritto, un atto amministrativo è affetto da una qualche forma di patologia qualora presenti dei «tratti difformi dallo schema (o fattispecie) normativo astratto»1.

L’espressione «patologia», richiamando metaforicamente concetti della scienza medica, designa per l’appunto un atto affetto da una alterazione. Tale concetto non può però essere sovrapposto a quello di invalidità, atteso che nel diritto amministrativo si assiste alla formazione di stati patologici gradati che, «lungi dall’essere relegati negli angusti limiti delle note categorie civilistiche della nullità e dell’annullabilità, meritano una collocazione autonoma e differenziata»2.

Più in particolare, è il diritto positivo a stabilire quando, in relazione agli effetti che la difformità produce, la patologia assume una rilevanza tale da essere presa in considerazione al fine di riconoscerle una capacità invalidante.

1 Così M. S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Vol. II, Milano, 1993, p. 299, in particolare, l’autore rileva che «così come per ogni atto giuridico, anche per il provvedimento amministrativo possono presentarsi fattispecie anormali, cioè aventi, secondo il rigoroso significato giuridico dell’anormalità dei tratti difformi dallo schema (o fattispecie) normativo astratto».

2Così F. CARINGELLA, M. PASTORE, Manuale di diritto amministrativo, Vol. V, L’invalidità del

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Nel diritto amministrativo vanno prese in considerazione quali forme unanimemente riconosciute di patologia le categorie della:

i) invalidità, nelle due forme dell’annullabilità e della nullità; ii) irregolarità;

iii) inopportunità.

L’invalidità ritenuta «categoria estrema»3 della patologia sussiste nel caso in cui la difformità dell’atto rispetto al paradigma legale riguardi punti fondamentali, cui corrisponde la lesione dell’interesse concreto che la norma violata intende tutelare. La nozione di invalidità comprende due stati patologici: la nullità e l’annullabilità.

La nullità dell’atto amministrativo costituisce una «forma speciale di invalidità, che si ha nei soli casi, oggi meglio definiti dal legislatore, in cui sia specificamente sancita dalla legge, mentre l’annullabilità del provvedimento costituisce la regola generale di invalidità del provvedimento, a differenza di quanto avviene nel diritto civile dove la regola generale in caso di violazione di norme imperative è quella della nullità»4 . In particolare, l’atto emanato nel rispetto delle norme di relazione, attributive del potere, ma in difformità di quelle di azione è in linea di principio affetto da illegittimità (nelle forme dell’incompetenza, della violazione di legge e dell’eccesso di potere) e, pertanto, sottoposto al regime dell’annullabilità.

Al riguardo, è stato sottolineato come la ragione di fondo di tale divergenza di disciplina tra vizi dell’atto amministrativo e vizi del negozio sia chiara: «nel diritto amministrativo l’esigenza prioritaria è quella di assicurare la stabilità del provvedimento

3 Così M. S. GIANNINI, op. ult. cit., p. 299. Al riguardo, l’autore evidenzia che «la fattispecie invalida non è la fattispecie carente di validità, ossia non è che l’invalidità sia la negazione logica della validità: è una fattispecie sostanzialmente diversa da quella valida, il cui avveramento produce effetti giuridici in tutto o in parte diversi da quelli della fattispecie valida, o automatici, o potenziali, o eventuali, a seconda del modo con cui nei diritti positivi essa è disciplinata».

4 Così Consiglio di Stato, sez. VI, 13 giugno 2007, n. 3173, in http://www.giustizia-amministrativa.it. Al riguardo, viene, inoltre, evidenziato che «l’art. 21-septies della (riformata) legge n. 241/1990 prevede che il provvedimento amministrativo è nullo quando a) manchi degli elementi essenziali, b) sia viziato da difetto assoluto di attribuzione, c) sia stato adottato in violazione o elusione del giudicato ed infine d) in tutti gli altri casi espressamente previsti dalla legge (c.d. nullità testuali). Le cause di nullità del provvedimento amministrativo devono quindi oggi intendersi quale numero chiuso». In tema di annullabilità dell’atto amministrativo occorre evidenziare che le norme che disciplinano l’azione amministrativa sono tutte norme imperative in quanto trovano fondamento nei principi costituzionali di buon andamento e di efficienza dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 Cost. e non sono disponibili per la Pubblica Amministrazione. Tuttavia, ogni violazione di legge (anche di disposizioni imperative) costituisce vizio di legittimità e, quindi, causa di annullabilità dell’atto; pertanto, nel diritto civile la violazione di una norma imperativa provoca nullità, nel diritto amministrativo determina un vizio di violazione di legge che comporta invece l’annullabilità dell’atto.

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amministrativo»5. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano, così come si evince chiaramente dal principio di decadenza, è inconcepibile che il vizio di un provvedimento amministrativo, ancorché derivante da violazione di una norma imperativa, possa essere rilevato senza limiti temporali ed addirittura d’ufficio da parte del giudice. Se così fosse, l’azione amministrativa resterebbe perennemente precaria ed incerta e potrebbe in ogni tempo essere rimessa in discussione. Esigenze di rilievo pubblicistico impongono che il provvedimento amministrativo, decorso il termine di decadenza, pervenga ad una condizione di stabilità ed intangibilità giurisdizionale, salvo naturalmente il potere per la Pubblica Amministrazione di esercitare l’autotutela nei limiti previsti anche per tale potere.

All’invalidità del provvedimento amministrativo è connessa la sanzione dell’inefficacia che risulta ipso iure nel caso della nullità, in quanto l’effetto invalidante costituisce la conseguenza diretta del prodursi della fattispecie della nullità. Nel caso della fattispecie dell’annullabilità la sanzione della inefficacia è, invece, ope iudicis, poiché l’effetto invalidante costituisce conseguenza della domanda e della sentenza di annullamento del giudice.

All’opposto dell’invalidità, si pone l’irregolarità che costituisce la forma patologica di più lieve entità, essendo il relativo vizio di talmente ridotta entità da non compromettere minimamente l’interesse che la norma violata intende tutelare.

Tipico vizio del provvedimento amministrativo è, inoltre, quello dell’inopportunità, un vizio di merito che attiene al contenuto dell’atto, vale a dire al contrasto tra l’assetto degli interessi consacrato a seguito dell’esercizio del potere ed i principi di buona amministrazione6. Più in particolare, mentre l’illegittimità costituisce la difformità dell’atto dal paradigma normativo costituito dalle norme di azione, l’inopportunità si verifica nei casi in cui la scelta discrezionale confligge con criteri non giuridici, diversamente il vizio di opportunità sarebbe, infatti, compreso in quello di legittimità. Il provvedimento inopportuno, salvo i casi in cui è espressamente riconosciuta la giurisdizione estesa al merito, non è annullabile, fatta salva la sollecitazione del potere di revoca riconosciuto alla pubblica Amministrazione.

Va infine ricordata l’inesistenza quale ulteriore forma di patologia dell’atto. Di tale

5 Così R. CHIEPPA, Commento all’art. 21-septies, in Codice dell’azione amministrativa a cura di M. A. SANDULLI, Milano, 2011, p. 138.

6 Il merito amministrativo può essere definito come «l’insieme delle soluzioni compatibili con il canone di congruità-logicità che regola l’azione discrezionale, distinguibili e “graduabili” tra di loro (nel senso che una soluzione sia da ritenere migliore delle altre) soltanto utilizzando criteri di opportunità e di convenienza», così E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2010, p. 566.

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categoria la legge sul procedimento amministrativo non fa menzione, essa resta quindi priva di definizione normativa, costituendo esclusivamente il frutto di quell’elaborazione dottrinale, secondo cui l’atto inesistente è un quid facti, giuridicamente irrilevante.

In particolare, mentre «il provvedimento nullo è un provvedimento potenzialmente capace di produrre effetti e come tale rischia di essere erroneamente tradotto in realtà materiale, donde l’interesse ad agire per la dichiarazione di nullità; il provvedimento inesistente è, invece, un’entità giuridicamente irrilevante, incapace in radice di produrre alcun effetto materiale e relativamente al quale non è possibile neanche immaginare un interesse ad agire»7.

2. LA PATOLOGIA DELL’ATTO AMMINISTRATIVO PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO EUROPEO L’attitudine del diritto europeo nel condizionare il diritto interno si manifesta anche sul versante della patologia dell’atto amministrativo.

La questione si pone in questi termini: l’accertata difformità di un provvedimento amministrativo interno rispetto alle norme dell’Unione europea, determina una patologia individuata nella c.d. «anticomunitarietà», con ricadute sia sul diritto sostanziale che su quello processuale nazionale.

Al riguardo, occorre evidenziare che l’individuazione del regime giuridico dell’atto amministrativo in contrasto con il diritto dell’Unione europea risente, in qualche modo, della soluzione accolta in ordine alla questione dei rapporti tra l’ordinamento europeo e nazionale.

In effetti, le ragioni dei contrasti dottrinali e giurisprudenziali, registrati nel recete passato, circa l’individuazione del regime giuridico applicabile nei confronti degli atti amministrativi «anticomunitari» ha, in parte, origine dalle conseguenze derivanti dall’accoglimento della tesi dell’integrazione o di quella della separazione tra ordinamento

7 Così R. CHIEPPA, Il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giustizia-

amministrativa.it, l’autore evidenzia che «in passato dottrina e giurisprudenza hanno a volte considerato le

due forme di invalidità assoluta della nullità e dell’inesistenza come un fenomeno unitario, utilizzando la generale e onnicomprensiva definizione di “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 21-septies della legge n. 241/90 alcune delle ipotesi, che parte della dottrina aveva in passato inquadrato nella categoria dell’inesistenza sono state ricomprese dal legislatore nel concetto di nullità del provvedimento amministrativo (difetto assoluto di attribuzione, mancanza degli elementi essenziali dell’atto) e deve quindi ritenersi che la categoria dell’inesistenza sia oggi limitata a quei casi in cui la c.d. “inqualificazione giuridica” dell’atto sia evidente, quali ad esempio quello dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.) o dell’atto ioci causa o docendi causa».

89 europeo e nazionale8.

Aderendo alla tesi della separatezza degli ordinamenti9, ancorché temperata dal coordinamento, si dovrebbe coerentemente ritenere che le norme europee non si inseriscano nell’ordinamento interno. Tale assunto implica, da un lato, che il contrasto tra le norme europee e quelle interne «non determina l’invalidità di queste ultime, comportandone solo ed esclusivamente la disapplicazione»10 e, dall’altro comporta che le norme dell’Unione, in quanto estranee all’ordinamento interno, non possano essere assunte né come parametro di legittimità dell’azione amministrativa, né tanto meno come fonte del potere che l’autorità amministrativa ha esercitato con l’emanazione dell’atto.

Più in particolare, aderendo alla tesi, ormai recessiva, della separatezza degli ordinamenti, la condizione di conflitto tra norma europea e norma interna comporta la disapplicazione, o meglio la non applicazione, della disposizione normativa interna e «da lì (con esclusione dei casi in cui quest’ultima si limiti a disciplinare le modalità di esercizio del potere), la configurazione di uno stato di nullità/inesistenza dell’atto amministrativo» e ciò in quanto la norma europea non potrebbe assurgere «né a fonte d’investitura del potere

8 Come noto la tesi del «monismo ordinamentale» è stata sostenuta dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza Costa del 15 luglio 1964, causa C-6/64 (ma preannunciata con la sentenza Van Gend & Loos del 5 febbraio 1963, causa C26/62) e poi sistematizzata in modo compiuto dalla sentenza Simmenthal del 9 marzo 1978, causa C-106/77. Di contro, la Corte costituzionale ha avversato tale impostazione, sulla base dell’asserito carattere autonomo ed indipendente dell’ordinamento giuridico nazionale rispetto a quello europeo che, sulla base di quanto statuito nella sentenza 16 dicembre 1965, n. 98 starebbero «in orbite separate». Progressivamente, la Corte costituzionale si è sostanzialmente adeguata alla posizione del giudice europeo, mantenendo però in linea di principio la propria posizione sulla distinzione dei due ordinamenti. Infatti, per il giudice costituzionale i due sistemi sono «reciprocamente autonomi e, al tempo stesso, coordinati» (Corte Cost. sentenza 19 aprile 1985, n. 113). Sul tema, la posizione del Consiglio di Stato mostra, invece, piena accettazione della posizione della Corte di giustizia. Esemplificativa è la decisione del 10 gennaio 2003, n. 35 in cui viene sostenuto che «non può, anzitutto, dubitarsi che la disposizione comunitaria violata si ponga, soprattutto nel caso in cui risulti tradotta in una norma nazionale, come diretto parametro di legalità dell’atto amministrativo, anche tenuto conto del rapporto di integrazione tra i due ordinamenti (per come definito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee), da giudicarsi preferibile rispetto a quello della loro separatezza ed autonomia (per come descritto dalla Corte Costituzionale).

9 Tale tesi è stata sostenuta dalla Corte costituzionale a partire dalla nota sentenza Granital del 5 giugno 1984, n. 170, nella quale viene statuito che «vi è un punto fermo nella costruzione giurisprudenziale dei rapporti fra diritto comunitario e diritto interno: i due sistemi sono configurati come autonomi e distinti, ancorché coordinati, secondo la ripartizione di competenza stabilita e garantita dal Trattato […]. Invero, l’accoglimento di tale principio, come si è costantemente delineato nella giurisprudenza della Corte, presuppone che la fonte comunitaria appartenga ad altro ordinamento, diverso da quello statale. Le norme da essa derivanti vengono, in forza dell'art. 11 Cost., a ricevere diretta applicazione nel territorio italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne: e se così è, esse non possono, a rigor di logica, essere valutate secondo gli schemi predisposti per la soluzione dei conflitti tra le norme del nostro ordinamento», in

www.cortecostituzionale.it.

10 Così D. DE CAROLIS, L’annullabilità del provvedimento amministrativo. Estratto ad uso degli

studenti tratto da F. Caringella, D. Carolis, G. De Marzo (a cura di), Le nuove regole dell’azione amministrativa dopo le leggi n.15/2005 e n. 80/2005, Milano, 2009, p.1031.

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amministrativo, né a parametro di legittimità dell’azione dei pubblici poteri»11.

Come evidenziato da attenta dottrina, una rigorosa applicazione della teoria della separatezza degli ordinamenti, «potrebbe neutralizzare, proprio sul piano della regolamentazione dell’azione amministrativa, il principio del primato del diritto comunitario»12.

L’accoglimento della tesi dell’integrazione dei due ordinamenti, sempre propugnata dalla Corte di giustizia, porta ovviamente a conclusioni opposte «sia per quanto riguarda il regime della norma di diritto interno, da ritenersi invalida e non semplicemente disapplicabile», sia per quanto concerne la possibilità di rinvenire nella stessa norma europea «il parametro di legittimità dell’atto amministrativo e la fonte attributiva del potere di emanarlo»13. Al riguardo, è stato infatti osservato che il regime dell’illegittimità dell’atto per «anticomunitarietà», maggiormente aderente alla tesi dell’integrazione è quello dell’annullabilità e ciò sul presupposto che anche le norme europee risultano idonee a fungere da fondamento o da parametro del potere amministrativo.

In ragione della ritenuta integrazione tra i due ordinamenti, il regime dell’annullabilità risulta operativo sia nell’ipotesi in cui sussista un contrasto tra l’atto amministrativo nazionale e una norma europea direttamente applicabile, sia nel caso in cui l’atto amministrativo risulti conforme ad una norma nazionale a sua volta contrastante con un atto normativo dell’Unione europea.

11 Così P. COTZA, Dell’interesse pubblico e di alrti “incidenti” nell’annullamento d’ufficio e nella

convalida delle fattispecie di diritto amministrativo, Napoli, 2012, p. 377.

12 R. GIOVAGNOLI, L’atto amministrativo in contrasto con il diritto comunitario: il regime giuridico e il

problema dell’autotutela decisoria, in www.giustamm.it. L’autore evidenzia che la rigorosa applicazione della

premessa teorica della separatezza degli ordinamenti «induce a negare alle norme comunitarie direttamente applicabili qualsiasi efficacia diretta sull’operato amministrativo, non potendo le stesse costituire né il presupposto normativo fondante la potestà amministrativa di adozione dell’atto, né il parametro alla cui stregua valutarne l’eventuale illegittimità, o per converso, la legittimità di un provvedimento, nonostante la sua contrarietà rispetto alla norma interna incompatibile con il dettato comunitario e quindi disapplicabile». In tale contesto, occorre segnalare un precedente giurisprudenziale che, seppur non condivisibile per taluni aspetti, si caratterizza proprio per portare alle estreme conseguenze la premessa teorica della separatezza degli ordinamenti. Si tratta della sentenza T.A.R. Piemonte, sez. II, 8 febbraio 1989, n. 34, secondo cui la norma comunitaria confliggente con quella interna, «non entrando a far parte del sistema delle fonti, non è in grado di produrre effetti invalidanti non solo sugli atti normativi con essa contrastanti, ma anche su quelli amministrativi, rispetto ai quali le disposizioni di origine europea, estranee all’ordinamento, non potrebbero mai assurgere a parametro di legittimità». Al riguardo osserva N. PIGNATELLI, L’illegittimità “comunitaria”

dell’atto amministrativo, Giurisprudenza costituzionale, n. 4, 2008, p. 3635 ss., in www.giustizia- amministrativa.it, che le affermazioni contenute nella sentenza n.34/1989 del Tar Piemonte «sembrerebbero

essere coerenti alla teoria della separatezza solo se riferite alle norme attributive del potere amministrativo, sul presupposto che nell’ipotesi in cui una norma statale meramente regolativa sia in contrasto con una norma comunitaria, l’atto amministrativo, a seguito della non applicazione della norma anticomunitaria, non risulterebbe “in carenza di potere” e la sua legittimità dovrebbe essere valutata (se mai) alla luce di “altre” norme statali, vista la (presunta) inidoneità delle norme comunitarie a fungere da parametro».

91 2.1. L’ILLEGITTIMITÀ DIRETTA E INDIRETTA

Come sopra accennato, un primo criterio distintivo delle forme di illegittimità degli atti amministrativi per contrasto con il diritto europeo, attiene all’interposizione o meno di una norma interna tra gli atti amministrativi stessi e le disposizioni europee con cui contrastano, nel senso che gli atti amministrativi mutuano «l’anticomunitarietà» dalla norma cui danno applicazione14.

L’illegittimità dell’atto amministrativo per violazione del vincolo di conformità al diritto dell’Unione europea può, quindi, manifestarsi come:

i) vizio direttamente imputabile all’atto, nell’ipotesi in cui il contenuto dell’atto risulti essere autonomamente in contrasto con una norma europea. In tale caso, si avrà una «anticomunitarietà diretta» in quanto l’atto amministrativo risulta in contrasto con norme europee direttamente applicabili, senza l’intermediazione del diritto nazionale;

ii) vizio indirettamente imputabile all’atto, nelle ipotesi in cui il vizio dell’atto sia soltanto mediato, o meglio, nel caso in cui un atto sia stato emanato in conformità di quanto prescritto da una norma statale, che a sua volta risulta in contrasto con il diritto europeo. In tal circostanza, si avrà una illegittimità «comunitaria indiretta». In sintesi, l’atto amministrativo risulterà viziato da «anticomunitarietà indiretta» in quanto sussiste un contrasto con le norme europee non direttamente applicabili15. La fonte europea costituisce, pertanto, parametro di legittimità per l’attività esplicata in sede di attuazione e l’illegittimità dell’atto amministrativo è soltanto indiretta.

In particolare, l’illegittimità comunitaria «diretta» evoca «inevitabilmente il modello originario del vizio di violazione di legge (per quanto comunitaria)», atteso che è la stessa norma sovranazionale a rappresentare senza alcuna intermediazione il parametro di legittimità dell’atto amministrativo. Proprio in relazione a tale fattispecie, sono state nel tempo formulate diverse teorie volte a verificare se questa particolare violazione di legge rappresenti «una sorta di quarta specie rispetto alla trilogia classica dei vizi dell’atto, se il riconoscimento di una nuova tipologia sostanziale abbia delle ricadute sul regime

14 Cfr. R. MUSONE, Il regime di invalidità dell’atto amministrativo anticomunitario, Napoli, 2007, p.77 ss.

15 Cfr. M. CAPORALE, Il regime dell’atto amministrativo anti-comunitario, in Il diritto amministrativo

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processuale di giustiziabilità ed infine se da tale regime processuale qualcosa possa desumersi quanto alla tenuta della teoria della separazione tra gli ordinamenti»16.

Di contro, l’illegittimità comunitaria «indiretta» non porta con sé una violazione, né un vizio autonomo dell’atto, in quanto viene presupposto il rispetto del parametro di legittimità statale, il quale a sua volta ha un contenuto lesivo della norma dell’Unione europea. In tale caso l’illegittimità sarà, per l’appunto, «derivata».

In tale ambito, appare utile evidenziare come la distinzione tra illegittimità comunitaria diretta e indiretta dell’atto amministrativo sia evocativa di un altro peculiare vizio dell’atto amministrativo, quello della incostituzionalità.

Con riguardo all’incostituzionalità dell’atto amministrativo, occorre distinguere l’ipotesi della violazione «diretta» della Costituzione, rispetto alla quale il giudice amministrativo ha la facoltà di sindacare diffusamente l’illegittimità, dall’ipotesi di violazione «indiretta» per la quale è, invece, necessario il giudizio accentrato della Corte costituzionale sulla norma sulla quale l’atto amministrativo si basa.

Per quanto riguarda l’illegittimità dell’atto amministrativo per contrasto con il diritto europeo, il sindacato sull’atto assume, di contro, sempre una natura diffusa, sia nel caso di