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La funzione formativa delle Comunità di Pratica

L’aspetto problematico della formazione degli insegnanti, considerato nel tema della ricerca, è stato affrontato riflettendo anche sulla possibilità di costituire e favorire la costituzione delle Comunità di Pratica (CdP), introdotte da Wenger e definite come “…un gruppo di persone che condividono una preoccupazione o la passione per qualcosa che fanno e imparano a farlo meglio mano a mano che interagiscono con regolarità…” (Wenger, 1998, p. 4).

Di tale costrutto Wenger, uno dei massimi esponenti delle teorie dell'apprendimento applicate a tale settore, nella sua opera non si limita a dare una semplice definizione, ma ne fa anche uno strumento analitico capace di interpretare forme organizzative di vario tipo e di rappresentare il punto di partenza per una efficace ri-progettazione delle organizzazioni orientate alla conoscenza (Wenger 1998, trad. it. 2006). Le CdP sembrano rappresentare un utile modello per affrontare il problema della gestione della conoscenza, in quanto si basano su una nuova teoria dell’apprendimento definita come “…il risultato di una partecipazione attiva alle pratiche di una o più comunità sociali cui l’individuo appartiene (più o meno consapevolmente e a diversi livelli di coinvolgimento) e del processo di identificazione/adesione alle stesse comunità…” (Wenger, 1998, p.6).

A partire dalla classica formulazione di Argyris e Schön (1978), la prospettiva dell’apprendimento organizzativo rappresenta per le Comunità di Pratica un punto di riferimento particolarmente rilevante sia sul piano dell’elaborazione teorica, sia su quello empirico e applicativo. Infatti, il costrutto concettuale delle Comunità di Pratica, è stato elaborato alla fine del secolo scorso nell’ambito di uno specifico programma di ricerche condotto da Wenger e Lave sul tema dell’apprendimento.

Queste ricerche sono state caratterizzate da almeno tre fattori:

a) rovesciare l’assunto, consolidato nelle credenze di senso comune, secondo cui l’apprendistato si fonderebbe su una relazione speciale tra maestro e allievo;

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b) mettere in evidenza il fatto che l’apprendimento graduale di una competenza esperta si basa su un processo sociale di partecipazione a una pratica;

c) analizzare queste pratiche come set complessi di relazioni tra l’allievo e gli altri membri della comunità; tra l’allievo e la pratica stessa; tra l’allievo e la cultura del gruppo (Wenger & Lave, 1991).

Come sopra descritto Wenger definisce le CdP come il risultato di una partecipazione attiva alle pratiche di una o più comunità sociali cui l’individuo appartiene e del processo di identificazione/adesione alle stesse comunità. Tale approccio, maturato nel contesto della psicologia culturale e dell'etnografia applicata alle realtà organizzative, tiene conto di diverse teorie quali quelle del significato, della struttura sociale, dell’esperienza situata, della collettività, della soggettività, del potere, della pratica, e dell’identità (Pontecorvo, Ajello & Zucchermaglio, 1995; Zucchermaglio, 1996; Wenger, 1998; Lipari, 2007, 2010). In questo senso, l’apprendimento è un processo essenzialmente esperienziale e sociale, di vera e propria “partecipazione sociale” che crea strutture emergenti e contribuisce alla costruzione della nostra identità attraverso l’appartenenza a comunità dove entrano in gioco simultaneamente: 1) l’acquisizione di competenze (tecniche e relazionali) situate;

2) la costruzione dell’identità individuale e sociale; 3) l’attribuzione di significato all’esperienza;

4) il riconoscimento dell’essere parte di un insieme che, nella pratica, condivide saperi, valori, linguaggi e identità.

Viene quindi a crearsi una sorta di parallelismo tra la pratica (e il genere di comunità sociali che questa definisce) e l’identità del gruppo; in tale prospettiva la pratica ricopre un ruolo fondamentale per la comprensione dei fenomeni di apprendimento in quanto viene definita come il “…fare […] all’interno di un determinato contesto storico e sociale…”dove la persona partecipa nella sua totalità: partecipazione che “…influenza non solo ciò che facciamo, ma anche chi siamo e come interpretiamo ciò che facciamo…” (Wenger 1998, p. 47).

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Sulla base di tale approccio le CdP rappresentano un utile modello per affrontare il problema della gestione della conoscenza nella misura in cui esse costituiscono “…un’infrastruttura organizzativa concreta per la realizzazione del sogno di un’organizzazione che apprende…” (Wenger, McDermott & Snyder, 2002, p. 12).

Nella realtà le CdP possono assumere molte forme. Possono essere comunità che svolgono la loro attività in presenza, on line oppure in modalità blended, ovvero utilizzando sia gli incontri in presenza sia il web (Maragliano, 2004b; Calvani, 2001, 2011).

Per quel che riguarda la scuola il quadro è complesso: supportare la creazione di una CdP di insegnanti è un modo per renderli consapevoli del proprio ruolo all'interno del sistema scuola. In questo modo, inoltre, gli insegnanti possono essere affiancati nella propria pratica quotidiana e, avvalendosi della possibilità di interagire con i colleghi, possono uscire dall’isolamento mediante la condivisione delle esperienze e l’individuazione delle migliori pratiche e possono contare sull’aiuto reciproco nell’affrontare i problemi quotidiani della propria professione.

Definendo questo tipo di apprendimento collaborativo, mutuato (o reciproco), per distinguerlo da quello, per così dire, diretto, basato su un processo governato da qualcuno e che segue un ben preciso programma formativo, il concetto di CdP favorisce un apprendimento collaborativo e autentico capace di rispondere prevalentemente a due esigenze: la prima è relativa alla possibilità, a valle di un’azione formativa, di dare continuità alla stessa attraverso forme di assistenza reciproca fra i neo-formati e gli insegnanti più esperti; la seconda si riferisce a quella di creare comunità professionali ispirate ai modelli della cosiddetta "condivisione della conoscenza" (Trentin, 2001, 2004; Calvani, 2011).

Naturalmente tale approccio necessita di un insieme di attitudini e competenze molto complesso e difficile da sviluppare e deve essere supportato, nella pratica quotidiana, da opportunità di interazione con i colleghi e da possibilità di

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approfondimento delle conoscenze (Midoro, 2004). Sebbene le Comunità di Pratica possano formarsi spontaneamente o attraverso l’aggregazione e la crescita di piccoli nuclei, il loro sviluppo può essere favorito e supportato in vari modi: attraverso un’organizzazione attenta; con sistemi di riconoscimento; mediante opportuni percorsi formativi; con attività comuni. Focalizzando l’attenzione sugli elementi identificati da Wenger (2002), gli insegnanti possono riflettere sulla loro pratica, condividere approcci, sperimentare nuovi contenuti e nuove pratiche e fornire supporto psicologico, didattico e pedagogico agli altri colleghi. Lo sviluppo professionale non rappresenta solo qualcosa che viene riversato dall'esterno, ma qualcosa in cui gli insegnanti stessi possono partecipare e dal quale possono trarre importanti vantaggi, non ultimo quello fornito dalla possibilità di interagire in una Comunità di Pratica dove i docenti sono in continuo contatto tra di loro creando un apprendimento alla pari che stimola la risoluzione dei problemi nel momento stesso in cui essi nascono e potendo quindi uscire dall’isolamento (Bodi, 2007).

Il domino di conoscenza degli insegnanti è qualcosa di vivo, dinamico e soprattutto tacito. Le competenze che gli insegnanti acquisiscono sul campo difficilmente possono essere catturate nei libri. Le interazioni informali tra insegnanti sono un modo per far circolare queste esperienze e le migliori pratiche. Ogni componente della comunità di pratica si crea un proprio spazio e una propria identità che si integra con quelle degli altri membri ma non si fonde mai. Inoltre le molteplici opportunità di interazione con i colleghi diventano un mezzo efficace ed economico per approfondire le proprie conoscenze professionali in un percorso di riflessione. Tale percorso può essere supportato da esperti di vari campi di studio che rispondano a domande o che conducano incontri in presenza o da docenti di pari grado che però abbiano punti di vista diversi sulla stessa pratica d’insegnamento. Queste risorse di tipo umano si vanno ad affiancare al materiale cartaceo, alle fonti di informazione e ai supporti di vario genere (audio, video, multimediali) che possono essere presi dall’esterno, ma che possono essere anche essere stati creati all’interno della

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comunità di pratica stessa. In questo caso siamo di fronte ad un fenomeno in cui è la comunità a “nutrire” sé stessa e a decidere la propria strada secondo un principio di selezione dei materiali da condividere.

Un altro fattore di cambiamento che le CdP possono apportare nella pratica del docente riguarda il rapporto tra docente e l'approccio didattico: infatti queste risultano idonee a supportare l’attività quotidiana dei docenti anche per facilitare l’inclusione scolastica di tutte le diversità. Come dimostrato da alcune ricerche di settore, infatti, emerge l’esigenza sia da parte degli inseganti di sostegno che di quelli curricolari, di sviluppare adeguate competenze comunicative-relazionali per “…migliorare l’integrazione degli allievi disabili attraverso la messa in comune di conoscenze e di esperienze, il dialogo ed il confronto, oltre che la riflessione critica sulle proprie azioni…” (Chiappetta Cajola, 2009a p. 53).

Inoltre, le CdP nella formazione degli insegnanti sono uno strumento importante anche per quel che riguarda la formazione professionale continua (LifeLong Learning). Nelle Comunità di Pratica ben rodate diventa infatti più semplice mettere in atto un processo di formazione continua e di sviluppo professionale su un vasto campo di pratiche collaborative finalizzate alla costruzione, allo scambio e alla disseminazione di conoscenza nel ambito dei saperi pedagogico didattici.

Poiché nella realtà le CdP, come sopra anticipato, possono rappresentare comunità che svolgono la loro attività in presenza, on line oppure in modalità

blended, ovvero utilizzando sia gli incontri in presenza sia il web, il progetto di

ricerca, come descritto in maggior dettaglio in seguito, ha considerato come unità di analisi insegnanti in servizio che per il loro aggiornamento professionale hanno usufruito di una modalità formativa erogata in modalità

blended.

Tale scelta ha tenuto conto anche dell’esigenza sempre più improrogabile di provare ad utilizzare le tecnologie a disposizione “…per rendere la didattica più diversificata, più multidimensionale, più inclusiva […] per rappresentare una

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sfida al cambiamento…” (Zambotti, 2013, p. 290), esigenza che risulta coerente con quanto esplicitato nell’ambito delle ipotesi della ricerca di dottorato rispetto all’importanza di utilizzare le tecnologie ai fini formativi per valutarne gli eventuali impatti anche sulla progettazione didattica nella attività quotidiana dei docenti.

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Capitolo 6

La ricerca: “Strategie didattiche inclusive: le nuove

tecnologie nell’ICF-CY”