2.1 Genere e traduzione: storia, teorie e pratiche traduttive
2.1.1 La prospettiva storica: donne traduttrici
Se da una parte è innegabile che il legame tra traduzione e genere sia stato basato storicamente sull’associazione, dispregiativa, tra traduzione e universo femminile, dall’altra è vero anche che l’attività traduttiva ha rappresentato in passato per le donne una via d’accesso alla sfera pubblica e al mondo culturale e letterario che generalmente erano loro preclusi. La traduzione, seppur destinata alle donne in quanto attività secondaria e subordinata, ha offerto quindi loro una possibilità per far sentire la propria voce, per ottenere una pur limitata visibilità:
Gender difference has been played out […] [also] in actual practices of translation, in the specific social and historical forms through which women have understood and enacted their
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writing activities. […] On the one hand, translation was the means through which women, beginning in the European Middle Ages, particularly, were able to gain access to the world of letters. Long excluded from the privileges of authorship, women turned to translation as a
permissible form of public expression. Translation continued to serve as a kind of writer’s
apprenticeship for women into the nineteenth and twentieth centuries. […] In addition, translation was an important part of the social movements in which women participated. (Simon 1996: 2, corsivo mio)
Come lascia intuire lo stesso aggettivo “permissible” utilizzato da Simon, la traduzione in quanto attività ancillare, secondaria e derivativa era “concessa” alle donne. Nella traduzione le donne (ri)esprimono infatti le idee di qualcun altro, molto spesso un uomo, non le proprie e non minacciano quindi di invadere spazi di prerogativa maschile e di arrogarsi privilegi riservati agli uomini, come elaborare un pensiero autonomo e indipendente, delle idee personali (Delisle 2002: 7). Sebbene la traduzione sia stata tradizionalmente destinata alle donne in ragione di una supposta inferiorità condivisa – della donna rispetto all’uomo e della traduzione rispetto alla scrittura autoriale – nel tempo le donne hanno saputo appropriarsene come spazio e mezzo di espressione, a seconda delle possibilità offerte dal contesto storico, sociale, politico e ideologico in cui hanno svolto la loro attività. Simon (1996) nota infatti che
[i]n an intriguing argument, Douglas Robinson suggests […] that the sixteenth century sees the beginnings of what he calls the “feminization” of translation, a process by which women use the discourse of the translator to give themselves a public voice and to ensure themselves a place in the world of writing […]. This identification of women with the role of translator at this time carries a progressive charge, as it challenges the confinement of women to the purely private sphere, and gains them admission into the world of letters. (45-46)
Il recupero del contributo delle traduttrici da un punto di vista storico, attraverso un faticoso lavoro di ricerca in archivio, costituisce quindi uno degli ambiti di indagine del rapporto tra genere e traduzione, allo scopo di “réévaluer la part jouée (mais trop souvent passée sous silence) par les femmes dans la transmission des idées” (Sardin 2009b: 11). La riscoperta e la riabilitazione di voci femminili nascoste e “silenziate” nel corso della storia possono essere considerate una forma di “recupero di una tradizione”, simile al lavoro svolto dalla critica femminista nel (ri)costruire una genealogia letteraria femminile e un canone letterario femminile10 (cfr. Baccolini 2005). Tale attività non solo
10 A proposito dell’attività di riscoperta e recupero del contributo storico delle donne come traduttrici e del
rapporto con l’esperienza delle critiche letterarie femministe, Federici e Fortunati (2011) notano: “From this perspective, feminist scholars engaged in translation have learnt the main lesson offered by feminist literary critics who, in trying to redefine the female literary canon, have stressed the complexity of shaping and creating a female authorship with regard to the anxiety of male influence and tradition” (11-12). Sul rapporto tra marginalità e necessità di legittimare la propria “voce” attraverso il recupero di una tradizione e di una genealogia cfr. Capitolo 1 § 1.2.2. Da questo punto di vista, il percorso di legittimazione della traduzione “al femminile” può essere equiparato a quello della letteratura per l’infanzia e dei classici
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ha fatto emergere la presenza di traduttrici anche nel passato, ma ha anche evidenziato il ruolo svolto dalle traduttrici nella trasmissione e nella diffusione di nuove conoscenze e di idee liberali, e dunque il loro contributo all’innovazione culturale della società. Rivendicando la traduzione come spazio effettivo di espressione per le donne, Simon (1996: 39-40) sottolinea come la traduzione femminile abbia promosso, ad esempio, la circolazione delle idee del first-wave feminism e delle importanti cause sociali connesse, in particolare il movimento anti-schiavista. Analogamente, Delisle ribadisce come
[e]n tant que traductrices […] elles contribuent, selon les époques, les circonstances et la nature des ouvrages traduits, au progrès scientifique, à la diffusion des connaissances, à la propagation des religions, à l’importation et à l’exportation de littératures et de valeurs culturelles, à l’enrichissement des langues, à la consolidation du sentiment patriotique, au développement d’une identité nationale, à la création de la littérature universelle, etc. (2002: 7)
Nella sua riflessione sui limiti dell’attività svolta dalla scuola canadese su genere e traduzione, evidenziando la dimensione strettamente letteraria a cui rimaneva circoscritta, von Flotow (2006: 19) sottolinea la necessità di approfondire non solo le questioni di genere nella traduzione di testi non-letterari, ma anche di recuperare e valorizzare il ruolo svolto dalle donne nella loro traduzione in prospettiva diacronica. Da questo punto di vista, secondo la studiosa occorrerebbe indagare la presenza di traduttrici all’interno di ambiti extra-letterari, ad esempio quello scientifico, recuperando il loro contributo nella trasmissione del sapere, nella diffusione di nuove conoscenze e nello sviluppo di tali discipline, soffermandosi sull’evoluzione e la trasformazione del loro ruolo e della loro funzione all’interno dei vari settori, anche in conseguenza dei mutamenti storici e disciplinari sopravvenuti.
Nello studio dell’attività delle traduttrici nel corso della storia emerge spesso come il lavoro di traduzione e trasmissione di saperi e conoscenze sia stato influenzato dalle circostanze storiche, politiche, sociali e culturali in cui le traduttrici si sono trovate a operare, ma anche da fattori personali. Presentando le traduttrici studiate nel numero monografico di Palimpsestes (Lady Montagu, Mary Gay, Victorine de Chastenay, Lucie Delarue-Mardus), Pascale Sardin precisa infatti che
[t]outes les femmes traductrices étudiées […] ont choisi de faire œuvre de transmission, chacune à sa façon, et selon les contraintes et les libertés propres à son époque, à sa classe et à sa langue de travail. […] elles ont toutes traduit en femmes averties et érudites. Grâce à la
per il pubblico più giovane in particolare. Del resto, come la traduzione, anche la scrittura per l’infanzia è stata a lungo considerata una forma di espressione “inferiore” rispetto alla letteratura per adulti.
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traduction, ces femmes, souvent mondaines au bon sens du terme, effigies des salons littéraires, dialoguent avec leur temps. (2009b: 13)
Se la prospettiva femminista ha guidato gran parte dell’attività di recupero della presenza femminile nel mondo della traduzione, la ricerca si è orientata talvolta verso una direzione più strettamente storica e storiografica, come nel caso del volume Portraits de traductrices (Delisle 2002). È lo stesso Delisle (2002: 8-9), curatore della raccolta, ad affermare chiaramente la prospettiva apolitica, non militante e non femminista adottata nell’opera11, pur sottolineando l’importanza del recupero del ruolo e della presenza delle donne nel mondo della traduzione, “car les circonstances entourant la traduction des œuvres portent témoignage sur l’histoire de leur temps” (Delisle 2002: 8). La raccolta si inscrive quindi in un’ottica prettamente storico-storiografica e biografica, e presenta in forma di mini-biografie dieci donne che hanno dedicato la loro vita o una parte della loro vita alla traduzione: Anne Dacier, Anne de La Roche-Guilhelm, Émilie du Châtelet, Albertine Necker de Saussure, Clémence Royer, Ekaterina Karavelova, Marianna Florenzi, Jane Wilde, Julia E. Smith, Eleanor Marx e Irène de Buisseret. Secondo Delisle, dai ritratti tracciati emerge come
toutes ont, avec détermination, tenté de démontrer aux hommes par leurs travaux intellectuels qu’être femme n’est pas un défaut. Refusant d’accepter les limites que la société leur assignait, elles ont cherché, à leur manière, à briser le consensus des idées reçues à leur égard […]. Et […] c’est en grande partie la traduction qui leur a fourni ce moyen d’action et d’affirmation, les femmes n’étant alors autorisées à pénétrer dans le monde des idées que comme traductrices. (2002: 9-10)
Gli studi condotti per riportare alla luce l’attività di queste e altre traduttrici rivelano anche come la traduzione intersechi altri aspetti legati alla condizione femminile nella storia (Simon 1996; Delisle 2002). La questione, tutt’altro che secondaria, dell’educazione e dell’istruzione a cui le donne avevano accesso e diritto, nonché dell’istruzione come mezzo di liberazione della donna si profila in effetti sullo sfondo di queste ricerche. Inoltre, se la traduzione è sempre sottoposta a vincoli contestuali più o
11 Nella presentazione al volume, Delisle (2002) scrive: “Le présent recueil n’est pas pour autant un ouvrage
féministe. Il ne cherche pas à stigmatiser des injustices historiques dont les traductrices auraient été victimes et ne se veut pas non plus une dénonciation de leur marginalisation. La constitution de dossier noirs n’est pas une méthode de recherche privilégiée par l’historien et relève plutôt de l’action politique. Il n’aurait pas été difficile pourtant de faire voir la place incongrue faite à la plupart des traductrices dans l’institution littéraire et les milieux de l’édition” (8-9). Poco più avanti, ribadisce che “Portraits de traductrices n’est donc pas un ouvrage revendicatif qui se porte à la défense des traductrices. Il s’agit plutôt de mini- biographies de femmes qui ont consacré leur vie ou une partie de leur vie à la traduction et qui méritaient d’être mieux connues” (9), sottolineando la necessità di non presentarle come femministe o attiviste ante
litteram. D’Arcangelo (2005: 68) si mostra critica rispetto alla posizione assunta da Delisle: “Questa
dichiarazione d’intenti, tuttavia, a me pare limitante rispetto all’effettivo contributo che tale volume può dare nell’ambito del recupero del ruolo delle traduttrici nella storia”.
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meno rigidi e variabili a seconda delle diverse circostanze storiche, geografiche, culturali e sociali in cui viene realizzata, è innegabile, secondo Delisle (2002: 7), che le traduttrici si siano trovate a far fronte a una serie di “difficoltà” supplementari. Ecco allora che lo studio degli apporti femminili alla traduzione fa emergere anche le limitazioni e gli ostacoli che la società ha imposto alle donne nei secoli, in forme e modi diversi a seconda delle epoche. In questo quadro, la traduzione può essere considerata in qualche misura uno spazio di emancipazione e ha rappresentato una forma di espressione pubblica e letteraria, talvolta in preparazione alla scrittura autoriale, talvolta svolta come attività parallela alla scrittura, come nel caso di Aphra Behn12. All’interno di questo spazio di espressione rappresentato dalla traduzione, le donne traduttrici hanno certamente contribuito alla diffusione e al rinnovamento di saperi, conoscenze e società, ma hanno anche riflettuto sulla propria attività, anche quando la riflessione non ha prodotto elaborazioni teoriche organiche (Simon 1996; von Flotow 1997; D’Arcangelo 2005). Sebbene l’attività delle traduttrici sia attestata già a partire dal Medioevo (Simon 1996), i primi veri e propri trattati sulla traduzione redatti da donne risalgono infatti all’inizio dell’Ottocento a opera di Madame de Staël13, che nel 1816 pubblica il saggio De l’esprit des traductions (Staël 1821), e di Sarah Austin. In precedenza, l’attività teorica sulla traduzione, sempre presente anche indirettamente, era confinata in spazi più limitati o privati come prefazioni, note alla traduzione, dediche, epistolari. La riflessione teorica sulla traduzione e sull’attività traduttiva era cioè affidata agli spazi paratestuali, tanto peritestuali quanto epitestuali14.
12 Aphra Behn fu innanzitutto un’affermata scrittrice teatrale, una delle più citate tra le “prime” scrittrici
inglesi. All’attività di scrittura teatrale affiancò e intervallò quella di traduttrice e fece ampio uso delle prefazioni per spiegare le ragioni delle scelte testuali, discutere e commentare il processo traduttivo. L’aspetto più interessante della sua attività di traduttrice rimane tuttavia la scelta di intervenire apertamente nella sua traduzione del 1688 dell’opera di Fontanelle The theory of system of several new inhabited worlds. Behn manipola deliberatamente il testo inserendo nella traduzione un personaggio femminile, una “Fair Lady” non presente nell’originale, per presentare e trasmettere al pubblico femminile a cui si rivolge le idee scientifiche e razionali dell’epoca (cfr. Simon 1996; von Flotow 1997; Taronna 2006). Secondo Taronna (2006: 35), questo personaggio creato ex-novo ha una doppia funzione discorsiva: “da una parte, facilitare l’identificazione delle lettrici con il personaggio e l’opera basata sulla discussione dei mezzi e delle offerte educative per migliorare la condizione della donna; dall’altra, demistificare il sapere maschile”.
13 Sulla figura di Madame de Staël e sul suo importante ruolo di mediatrice culturale si veda ad esempio
“Germaine de Staël and Gayatri Spivak: Culture Brokers” (Simon 2002). Nel suo contributo, Simon mette in luce i punti di contatto tra queste due figure di mediatrici culturali attraverso l’attenzione che hanno riservato alla funzione e all’impatto della traduzione. Nella sua operazione Simon è pienamente consapevole delle differenze, talvolta macroscopiche, tra le due, a partire da quelle storiche.
14 Come si avrà modo di approfondire (§ 2.1.3), sebbene il loro utilizzo riposi su altri presupposti e abbia
finalità diverse rispetto all’uso che ne facevano le traduttrici del Seicento o dell’Ottocento, gli spazi paratestuali rivestono un ruolo fondamentale nella teoria e nella pratica della traduzione femminista, in particolare come luogo per eccellenza della visibilità della traduttrice.
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2.1.2 Miti e metafore: dalla “sessualizzazione” alla “femminilizzazione” della traduzione
La ricerca sul contributo e gli apporti femminili alla traduzione, pur rivalutando il ruolo fondamentale svolto storicamente dalle donne, ha messo in luce come l’attività delle traduttrici sia stata resa possibile anche dalla tradizionale inferiorità sociale delle donne rispetto agli uomini e letteraria della traduzione rispetto alla scrittura. Il linguaggio utilizzato per descrivere la traduzione costituisce un’ulteriore prova di questa svalutazione ed è stato uno dei punti fondamentali su cui si è soffermata la riflessione sul rapporto tra genere e traduzione. La traduzione è stata infatti storicamente associata all’universo femminile, attraverso una serie di miti e metafore con cui è stato descritto o definito il processo traduttivo. Nei secoli, la questione della fedeltà rispetto al testo originale è stata verbalizzata attraverso metafore legate al genere e alla sessualità, con una conseguente sessualizzazione del linguaggio utilizzato per definire la traduzione (Chamberlain 1988; 1998; Godayol 2013; Wilhelm 2014). Da una parte, queste immagini sono state costruite su stereotipi di genere, dall’altra sui rapporti di potere uomo-donna, che riproducono la gerarchia testo originale-traduzione, autore-traduttore15. Come sottolinea Godayol (2013), interrogarsi sulla metaforizzazione della traduzione in termini di genere
it is not a question of judging the value systems of a particular period, but rather of questioning them to discover how the consumption and re/production of texts are linked to other social and cultural practices of power, and to remind ourselves that we are also part of a system which is what furnishes us with a subjectivity for translating or creating metaphors. (102)
In “Gender and the Metaphorics of Translation” Lori Chamberlain (1988) analizza una serie di metafore che hanno definito la traduzione in relazione al genere, metafore che rivelano “something of the politics of translation. They reveal an anxiety about origins and originality, and a power struggle over the meaning of difference” (Chamberlain 1998:
15 In questo caso, si è scelto di utilizzare il maschile generico (“autore” e “traduttore”) proprio per marcare
la componente ideologica insita in queste metafore. In queste rappresentazioni, infatti, a essere femminilizzati sono il processo traduttivo e il prodotto, mentre non solo le istanze autoriali sono maschili, ma anche quelle traduttive sembrano restare tali, come si evince anche dall’efficace quadro riassuntivo tratteggiato da Godayol (2013: 100): “Over time, there have been different models of sexual relationships in translation discourses such as that of the author (man) with the translation (woman), that of the translator (man) with the translation (woman), the friendship between the translator (man) and the author (man) characterized by the paternal attention paid by both to the translation (woman), the relationship between the author (man) and his mother tongue (woman), or that between the translator (man) and the language of the original text (woman)” (cfr. Chamberlain 1988: 461). Analogamente, si è deciso di utilizzare “testo originale” e “traduzione” e non “testo di partenza” e “testo di arrivo” per sottolineare la gerarchizzazione tra scrittura e traduzione su cui sono costruite le metafore (cfr. Chamberlain 1988).
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93). Chamberlain parte dalla contrapposizione tra produzione e riproduzione (“productive and reproductive work”) su cui si fonda l’intero sistema di valorizzazione della cultura e che rappresenta l’originalità e la creatività in termini di paternità e autorità, quindi in termini maschili, relegando il femminile a una serie di ruoli secondari (Chamberlain 1988: 455). La studiosa si interroga quindi sulle conseguenze di tale contrapposizione nel campo della traduzione, in particolare come questa si configuri nella distinzione tra scrittura (autoriale) e traduzione: “I am interested in this opposition specifically as it is used to mark the distinction between writing and translating – marking, that is, the one to be original and ‘masculine’, the other to be derivative and ‘feminine’” (Chamberlain 1988: 455).
La metafora sulla traduzione più celebre, da cui parte la stessa Chamberlain, è sicuramente quella delle belles infidèles16, espressione coniata in Francia nel XVII secolo per indicare le traduzioni estremamente libere dei classici greci e latini in francese. L’espressione, che gioca sull’assonanza della lingua francese tra “belles” e “infidèles”, lega quindi le donne alla traduzione attraverso la questione centrale della fedeltà, matrimoniale e traduttiva:
For les belles infidèles, fidelity is defined by an implicit contract between translation (as woman) and original (as husband, father, or author). However, the infamous “double standard” operates here as it might have in traditional marriages: the “unfaithful” wife/translation is publicly tried for crimes the husband/original is by law incapable of committing. This contract […] makes it impossible for the original to be guilty of infidelity. Such an attitude betrays real anxiety about the problem of paternity and translation; it mimics the patrilineal kinship system where paternity – not maternity – legitimizes an offspring. (Chamberlain 1988: 456)
La metaforizzazione della traduzione come donna e l’associazione con il contratto matrimoniale hanno incoraggiato per secoli una forma di sospetto sulla fedeltà e dunque sull’affidabilità della traduzione17. In questo caso, si assiste inoltre a una doppia
16 Susanne de Lotbinière-Harwood (1991) riprende provocatoriamente l’espressione per descrivere la sua
pratica traduttiva radicale sovversiva e femminista, per descrivere “la position subversive qu’[elle] adopte en traduisant au féminin, c’est-à-dire en [s]e faisant sujet-femme de l’activité traduisante” (21). Definisce quindi le sue traduzioni “re-belles et infidèles”, come recita anche il titolo del suo libro. “Re-belles”, ribelli, perché sfidano il rapporto tradizionale tra testo di partenza e di arrivo implicito nella metafora delle belles
infidèles, ma anche “nuovamente belle”, perché, giocando sul valore iterativo del prefisso “re”, mettono in
discussione cosa sia una “bella traduzione”. La traduttrice precisa infatti che “les re-belles et infidèles veulent aussi remettre en question la tendancieuse notion de beauté appliquée à la traduction par l’expression ‘belles et infidèles’. La beauté physique, valeur traditionnellement féminine et principale valeur marchande des femmes dans le système d’échange entre les hommes, demeure un attribut déterminé de façon subjective, voire morale. […] Donc nos critères de beauté, de qualité, d’excellence, ne sont pas ceux du dominant. À nous de les redéfinir dans le plaisir de traduire” (23-24, corsivo originale).
17 La tradizionale polarizzazione tra traduzione letterale (fedele) e libera (infedele) riassunta
dall’espressione “les belles infidèles” configura la traduzione anche come “tradimento” secondo l’adagio italiano “traduttore-traditore”, giocato ancora una volta sull’assonanza linguistica.
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svalutazione della donna e della traduzione. Non solo la traduzione viene rappresentata in termini femminili e subordinati, ma viene anche caricata di un ulteriore stereotipo culturale e sessista attraverso il doppio parallelismo tra i concetti di fedeltà-bruttezza e infedeltà-bellezza: se le traduzioni (e le donne) sono belle, allora probabilmente saranno infedeli, viceversa se sono fedeli, probabilmente saranno brutte. D’Arcangelo (2005: 64- 65) nota come la metafora delle belles infidèles, sebbene sia tra le metafore sulla traduzione più famose e conosciute, sia anche quella che forse mostra maggiormente “i limiti del discorso tradizionale sulla traduzione”. La studiosa sottolinea inoltre come la traduzione da una prospettiva di genere non solo abbia rifiutato questa metafora, ma abbia anche accusato “gli autori che se ne sono appropriati di radicalizzare una simbologia