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1.4 La ritraduzione tra teoria e pratica

1.4.1 Perché ritradurre?

Esistono quindi una teoria e una pratica della ritraduzione letteraria, intesa appunto come nuova traduzione di un testo già tradotto in una data lingua. Tuttavia, se la pratica di ritradurre le opere, soprattutto quelle canonizzate, è antica e diffusa e rivela la storicità di ogni atto traduttivo, l’interesse degli studi traduttologici è recente e molte delle sue implicazioni restano ancora inesplorate (Monti 2011: 10).

Ma quali sono le motivazioni che spingono a ritradurre, al di là delle valutazioni strettamente economiche del mondo editoriale? Monti (2011: 14-17) individua una serie di ragioni alla base della ritraduzione, indicando nell’insoddisfazione ermeneutica nei confronti delle traduzioni esistenti quella più frequente e più diffusa, e per più di un motivo. Una traduzione può essere insoddisfacente innanzitutto a causa delle omissioni o delle modifiche e manipolazioni che contiene, e la ritraduzione sarà motivata dalla volontà di ristabilire “l’intégralité du texte” e sottrarlo a quella “censure idéologico- politique, ou encore [à] cette censure morale qui édulcore, voire efface, dans les traductions, les élements contraires à la morale dominante” (Monti 2011: 14-15). Analogamente, una nuova edizione critica del testo di partenza può portare a una ritraduzione animata da uno spirito di aderenza filologica all’integralità del testo. Una nuova traduzione sembra imporsi, poi, quando la traduzione precedente era stata realizzata a partire dalla traduzione in un’altra lingua e non dal testo originale, per cui si sente il bisogno di recuperare un rapporto diretto con l’opera.

Il principale motivo di insoddisfazione nei confronti di una traduzione nasce tuttavia dal fatto che le traduzioni “invecchiano” in modo diverso rispetto al testo di partenza, o almeno questa è la percezione del pubblico:

Là où ceux qu’on définit des textes “originaux” prennent des rides qui les rendent encore plus charmantes, les imperfections dues à l’âge des traductions ont une propension toute particulière à les rendre grotesques. Cette série de causes et d’effets peut s’expliquer par le fait que le statut des traductions n’atteint jamais l’autorité des textes “originaux”. En tant que méta-textes, les traductions ne sont qu’une interprétation possible du texte de départ et, par conséquent, elles n’ont pas l’unicité de ce dernier. (Monti 2011: 15-16)

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La caducità e l’invecchiamento delle traduzioni sarebbero da imputare in prima istanza a fattori linguistici, sui quali influisce il rapporto diverso che il testo di partenza e quello di arrivo instaurano con la distanza temporale che li separa dal lettore-trice, come nota anche André Topia:

l’expérience de la lecture montre que, sans qu’on puisse toujours se l’expliquer, on accepte souvent mal dans la traduction ce qui dans l’original n’est jamais mis en question.

[…] la notion de décalage temporel n’a pas le même sens selon qu’il s’agit de l’original et ou de la traduction. (1990: 45)

Individuando in questo diverso rapporto temporale il nodo centrale, Topia (1990: 46-47) mostra come la relatività temporale della lingua dell’Ulysses di James Joyce, ad esempio, sia inscindibile dal “lien organique”, il legame organico, che la lega all’evoluzione della scrittura di Joyce, da una parte, e alle trasformazioni della letteratura inglese all’inizio del Novecento, dall’altra. Questa interazione “organica” è esattamente ciò che manca alla traduzione, secondo lo studioso: mentre l’opera si colloca e si muove continuamente all’interno di una rete di interazioni diacroniche e sincroniche, in cui ogni nuova lettura e prospettiva diacronica non può essere separata dalle connessioni sincroniche stabilite al momento della sua comparsa, la traduzione è immobile. Rovesciando la prospettiva, Topia afferma così, paradossalmente, che l’opera cambia e rimane aperta a mutazioni future, a differenza della traduzione: “alors que l’œuvre ne cesse de se déplacer imperceptiblement en fonction des changements de perspective qu’entraîne l’évolution historique, la traduction est figée dans un temps verrouillé une fois pour toutes” (Topia 1990: 46). La lingua del testo di partenza sembra quindi avere una sua specificità, è la voce di quell’autore-trice e di quel testo, mentre la lingua della (ri)traduzione è il frutto di una specifica interpretazione, legata a un determinato momento storico e sociale, e tende spesso a essere normalizzata e standardizzata per favorire la comunicazione e la leggibilità. Un’eccessiva attualizzazione linguistica, che nel tentativo di svecchiare la lingua e avvicinare l’opera a chi legge finisce per non rispettare la cifra stilistica e linguistica di quel dato autore-trice e di quel dato testo, rischia di far invecchiare la traduzione in tempi ancora più brevi. La scelta di storicizzare la lingua si rivela, del resto, altrettanto controproducente nella misura in cui sfocia in una lingua artificiale, di cui si ha una conoscenza libresca. Le traduzioni che invecchiano meno – o meglio – sono proprio quelle in cui chi traduce non ricorre a una lingua eccessivamente moderna e riesce a mantenere quel sapore e colore d’altri tempi.

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Ladmiral (2011) si mostra scettico nei confronti dell’idea che le traduzioni “invecchino”, sottolineando come non sia tanto la traduzione a invecchiare quanto il nostro rapporto con essa, vale a dire la lettura che ne facciamo (31). Sebbene l’invecchiamento delle traduzioni sia legato alla dimensione diacronica delle lingue, lo studioso evidenzia infatti come a cambiare non sia la lingua in cui è scritta una traduzione, ma più propriamente gli usi linguistici e la nostra sensibilità letteraria, portatrice a sua volta di una serie di implicazioni culturali e rapporti intertestuali (Ladmiral 2011: 39-40). L’evoluzione diacronica, storica e culturale di due lingue segue inevitabilmente percorsi diversi, invalidando le condizioni che hanno permesso di stabilire le delicate equivalenze tra un testo di partenza appartenente a una lingua-cultura di origine e il testo di arrivo delle traduzioni all’interno della lingua-cultura ricevente: “Concrètement […] les traductions sont directement tributaires des états de langue au sein desquels elles s’attachent à mettre en œuvre leur médiation” (Ladmiral 2011: 40; corsivo originale).

Oltre alla lingua, cambiano anche i mezzi (tecnologici) a disposizione di chi traduce, strumenti che offrono oggi possibilità precluse in passato e che si accompagnano al miglioramento generale delle competenze linguistiche di traduttori e traduttrici in seguito alla professionalizzazione dell’attività. Se questi miglioramenti, tecnologici e linguistici, non determinano automaticamente una traduzione migliore, contribuiscono tuttavia, al pari di un’analisi critica più approfondita, a una migliore comprensione del testo di partenza (Monti 2011: 16). Infine, le norme traduttive, “ces contraintes socioculturelles qui influencent profondément l’activité de traduction et ses résultats” (Monti 2011: 16), sono essenziali nell’evoluzione della pratica traduttiva e ritraduttiva. I cambiamenti di tali norme rendono obsolete e “fastidiose” per il lettore alcune pratiche e scelte traduttive perfettamente accettate, e accettabili, in passato.

Altre circostanze che spingono alla ritraduzione sono poi la volontà di offrire una nuova prospettiva al testo, mettendone in luce aspetti non considerati o non adeguatamente valorizzati nelle versioni precedenti, e un cambiamento di skopos, che dà origine a (ri)traduzioni-adattamenti, come quello dei classici per adulti adattati per il pubblico più giovane, o a riscritture militanti. Alle motivazioni elencate da Monti si può infine aggiungere il caso specifico della ritraduzione dei “marginal texts” – quei testi che occupano una posizione periferica rispetto ai canoni letterari nella cultura ricevente – alla cui base si trova spesso una precisa agenda politica e culturale: la scelta di ritradurre un autore-trice e un testo è dettata da motivazioni ideologiche che determinano il ricorso a

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specifiche strategie traduttive finalizzate a canonizzare l’opera in questione attraverso la nuova interpretazione fornita (Venuti 2013 [2004]: 98).

Una delle concettualizzazioni teoriche centrali nella riflessione sulle modalità in cui prende vita la ritraduzione, sebbene successivamente contestata, è la cosiddetta retranslation hypothesis, “l’ipotesi della ritraduzione” o “l’hypothèse de la retraduction”, avanzata da Paul Bensimon e Antoine Berman nel 1990. Secondo questa ipotesi, la ritraduzione sarebbe un movimento progressivo di avvicinamento, di traduzione in traduzione, verso il testo di partenza: la prima traduzione serve sostanzialmente a introdurre il testo nella cultura ricevente, e pertanto sarà una traduzione “addomesticante”, che adatterà l’opera alla lingua e alla cultura di arrivo; le traduzioni successive sono invece portate a mostrare quanto di estraneo, straniero e esotico è contenuto nel testo di partenza, e sono quindi “estranianti” (Bensimon 1990: ix-x; Berman 1990). Le ritraduzioni sarebbero pertanto sempre più sourcières, più source-oriented, rispetto alle prime traduzioni:

le retraducteur […] ne refuse pas le dépaysement culturel : mieux, il s’efforce de le créer. […] La retraduction est généralement plus attentive que la traduction-introduction, que la traduction-acclimatation, à la lettre du texte source, à son relief linguistique et stylistique, à sa singularité. (Bensimon 1990: ix-x)

La ritraduzione nasce allora dalla necessità di ridurre la “défaillance originelle” (Berman 1990: 5) che grava su qualsiasi traduzione. Ne consegue che “dans ce domaine d’essentiel inaccomplissement qui caractérise la traduction, c’est seulement aux retraductions qu’il incombe d’atteindre – de temps en temps – l’accompli” (Berman 1990: 2). Berman (1990: 2-3) introduce inoltre la nozione di “grandes traductions”, le “grandi traduzioni” sottratte alla caducità che affligge normalmente le traduzioni e in grado di durare nel tempo. Tra le caratteristiche che contraddistinguono la “grande traduzione” vi è quella di essere sempre una ritraduzione, che non solo costituisce un “précédent incontournable” (Berman 1990: 3) per l’attività traduttiva presente o futura, ma crea anche uno stretto legame con il testo di partenza, riproducendone le specificità linguistiche, stilistiche e culturali. Per Berman, la “grande traduzione” è quindi una (ri)traduzione “accomplie” (Berman 1990: 5), mentre secondo Ladmiral (2011: 41) è in grado di sottrarsi all’effetto del tempo semplicemente perché ha assunto lo status di “testo originale” all’interno della cultura ricevente, ed è in grado di fungere da riferimento indipendentemente dall’originale di cui è la traduzione.

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Tra le critiche mosse all’ipotesi della ritraduzione vi è certamente quella di essere troppo riduttiva e semplicistica, a fronte di un fenomeno complesso. In merito all’ipotesi bermaniana, Gambier (2011) osserva ad esempio come questa implichi

une vision téléologique des retraductions (avec des premières traductions toujours défectueuses, ciblistes), une vision aussi logocentrique (même s’il y a allusion au traducteur, c’est l’état des textes qui demeure central) et une vision immanente du sens – comme si les traducteurs pouvaient se débarrasser ou faire fi des interprétations postérieures à l’œuvre même, comme s’ils pouvaient faire une lecture non idéologique, non culturelle d’un sens, d’un style, prétendument stables. (58-59)

Secondo Gambier (2011: 59), inoltre, la ritraduzione, in quanto interpretazione, non può consistere in un ritorno lineare, diretto ad avvicinarsi sempre di più al testo di partenza. L’interpretazione cambia perché anche il testo di partenza può cambiare, ad esempio con la pubblicazione di una nuova edizione critica, e perché un’opera può occupare un posto diverso all’interno del sistema ricevente. L’ipotesi avanzata da Berman presenta dunque una serie di limiti: è basata sulla distanza cronologica ed è costruita su un numero ridotto di esempi, che fanno riferimento ad autori canonizzati, e su un approccio micro-testuale che ignora le condizioni socio-culturali che sono all’origine della ritraduzione. Nonostante questi limiti evidenti, costituisce comunque una prima teorizzazione su un problema complesso, al quale la ricerca si sta avvicinando sempre più (Gambier 2011: 59).