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2.1 Genere e traduzione: storia, teorie e pratiche traduttive

2.1.3 La traduzione femminista tra teoria e pratica

La traduzione femminista, come dimostrano il lavoro di recupero del contributo delle traduttrici nel corso della storia da una parte, e la denuncia della misoginia sottesa nella

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visione tradizionale della traduzione e la conseguente riscrittura di miti e metafore dall’altra, è in grado di creare alternative non solo nelle rappresentazioni, ma anche nei rapporti di potere che la traduzione implica. Come sottolinea Santaemilia (2011: 61),

[o]ne of the greatest potentialities of feminist translation is that it generates positive rewritings of women’s attitudes, bodies and texts. Both feminist translation theory and practice are empowering women as translators and creators, […] women and translation are no longer subordinated terms, but rather growing sites of alternative textual/sexual power. (corsivo originale)

La traduzione femminista offre una cornice critica in cui è possibile non solo inquadrare, ma anche palesare e rivelare i rapporti di potere messi in campo dall’attività traduttiva, tanto a livello teorico quanto sul piano pratico, e la componente ideologica insita in ogni atto traduttivo. La traduzione femminista si prefigge di riconcettualizzare le nozioni di identità, testo, autore/autorità, scrittura. Barbara Godard (1990) assimila traduzione femminista e “feminist discourse”, il discorso femminista, come pratiche di emancipazione che passano attraverso una trasformazione del testo per dare spazio al femminile: “[a]s an emancipatory practice, feminist discourse is a political discourse directed towards the construction of new meanings and is focused on subjects creating themselves in/by language. […] feminist texts generate a theory of the text as critical transformation” (88). La traduzione femminista, come pratica di emancipazione, cerca di fornire alle donne un modo per riappropriarsi del testo e del discorso al fine di dare spazio alle loro esperienze. Godard teorizza quindi la traduzione come “transformance” il cui focus è “on the process of constructing meaning in the activity of transformation, a mode of performance” (1990: 90). La traduzione, come la scrittura femminista, è ri-lettura e ri- scrittura. L’idea di traduzione come trasformazione e performance si situa agli antipodi dell’idea tradizionale di traduzione come equivalenza e trasparenza: “feminist discourse presents transformation as performance as a model for translation. […] this is at odds with the long dominant theory of translation as equivalence grounded in a poetics of transparence” (Godard 1990: 91). Le nozioni di equivalenza e trasparenza vengono ulteriormente “sfidate” e sovvertite dall’idea della traduttrice come partecipante attiva nella costruzione del significato, il cui emblema è il concetto di “womanhandling”, la manipolazione al femminile del testo e la visibilità dell’intervento di chi traduce:

The feminist translator, affirming her critical difference, her delight in interminable re- reading and re-writing, flaunts the signs of her manipulation of the text. Womanhandling the text in translation would involve the replacement of the modest, self-effacing translator. Taking her place would be an active participant in the creation of meaning who advances a

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conditional analysis. […] The feminist translator immodestly flaunts her signature in italics, in footnotes – even in a preface. (Godard 1990: 94, corsivo originale)

Dalle parole di Godard emergono quindi almeno altri due aspetti fondamentali che caratterizzano la teoria della traduzione femminista e che si riverberano nella pratica traduttiva concretizzandosi testualmente: l’appropriazione e la manipolazione del testo e la visibilità testuale e paratestuale rivendicata dalla traduttrice femminista. In entrambi i casi, si assiste a una rimessa in discussione, già evidenziata dalla critica della metaforizzazione sessuale della traduzione, di alcuni concetti fondamentali, come identità, autorialità e autorità. La traduttrice femminista reclama infatti una nuova “autorità” come produttrice di testi e non come mera riproduttrice, assegnando al lavoro di chi traduce un’autorità simile a quella dell’autorialità:

Le féminisme amène à pratiquer la traduction comme prise de parole politique et à revendiquer sa reconnaissance comme activité créatrice légitime ayant une signataire dont le travail n’est pas entièrement soumis à l’auteur-ité de l’œuvre d’origine. (On touche ici aux rapports de force entre la production et la re-production.) En se posant comme sujet de la traduction, les traductrices féministes contredisent le discours mâle qui a habituellement assimilé le rapport auteur-traducteur à celui de maître-esclave, et font des rapports avec l’auteure un travail de collaboration entre co-créatrices. (Lotbinière-Harwood 1991: 22-23)

Per Susanne de Lotbinière-Harwood quindi la traduzione è non solo una pratica di riscrittura al femminile, ma anche un vero e proprio processo di co-creazione. Consapevole che non esiste traduzione che sia neutra, ideologicamente libera e non connotata – “Traduire n’est jamais neutre. C’est l’acte d’une subjectivité à l’œuvre dans un contexte socio-politique précis” scrive la traduttrice (Lotbinière-Harwood 1991: 27, corsivo originale) – e sottolineando la dimensione politica della traduzione femminista, “véritable outil politique” (Lotbinière-Harwood 1991: 27), Lotbinière-Harwood concepisce la traduzione come presa di parola politica non interamente sottoposta all’autorità e all’autorialità del testo originale. Svincolata dall’autorità del testo originale, la traduzione come pratica di riscrittura al femminile può farsi attività veramente creatrice. La traduzione è un luogo di potere dove si negoziano i rapporti tra produzione e riproduzione, uno spazio da investire per rendere il femminile visibile nella lingua e nel mondo:

la traduction comme pratique de réécriture au féminin ne cache pas son jeu. Elle vise ouvertement à subvertir l’ordre patriarcal qui réduit les femmes au silence, et elle le fait en inventant des stratégies langagières inspirées du féminisme qui, par l’entremise du féminin, contribuent à rendre les femmes visibles dans la langue et par le fait même dans le social. (Lotbinière- Harwood 1991: 28)

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Secondo Santaemilia (2011), il rapporto delle traduttrici femministe nei confronti dell’autorità è ambiguo. Da una parte, queste traduttrici reclamano uno status autoriale come autrici, scrittrici, creatrici o produttrici “originali”, dall’altra le studiose e gli studiosi femministi adottano una “hermeneutics of suspicion” che sfida ogni esercizio di autorità. Inoltre, prosegue lo studioso, le teorie post-strutturaliste e decostruzioniste hanno portato a un’erosione e destabilizzazione di concetti patriarcali, tra i quali anche autorità e originalità, che, paradossalmente, hanno permesso alle traduttrici femministe di riaffermare il loro potere sul testo (Santaemilia 2011: 63). Santaemilia conclude quindi che

[w]hat seems to be at stake […] in feminist translation is a struggle for power and authority, which is instantiated in the translator’s appropriation of the source and target texts, of “original” and “translation”. Women translators claim a very new textual/sexual authority over language and discourse; for them, translation becomes a legitimizing process which accords them social power, cultural prestige and authorial status. (2011: 63)

Insistendo sull’idea di “pluralisme de l’autorité” mutuata dalla filosofa e teologa Lytta Basset, Jane Wilhelm (2014) sottolinea come le teoriche femministe della traduzione cerchino di ripensare il legame tra testo di partenza e testo d’arrivo, tra maschile-dominante e femminile-subalterno, e di creare un rapporto alternativo, non gerarchico all’interno de “cet espace privilégié de rencontre qu’est la traduction” (Wilhelm 2014: 178). Secondo la studiosa, l’etica delle traduttrici femministe è guidata dalla rivendicazione “d’une autorité qui autorise, l’autorisation n’étant pas à leurs yeux hiérarchique, mais mutuelle” (Wilhelm 2014: 182, corsivo originale). La traduzione diventa, come già sottolineato, incontro, collaborazione tra “co-créatrices” (Lotbinière- Harwood 1991: 23), tra autore-trice e traduttore-trice, che lavorano insieme o cooperando, o in modo sovversivo (Chamberlain 1988: 470). Wilhelm osserva anche come questa sovversione dei rapporti gerarchici tradizionali e acquisiti rafforzi l’idea della traduzione come negoziazione:

[l]a remise en cause de l’autorité au sein du système patriarcal, comme celle des rapports hiérarchiques entre les deux pôles de l’original et de sa traduction, pour les traductrices féministes, ouvre sur un espace de négociation au profit d’une dynamique de “l’entre-deux”. (2014: 179, corsivo originale)

In questo spazio “intermedio” vengono negoziati tanto il significato del testo tra la lingua di partenza e di arrivo quanto i rapporti tra maschile e femminile, e la traduzione diventa il luogo in cui si ci può aprire all’altro riconoscendone l’alterità (Wilhelm 2014: 179).

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La manipolazione e la “visibilità” di chi traduce sono segni, tracce testuali tangibili e concrete di un’idea diversa di concepire la traduzione, l’autori(ali)tà, l’originalità, in ultima istanza la fedeltà e l’equivalenza al testo di partenza su cui è stata basata per secoli non solo la pratica traduttiva, ma anche l’elaborazione teorica. Come già sottolineato a proposito delle metafore utilizzate per descrivere e definire il processo traduttivo, la traduzione femminista rimette in causa e sfida apertamente il concetto di fedeltà e le idee di trasparenza, oggettività ed equivalenza ad esso connesse, relativizzandole:

Each polar element in the translating process is construed as an absolute, and meaning is transposed from one pole to the other. But the fixity implied in the oppositions between languages, between original/copy, author/translator, and, by analogy, male/female, cannot be absolute; these terms are rather to be placed on a continuum where each can be considered in relative terms. (Simon 1996: 12)

Sottratta alla rigidità e alla fissità della polarizzazione, la traduzione diventa quindi possibilità, sperimentazione, pluralità, serialità, proliferazione, concetti più fluidi e problematici (cfr. Santaemilia 2011: 66-67). Come nota Santaemilia (2011), “curiously, feminist translation does not reject ‘fidelity’ altogether, but posits instead a very problematic notion: feminist translators are committed simultaneously, to production and reproduction, to manipulation and fidelity” (67). Le teoriche della traduzione femminista declinano quindi variamente il concetto di “fedeltà”. Per Arrojo (1994) di fronte all’instabilità del significato, all’impossibilità di una traduzione definitiva e assoluta, l’unica forma di fedeltà a cui chi traduce può far riferimento è quella alla propria comunità culturale e ideologica di appartenenza:

the only kind of fidelity we can possibly consider is the one we owe to our own assumptions, not simply as individuals, but as members of a cultural community which produces and validates them. […] If meaning cannot be intrinsically stable, if every meaning is always already a translation that fails to protect that which could be called an “origin” and, therefore, if it cannot be forever “attached” to our writings, readings or translations, then any other kind of fidelity is but an illusion. (Arrojo 1994: 160)

In modo simile, Simon (1996) elabora un concetto di fedeltà non nei confronti dell’autore- trice o del lettore-trice, ma verso il progetto di scrittura, e quindi di traduzione:

feminist translation thus reframes the question of “fidelity”, which has played like a stultifying refrain through the history of translation. For feminist translation, fidelity is to be directed toward neither the author nor the reader, but toward the writing project – a project in which both writer and translator participate. (2)

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Per von Flotow (1997), invece, “[f]eminist translators are less concerned with the final product and its equivalence or fidelity than with the processes of reading, rereading, rewriting, and writing again, and with issues of cultural and ideological difference that affect these processes” (48).

In questa nuova visione della fedeltà, la manipolazione del testo diventa creazione e viene rivalutata positivamente. La traduttrice rompe quindi con la sua supposta neutralità e invisibilità e dissemina il testo della sua presenza. In “Feminist Translation: Contexts, Practices and Theories”, Luise von Flotow (1991) classifica le pratiche e le tecniche femministe di intervento sul testo in tre categorie: “supplementing”, “prefacing and footnoting” e “hijacking”. Le diverse strategie di intervento, vale la pena ricordarlo, erano strettamente legate alle peculiarità dei testi su cui le traduttrici femministe hanno inizialmente “costruito” la propria attività, vale a dire testi caratterizzati da una sperimentazione linguistica con una forte connotazione ideologica. Nel caso del “supplementing” o compensazione, l’obiettivo è quello di compensare le differenze tra lingue, soprattutto nella traduzione di neologismi e giochi di parole legati alle donne. A livello linguistico, si realizza generalmente attraverso la femminilizzazione o la disambiguazione del genere.

Il ricorso a prefazioni, introduzioni e note è il mezzo attraverso il quale la traduttrice femminista segna nel modo più visibile ed esplicito la propria presenza nel testo. Questi spazi peritestuali diventano il sito privilegiato per le traduttrici per riflettere sul loro lavoro, soprattutto nelle prefazioni, e per sottolineare la loro presenza “attiva” nel testo e nel processo traduttivo, in particolare attraverso l’inserimento di note. Le prefazioni e le note possono anche svolgere una funzione “didattica”, diventando il luogo in cui riflettere su problemi di natura linguistica, richiamare l’attenzione su termini e concetti particolarmente rilevanti e significativi in un’ottica femminista, mettere in luce aspetti culturali, ideologici, storici, sociologici e riferimenti intertestuali, fornire una lettura e un’interpretazione femministe del testo di partenza e di arrivo (von Flotow 1991; Delisle 1993). In particolare, Delisle (1993) nota come le indicazioni su come leggere e interpretare i testi non derivino da preoccupazioni di natura esclusivamente letteraria, ma siano anche e soprattutto “des manifestations concrètes d’un militantisme féministe qui porte spontanément les traductrices à amplifier l’aspect didactique de leur travail” (217). A proposito della presenza delle traduttrici femministe negli spazi paratestuali, Santaemilia (2011: 70) sottolinea come il loro uso sia radicalmente diverso da quello che ne facevano le traduttrici del Settecento. Se quest’ultime nelle prefazioni si lamentavano

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delle difficili circostanze che le avevano costrette a intraprendere l’attività traduttiva, le traduttrici femministe se ne sono appropriate come luogo di affermazione della propria voce: “feminist translators have transformed this apologetic space into a site of contestation and reinforcement of feminist tradition” (Santaemilia 2011: 70).

L’ultima strategia di intervento e manipolazione del testo, l’“hijacking” può essere considerata la più radicale e sovversiva. La traduttrice si appropria infatti del testo di partenza, usandolo per i propri scopi e “piegandolo” alle proprie esigenze, incorporando, ad esempio, una componente femminista anche quando era assente o poco visibile nel testo di partenza. La traduzione diventa quindi concretamente uno strumento politico, motore di cambiamento sociale, inscrivendo la voce e l’esperienza femminile nel testo e nella lingua, rendendo il femminile visibile e riscattandolo dalla sua subalternità.

Come nota Sardin (2009b: 17), “les enjeux d’une traduction dite ‘féministe’, à la fois divers et complexes, débordent largement les objectifs de cette même traduction dite ‘féministe’”. La traduzione femminista mira infatti a rompere la visione binaria e dicotomica che tende a categorizzare, dividere, escludere, a ridurre la complessità, per fare della traduzione il luogo della molteplicità e della proliferazione. Nell’interrogarsi sull’apporto delle queer theories alla riflessione su genere e traduzione, Luise von Flotow (2012) sottolinea ad esempio come la “performance theory” possa essere utile a quegli studiosi/e che considerano la traduzione come “a deliberate and intentional act carried out between discourses” (134). Secondo von Flotow, infatti, “[t]ranslations allow various performances of a text; they foment differences in these performances – from one language to many others but also from one language to many versions of another” (134). Inoltre, applicando alla traduzione il concetto di “metramorphosis” elaborato dalla psicanalista Bracha Ettinger, la studiosa esalta ulteriormente la natura plurale e generativa della traduzione. Come attività metramorfica la traduzione permette un’espansione e uno sviluppo del significato. Nell’atto traduttivo si instaura così un rapporto di incontro, scambio, trasformazione reciproca, che tenta di rispondere a uno degli interrogativi recenti degli studi sulla traduzione, vale a dire come riconoscere, accogliere e valorizzare la differenza e l’alterità nel testo tradotto senza appropriarsene (von Flotow 2012: 138). Questa idea di incontro con l’Altro, si innesta poi su una concezione della “matrix”, l’utero, la matrice, come luogo in cui il significato viene prodotto e trasferito, il che comporta, secondo von Flotow, un’idea generativa, produttiva della traduzione in un rapporto di interdipendenza con l’ambiente e il contesto circostante:

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[Translation] is not a labour that must end in the deterioration, dereliction, or final replacement of the original. Instead, it evokes a very broad view of a generative, female component in human enterprise and activity, long decried as “merely reproductive”, yet theorized today as creative, productive, generative and based on interdependence, tolerance of difference, and communication. In other words, what counts are not borders, but interaction and interdependence. (von Flotow 2012: 138)

L’idea della traduzione come attività metramorfica ne fa un luogo adatto per accogliere ed esaltare l’alterità e le differenze, elementi con i quali la traduzione deve, da sempre, fare i conti.

La traduzione femminista sovverte i rapporti gerarchici per lasciare spazio a un altro modo di dire, fare, vedere e sentire. In questa sovversione e ridefinizione dei rapporti gerarchici in traduzione, Wilhelm (2014: 161) fa rientrare anche l’auto-traduzione praticata da alcune scrittrici femministe come Nancy Huston. L’auto-traduzione rimette infatti profondamente in discussione non solo i rapporti tra testo di partenza e di arrivo, ma anche il concetto stesso di lingua madre e la contrapposizione con la lingua straniera:

Si certaines féministes, telle l’écrivaine Nancy Huston, conçoivent la traduction comme inhérente à leurs démarches, elles la redéfinissent toutefois en interrogeant les relations entre “production” et “reproduction”, qui instaurent des rapports de pouvoir liés au genre […]. L’auto-traduction dans les deux sens, chez Nancy Huston, vient cependant subvertir les rapports de dépendance hiérarchique entre l’original et la traduction, ainsi que l’opposition entre langue maternelle et étrangère ou identité et altérité. Dans sa pratique même de l’auto- traduction, tout comme dans un essai intitulé “Traduttore non è traditore”, Nancy Huston nous invite à nous interroger sur nos pratiques et nos représentations à la fois de l’écriture et de la traduction, ainsi que sur l’idée même de langue maternelle […]. Si la traduction se confond avec l’original dans l’écriture entre les langues, c’est l’écrivain qui traduit, nous dit- elle en renversant la hiérarchie traditionnelle. (Wilhelm 2014: 161)

La riflessione della teoria femminista della traduzione attorno al concetto di fedeltà, centrale in buona parte degli studi traduttologici, ha messo in luce una diversa etica della traduzione, ha ridefinito i rapporti tra i testi (di partenza e di arrivo), ha dato visibilità a chi traduce. Se nelle sue forme più radicali la traduzione femminista mira a trasmettere il pensiero femminista, appropriandosi del testo di partenza e manipolandolo, anche mitigandone gli obiettivi e l’impatto testuale, è innegabile che

[l]a théorie féministe en traduction nous a sensibilisés aux rapports de pouvoir et aux conflits qui sous-tendent toute activité de traduction, nous informant des pratiques hégémoniques qui contribuent à des desseins idéologiques. Aussi la rencontre de la traductologie et de la pensée féministe s’est-elle révélée particulièrement fructueuse en ouvrant de nouvelles perspectives théoriques et pratiques, en particulier en relation avec la question de l’éthique en traduction. […] l’évolution actuelle des sociétés remet en question les acquis du mouvement féministe depuis les années 1970, et la traduction, en mettant au jour des enjeux de pouvoir, peut apporter de nouveaux éléments dans les débats autour de la question du rapport au pouvoir et celle de la violence de la tradition patriarcale. (Wilhelm 2014: 160)

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La denuncia della dimensione ideologica della traduzione e dei rapporti di potere rimane quindi uno degli apporti maggiori della riflessione femminista e uno degli strumenti che possono essere utilizzati anche al di fuori di ambiti strettamente traduttologici. Proprio in questa dimensione di denuncia risiede il punto di partenza per un’analisi della traduzione per l’infanzia da una prospettiva di genere. Così come parte della ricerca su genere e traduzione si è dedicata all’analisi delle traduzioni e delle pratiche traduttive, tanto in prospettiva diacronica quanto in ottica sincronica, allo stesso modo la traduzione destinata al pubblico più giovane può essere analizzata da un punto di vista di genere. Come ha dimostrato il lavoro condotto dalla critica femminista e dagli studi di genere sulla letteratura per bambine e bambini e per ragazze e ragazzi, in questa produzione permangono rappresentazioni di genere fortemente stereotipate e asimmetriche. Ci si può quindi chiedere cosa accada nel caso della letteratura per l’infanzia tradotta nel passaggio da una lingua-cultura di partenza a una lingua-cultura di arrivo.