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LA SITUAZIONE A POMPEI PRIMA DELL’AUTONOMIA: 1982-1996

3. STORIA DELL’AUTONOMIA MUSEALE IN ITALIA

3.2 LA SITUAZIONE A POMPEI PRIMA DELL’AUTONOMIA: 1982-1996

Come tutte le soprintendenze prima delle più recenti riforme, la soprintendenza di Pompei si occupava di tutte le attività correlate al patrimonio culturale di cui era titolare: tutela del territorio (attività cruciale data la vastità dell’area archeologica, estesa per circa 49 ettari, e la varietà culturale presente al suo interno) (Longobardi, Mandara, 1996-2000), attività di ricerca (nel ‘700 questo sito vide nascere quella che poi sarà la moderna disciplina archeologica)(Zan, Paciello 1998), attività di manutenzione, conservazione e restauro, fruizione.

Negli anni precedenti alla riforma del 1997, le attività sopracitate avevano goduto di un basso grado di coordinamento e di una mancanza di continuità, con un’azione volta alla ricerca e allo scavo che sovrastava nettamente le attività legate al restauro. Questo stato delle cose aveva portato la superficie visitabile a diminuire drasticamente rispetto al passato non garantendo, però, una qualità di visita adeguata.

Nel 1997 Pompei era il museo italiano più visitato al mondo con oltre 2 milioni di visitatori. Tale dato risultava in costante crescita sin dal 1994, pur non coadiuvato da recensioni positive circa l’esperienza di visita presso il Parco Archeologico. Lo stesso personale della soprintendenza, all’interno della mobilitazione che poi portò alla riforma del 1997, lamentava grosse carenze igieniche e incuria verso il patrimonio presente scrivendo come “Fusti di ginestre e di ailanti... giunti al diametro di 30 centimetri, documentati fotograficamente in situ e ora, dopo la bonifica, conservati come reperto... testimoniano botanicamente di un abbandono ultratrentennale nella lotta alle erbe infestanti».

Un dato in crescita non correlato all’implementazione o alla pianificazione di sistemi integrati di offerta culturale, una delle storiche carenze dell’attività della Soprintendenza, quanto alla storica fama del sito. Dal punto di vista quantitativo, oltre che qualitativo, Maiuri (1997), uno dei collaboratori nella stesura del Piano per Pompei, scriveva di un passaggio da 64 edifici visitabili (nel 1956) al numero di 16 edifici, tra ville e domus, esperibili nel 1997.

Questa incresciosa mancanza di attenzione alla qualità della visita a Pompei era stata determinata da numerosi fattori occorsi durante la più recente storia del sito.

Alla citata mancanza di programmazione pluriennali circa le attività si univa una mancanza di coscienza delle reali necessità del sito, con attività di scavo che assorbivano gran parte delle risorse e non permettevano un’efficacia azione di tutela e conservazione del patrimonio già emerso. Un’ulteriore fattore, sempre più aggravatosi negli anni della gestione della Soprintendenza, riguardava la cogente questione del personale.

Nell’attenta analisi che Zan e Paciello (1998) hanno condotto, è palese la totale mancanza di cognizione delle reali necessità organiche dell’apparato gestionale, con una conseguente disomogeneità nella distribuzione degli incarichi e delle mansioni, quasi al limite del ridicolo.

Un esempio chiaro e semplice della stortura occupazionale all’interno della Soprintendenza riguarda il numero di custodi: 423 nel 1997, con 228 addetti ad altre occupazioni, di cui ben 87 unità operaie e solo 77 figure tecniche, con oltre 120 figure amministrative. Un sorriso amaro strappa il dato sulla presenza di 34 dattilografi all’interno delle figure amministrative: dattilografi presenti sicuramente in eccesso rispetto alla quantità necessaria in un’epoca in cui, nel resto del mondo, si muovevano i primi decisi passi verso la digitalizzazione che ora è parte fondamentale della gestione del patrimonio culturale. In particolare, l’esiguo numero di maestranze specializzate richiede, quasi intrinsecamente, il ricorso a servizi esterni di restauro: questo, oltre a rappresentare una fonte di costo non secondaria, impedisce alla Soprintendenza di formare, e soprattutto trattenere, personale competente, e magari giovane, al proprio interno.

Altri fattori che determinava un desolante stato dell’arte erano “la miseria intellettuale” (Bettini, 1998) più volte lamentata sulla carta stampata, e il concorso di fattori naturali che avevano causato tragedie quali il terremoto del 1980 (D’Agostino, 2014).

Catastrofi naturali che, se da un lato, avevano contribuito alla notorietà e alla suggestione creata dal sito, dall’altro non favorivano un’azione di tutela dello stesso, soprattutto se in concorso con quello che viene ritenuto il maggior fattore di degrado per il sito: l’assurda composizione del personale.

Un personale con basso grado di specializzazione e competenza, poco dinamico nella propria composizione e assolutamente non nella posizione per poter garantire al sito, e

alla Soprintendenza, un patrimonio di know-how utile alla creazione di attività di gestione virtuose e a lungo termine.

Anche nel caso di semplici supporti alla visita, come in un’ottica di collaborazione con gli istituti scolastici, al fine di armonizzare i flussi dei visitatori e permettere una conoscenza più ampia dell’intera area archeologica, la Soprintendenza doveva necessariamente ricorrere al conferimento di questi servizi a esterni.

In una realtà enorme come quella pompeiana, con 23 comuni insistenti nell’area circumvesuviana e con la gestione di 4 aree archeologiche (Pompei, Ercolano, Oplontis e Stabia), questo ricorso alle competenze esterne diveniva impervio e sicuramente molto costoso.

Un problema analogo a quello manutentivo si poneva: se da una parte l’esternalizzazione di determinati servizi, fondamentale nel mondo del museo contemporaneo, conferisce indubbi vantaggi, è altresì vero che questo conferimento dovrebbe limitarsi, per quanto possibile, ad attività più commerciali (servizi di ristorazione, bookshop, ecc.) piuttosto che concentrarsi su attività che quotidianamente incidono sulla qualità intellettuale della visita; tutto ciò al solo fine di poter creare un patrimonio di conoscenze e competenze condivise all’interno dell’organico stabile della Soprintendenza, patrimonio che potrebbe solo giovare alle prestazioni della macchina gestionale e dell’area archeologica più in generale. Si può quindi tracciare un primo assetto delle problematiche che hanno indotto il Ministro dei beni culturali a varare una legge mai emanata prima, seppur più volte invocata (Casini, 2016).

Tirando le somme dei problemi che affliggevano la realtà pompeiana prima del 1997, i giudizi negativi riguardo le esperienza a Pompei potevano essere ricondotti a:

a) In primis, una situazione di degrado e incuria accumulati nel corso del tempo, ben prima della creazione della Soprintendenza archeologica avvenuta nel 1981 con la legge n. 456; b) Il carattere “aperto” del patrimonio culturale da preservare e valorizzare: aperto sia alla visita sia, soprattutto, all’azione costante di agenti di degrado, non ultimo l’eclatante evento del terremoto del 1980, calamità che scatenò l’attenzione del governo sul sito e che, sicuramente, accelerò il dibattito politico-economico per la creazione della Soprintendenza. Un criterio emergenziale che rischia di accelerare dei processi da un punto di vista meramente formale-legislativo, perdendone di vista la qualità e la

consistenza all’interno del settore di riferimento (a questo proposito ci si chiede come mai un’azione del genere sia stata possibile solo in seguito a una grande calamità nonostante si conoscessero bene le potenzialità del sito e l’importanza di cui esso ha sempre goduto all’interno del panorama culturale mondiale);

c) Il susseguirsi di campagne di scavo, encomiabili dal punto di vista scientifico, che sembrano aver spostato l’attenzione dalla funzione di conservazione e valorizzazione del patrimonio già emerso ed esposto. Invero, non è mai auspicabile un’attività preponderante rispetto alle altre quanto, piuttosto, un equilibrio tra le attività di tutela, ricerca e valorizzazione;

d) All’interno della Soprintendenza archeologica spiccava l’assenza di personale tecnico in grado di fornire prestazioni di alto contenuto specialistico. L’allarmante squilibrio occupazionale tra figure con competenze generiche, quali custodi e operai, e figure con competenze tecniche non può non essere uno dei fattori che ha portato alla necessità di ricorrere al conferimento di alcuni servizi a esterni, con le conseguenze più volte richiamate sulla possibilità di costruire una progettualità intellettuale all’interno della Soprintendenza stessa.

e) Una mancanza di conoscenza riguardo lo stato delle risorse disponibili, siano esse umane o economiche. Più volte nel corso del dibattito sulla storia di Pompei sono emerse difficoltà nel mappare le risorse occupazionali a disposizione della Soprintendenza, difficoltà lamentate anche dagli stessi city manager (Gherpelli, 1999). Solo Zan e Paciello, con un magistrale lavoro di ricerca, hanno ricostruito il tessuto occupazionale e operativo della Soprintendenza. Una mancanza di conoscenza, e quindi coscienza, delle risorse getta ombre e dubbi sulle attività e sui risultati che è lecito aspettarsi dalle prestazioni di un’azienda di servizi come un parco archeologico.