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LA QUESTIONE DEL PERSONALE

4. LA RIFORMA DEL 2014

4.5 LA QUESTIONE DEL PERSONALE

“Cosa manca? Cosa resta da fare? Primo: occorre una decisione sulla questione del personale. I musei autonomi non gestiscono il personale. “

Con queste parole l’allora direttore della Reggia di Caserta, Mauro Felicori, interviene nel convegno dedicato alla discussione di un primo “bilancio gestionale del nuovo modello organizzativo dei grandi musei dello Stato”, primo e unico per la verità.

Le parole sono chiare, il “peccato originale” (Zan-Bonini Baraldi e Santagati, 2018) della riforma della Soprintendenza speciale di Pompei persiste.

La gestione delle risorse umane rimane in capo al Ministero che governa la contrattualistica legata all’intero personale, rallentando sensibilmente il percorso d’innovazione approntato con la riforma del 2014.

I musei autonomi si trovano a non poter disporre liberamente del proprio personale; il maggior centro di costo di ciascun museo non è gestito dal suo stesso direttore. I processi di reclutamento, assunzione e controllo sono esercitati dagli organi centrali del Ministero.

La lacuna non è trascurabile.

All’interno di un processo più volta votato e ispirato, sulla carta, a principi di efficacia ed efficienza, il processo di ottimizzazione delle risorse non può prescindere dalla selezione di personale altamente competente all’interno dell’istituzione museale governata.

Se i requisiti richiesti all’interno del primo bando di selezione dei grandi direttori entusiasmano, per un certo verso, in quanto a ricerca di competenze più presenti all’interno del mercato privato, improntate a competenze trasversali di carattere gestionale ed economico, senza trascurare la conoscenza storico artistica, ci si chiede perché un direttore “autonomo” non debba avere la parallela possibilità di ricerca determinate competenze, liberamente, all’interno del mercato del lavoro.

La retorica politica e settoriale ha più volte affermato l’importanza della settore culturale, soprattutto per il contesto italiano, come volano di sviluppo sia economico che sociale.

Un settore di sviluppo economico che non ha la possibilità di mobilitare il mercato del lavoro, se non attraverso concorsi pubblici fortemente accentrati che vengono implementati con tempi lunghissimi e che finiscono inevitabilmente per intasare alcuni settori di formazione (basti pensare all’ultimo concorso pubblico del Ministero per personale di vigilanza che ha visto un rapporto tra posti disponibili e domande di partecipazione di 1 a 200), è un settore che non viene messo nelle condizioni di poter operare al meglio.

Una selezione centralizzata del personale non permette alcune innovazioni.

In primis, è lecito sospettare che una selezione avvenuta solo in sede Ministeriale non permetta l’individuazione dei profili davvero funzionali allo stato dell’arte delle istituzioni museali. Un direttore che presidia la propria istituzione, che ne conosce le lacune e le potenzialità, avrebbe gioco facile nell’individuare le competenze necessarie per ottimizzare la resa del museo.

Ancora; all’interno dell’eterno rapporto tra settore culturale e settore dell’istruzione, della formazione accademica in particolare, un processo di reclutamento così centralizzato risulta deleterio anche dal punto di vista dell’offerta formativa. Le istituzioni accademiche si trovano a formare professionisti culturali spesso senza sapere quali possano essere le reali necessità del mercato del settore. Una costante dialettica tra i direttori delle istituzioni museali e le figure accademiche permetterebbe di profilare più nitidamente le competenze di cui la cultura italiana ha bisogno. A ciò si aggiunga che valutazioni di questo tipo aprirebbero praterie sulle possibilità di ulteriore formazione, sul “cosa manca” all’interno del settore culturale italiano, anche in una logica di continuo scambio e confronto con enti accademici internazionali.

Se il bando sopracitato nominava competenze particolari nel campo della comunicazione e del finanziamento collettivo, ci si chiede come mai un direttore non possa implementare unità operative in grado di specializzarsi su aree così determinanti anche per scopi di accountability e interazione con il proprio contesto territoriale e sociale.

Da questo punto di vista, il direttore della Fondazione Museo Egizio di Torino ha iniziato, nel 2018, una ricerca di competenze strategiche all’interno del settore del finanziamento collettivo.

Dal punto di vista della trasparenza e della gestione contabile appare contradditorio la necessità di redazione di un bilancio che non possa contemplare al proprio interno la fonte maggiore di costo per l’organizzazione. È evidente come a una volontà d’innovazione retorica, in questo caso, non sia succeduta l’implementazione degli strumenti necessari per operare in una direzione di reali attività innovative.

All’interno del “piano delle perfomance” redatto dal Ministero per il biennio in corso (2019-2021), per citare un esempio d’ambito ministeriale, vengono riportati alcuni dati sulla composizione del personale.

L’età media del personale ministeriale, quindi anche del personale dei musei autonomi, è di 56 anni. Questo dato permette alcune considerazioni sulle reali possibilità d’avvio di processi d’innovazione.

Come può una figura di 56 anni essere competente in questioni che riguardano la stretta attualità e che richiedono un’elasticità d’apprendimento importante? Qualora ciò avvenga, non è lecito immaginare che questo sia più classificabile nel campo delle felici eccezioni che della normale prassi?

A maggior ragione, sempre nella lettura dei dati presenti a pagina 6 del piano citato, se si integra il dato che vede una media di ore di formazione per ciascun dipendente di 3,03 ore.

L’importanza della continua formazione del personale, la creazione della Direzione Generale innovazione e ricerca e il dato che persiste è di una media di ore di formazione esperibile in meno di una mattinata.

Non bisogna poi gridare allo scandalo quando si solleva eco mediatica circa le relazioni sindacali burrascose instauratesi tra l’ex direttore Felicori e i sindacati di categoria, quando egli fu nominato direttore della Reggia di Caserta.

Un caso che salì alle onore delle cronache con la semplicistica definizione di un “direttore che lavora troppo”. Lo stesso direttore ha lamentato, a più riprese, una

situazione al suo arrivo di estremo isolamento istituzionale e di un substrato professionale poco incentivato (a questo proposito basti sottolineare che la Reggia di Caserta era parte della Soprintendenza di Napoli e che il Soprintendente vi si recava solo alcuni giorni della settimana).

La questione del personale, quindi, appare fondamentale.

All’interno della “cassetta degli attrezzi” di un qualsiasi manager non può non esserci la gestione delle risorse umane, con tutti i processi ad essa correlati.

Un’occasione mancata più volte nel corso delle riforme tentate all’interno del Ministero (Nacci, 2014).

“La prima delle questioni chiave per il futuro” secondo Felicori, parere condiviso da chi scrive.

5. I RISULTATI DELL’AUTONOMIA E IL