• Non ci sono risultati.

La « terra natale », mistificato paradiso terrestre

3.1 AIMÉ CÉSAIRE E FRANTZ FANON

3.1.2 La « terra natale », mistificato paradiso terrestre

La piccola Martinica, con i suoi 65 Km di lunghezza e i 31 di larghezza, l’origine vulcanica (testimoniata dalla presenza tutt’oggi di un vulcano ancora attivo e dalle numerose spiagge di lava nera), la rigogliosa foresta tropicale, il mare dei Caraibi, torrenti e cascate che lasciano spazio a numerosi bananeti, piante di ananas e piantagioni di canna da zucchero - stride nettamente con le immagini delle metropoli e dei grandi agglomerati urbani dei paesi occidentali. La discrepanza, magari meno netta, era sicuramente percepibile anche negli anni Venti-Trenta, quelli della giovinezza e della prima formazione politico-culturale di Frantz Fanon.

Il clima culturale e le trasformazioni socioeconomiche del periodo sono state ben descritte da Alessandro Aruffo nello studio da lui dedicato al medico-rivoluzionario nel 1994: nel clima dell’internazionalizzazione delle economie industrializzate e della conversione attuata dai paesi esportatori dei prodotti agricoli tropicali - dalla canna da zucchero e il tabacco, al caffè e al cacao - sotto l’occhio vigile degli Stati Uniti e dell’Europa « Bassi salari, scarsi investimenti infrastrutturali e impossibilità di promozione tecnologica bloccarono lo sviluppo » delle isole dell’arcipelago delle Antille che, dal punto di vista socioeconomico 181

Problematiche sulle quali si farà successivamente ritorno.

178

A. Césaire, Discorso sul colonialismo, cit., p. 51.

179

Cfr. J.-P. Sartre, Prefazione a F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. XLI.

180

Alessandro Aruffo, Fanon o l’eversione anticoloniale, in Alessandro Aruffo, Giovanni Pirelli, Frantz Fanon o

181

agli, inizi del XX secolo si presentavano « come una società creola, nata dalla dicotomia piantatori/lavoratori rurali » . Per quanto riguarda il caso specifico della Martinica, come ha 182 specificato ancora Aruffo:

« […] la stabilità coloniale si è tradotta in immobilismo politico e in una tendenza dominante al conformismo europeizzante da parte della società creola e dei neri. […] Distinzioni di razza e divisioni di classe si sovrappongono in un’isola il cui ceto intellettuale non lotta per l’indipendenza nazionale, ma per conseguire vantaggi dalla propria condizione di ceto “separato”. Conservando come epicentro coloniale d’integrazione qualificata Fort-de-France, l’intellettualità martinicana presenta i lineamenti di una piccola borghesia depoliticizzata, urbanizzata, incapace di proporsi come borghesia nazionale e caratterizzata da un processo di alienazione politico-culturale. Mentre si rafforza la “frontiera” sociale (più che razziale) e si erode la “frontiera” culturale, questa classe in formazione dimostra un’aspirazione a delegittimarsi in quanto “nera”, ad attenuare il proprio passato africano, a recidere le radici autoctone che la legano ad un passato di schiavitù, per affermarsi in quanto “francese” » . 183

L’analisi proposta da Aruffo del periodo compreso tra gli inizi del XX Secolo e la fine del Secondo conflitto mondiale contribuisce a far chiarezza e rafforza quanto denunciato da Fanon in Pelle nera, maschere bianche: dalla fascinazione per la whitness ai « processi di

lattificazione », arrivando al netto rifiuto di paragonarsi ai neri africani, da Fanon descritto e

osteggiato anche nel suo scritto Antillesi e africani pubblicato sulla rivista Esprit nel febbraio del 1955:

« Il funzionario metropolitano, di ritorno dall’Africa, ci ha abituati a dei cliché: le streghe, gli stregoni, il tam-tam, la cordialità, la fedeltà, il rispetto del bianco, l’arretratezza. Il dramma è che il funzionario antillese parla solo in questo modo dell’Africa e, poiché a far ciò non è solo l’amministratore delle colonie, ma anche il gendarme, il doganiere, il cancelliere, il militare, in tutti gli strati della società antillese si forma, si sistematizza e si concretizza un irriducibile senso di superiorità sull’africano. […] L’africano era un negro e l’antillese un europeo » . 184

A. Aruffo, Fanon o l’eversione anticoloniale, cit., p. 28.

182

Ivi, pp. 28-29.

183

Frantz Fanon, Antillais et Africains, in “Esprit”, febbraio, (1955); trad. it. Antillesi e africani, in Per la

184

Quando Fanon nel 1935 compie il suo decimo anno d’età, Aimé Césaire stava trascorrendo il suo quarto anno in Francia e in quel preciso anno mise nero su bianco, per la prima volta, il neologismo négritude.

Alle differenze paesaggistiche sopra accennate tra la caraibica Martinica e la moderna Francia del periodo, si aggiunga il particolare e vivacissimo clima culturale che rese la capitale francese una vera e propria “calamita” per le personalità di spicco del mondo della cultura e dell’arte, autentico contraltare del clima di “immobilismo degenerativo” che viceversa caratterizzò la società martinicana. Quelli che saranno definiti Les Années Folles della Francia uscita dal Primo conflitto mondiale, accompagnati dall’esplosione della Modernità, sono gli stessi che hanno accolto Aimé Césaire che, a partire dal settembre del 1931, ha vissuto e condiviso con i suoi compagni dell’École Normale Supérieure.

Formatosi culturalmente nella Parigi degli anni Trenta, condizionato profondamente dalle avanguardie dei primi decenni del Novecento - su tutte il surrealismo e l’Harlem Reinassance , alle quali si devono necessariamente aggiungere le « tensioni » 185 moderniste, pan-africaniste e marxiste, in grado di influenzare in maniera determinante la trama di tutte le sue opere -, Césaire, al pari di molti suoi futuri compagni e collaboratori di 186 origini africane, ha profondamente vissuto quell’esperienza di distacco dalla sua isola natale, sperimentando quella forma di sradicamento fisico e culturale che tanto ha contribuito a segnare lo stesso Frantz Fanon.

In questo clima, l’incontro decisivo con Leopold Senghor e Leon Gontran Damas, l’abbrivio e il periodo di gestazione della rivista L’Etudiant noir , l’impatto con una società 187 e una cultura all’interno delle quali la percezione di sentirsi minoranza discriminata era latente ma alle quali si deve necessariamente attribuire un certo grado di vitalità originata dalle nuove concezioni artistiche, culturali e politiche costituirono l’insieme delle circostanze che contribuirono in maniera decisiva a far maturare in Césaire quella presa di coscienza sulla

In Discorso sulla negritudine così si è pronunciato Césaire: « Uomini come Langston Hughes, Claude

185

Mackay, Countee Cullen, Sterling Brown, ai quali si sono poi aggiunti altri come Richard Wright, e mi fermo qui… Perché occorre saperlo, o meglio, occorre ricordarsi che è qui, negli Stati Uniti, tra voi, che è nata la Negritudine. La prima Negritudine è stata la Negritudine americana. Noi abbiamo un debito di riconoscenza verso questi uomini, che occorre sempre ricordare e rivendicare ad alta voce ». A. Césaire, Discorso sulla negritudine, cit., p 111.

Si rimanda in particolare a M. Mellino, La furia di Caliban: nell’occhio della grande tempesta, Introduzione

186

a A. Césaire, Discorso sul colonialismo seguito da Discorso sulla negritudine, cit.

Mellino ricorda come la rivista si ponesse quale alternativa ad altre due riviste molto popolari tra gli studenti

187

e gli attivisti neri e afro-caraibici di Parigi: La revue du mondo noir (1931-1932) e Légitime défense (1932). Si rimanda a tal proposito a M. Mellino, ivi, pp. 18-19.

propria soggettività e identità che, diametralmente in opposizione a quanto stava maturando nella sua « terra natale », lo spinse verso quella decisa riaffermazione e valorizzazione della cultura, della storia e dell’arte del mondo africano generando così, quel punto di contatto tra il suo percepirsi nero, discriminato dalla cultura bianca eurocentrica e la storia del popolo africano schiavizzato e colonizzato.

La sintesi di questo periodo di dialettica tra la concentrazione di innovative correnti culturali e la discriminazione vissuta sulla propria pelle fu condensata nelle pagine del Cahier d’un retour au pays natal, l’emblema della nuova presa di coscienza maturata nel periodo vissuto tra la Parigi degli anni Trenta e, appunto, il viaggio di ritorno verso la Martinica.

Nel 1941, due anni dopo la pubblicazione di una versione parziale del Cahier apparsa in Francia con scarso successo e risonanza, André Breton, in esilio verso gli Stati Uniti a causa delle sue posizioni politiche, fu costretto a far scalo in Martinica dove fu imprigionato per qualche giorno. Come ha ricordato lo stesso Breton - una volta rotto lo « spazio segnato da due baionette: il campo di concentramento del Lazzaretto, nella rada di Fort-de-France » - casualmente, mentre era intento a comprare un nastro per sua figlia in 188 una merceria della capitale martinicana, ebbe modo di imbattersi nella rivista Tropiques - fondata da Césaire, sua moglie Suzanne Roussy e René Menil - all’interno della quale la versione del Cahier fu riportata nella sua definitiva versione, quella in grado di lasciare di stucco uno dei massimi esponenti della teoria e della poesia surrealista:

« Non credetti ai miei occhi: ma ciò che là veniva detto, era ciò che bisognava dire, e non solo, ma nel modo più alto che si potesse dire! Tutte quelle ombre contorte si rompevano, si disperdevano; tutte quelle menzogne, tutte quelle derisioni cadevano in pezzi: così la voce dell’uomo non era per nulla umiliata, soffocata, si innalzava qui come la spiga stessa della luce. Aimé Césaire era il nome di colui che parlava » . 189

Fu quella l’occasione che propiziò l’incontro tra Breton e Césaire, dal primo ricordato in un breve scritto del 1943, posto poi come Prefazione anche nella prima versione tradotta in lingua italiana del Cahier del 1978.

André Breton, Un grande poeta negro, Prefazione a A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., p.

188

13.

Ivi, p., 14. Corsivo di Breton.

Riconosciuto come il testo all’interno del quale presero corpo il significato e la consapevolezza dello sfruttamento e dell’oppressione, accompagnati, come già accennato, dalla nuova coscientizzazione del sentirsi nero, tradotta e sintetizzata nel neologismo

negritudine, il Cahier ha rappresentato quella « ribellione sintattica, ri-costruzione verbale,

estrema audacia grammaticale » attraverso la quale Césaire ha lanciato il suo “grido nero”, 190 in prima analisi, rivoluzionando letteralmente il modo di esprimersi e reinventando in parte uno dei capisaldi della cultura occidentale: la lingua francese.

Attraverso i suoi versi Césaire è riuscito, al tempo stesso, a trasmetterci quell’immagine lontana dai paradisi terrestri che le isole delle Antille nell’immaginario collettivo ricoprivano e ricoprono. I versi richiamati nell’epigrafe posta in apertura del presente capitolo, così come l’immagine richiamata delle metropoli e degli agglomerati urbani occidentali, cui si è fatto accenno precedentemente, ci trasmettono un’idea altra rispetto all’immagine paradisiaca attribuita alla Martinica dall’esotismo di matrice occidentale che, nella sua versione più strettamente in linea con la “missione civilizzatrice” europea, ha rafforzato la convinzione di un’ontologica incapacità ad accedere alle forme della modernizzazione occidentale da parte delle società extra-occidentali e, viceversa, soprattutto attraverso la letteratura, ne ha esaltato la primitività come via di fuga dall’artificiosità della modernità occidentale.

A ciò si deve necessariamente aggiungere che la grande capacità di Césaire è stata quella di infondere a tutti i suoi versi, un profondo messaggio politico che, nato dalla sua personale posizione e presa di coscienza, si è successivamente allargato coinvolgendo ed influenzando una vasta generazione di intellettuali colonizzati che si sono trovati, contemporaneamente, al centro di due fuochi: da una parte il sistema coloniale con il suo portato di violenza e brutalità e dall’altra, quella generazione, da Césaire individuata principalmente nella piccola e media borghesia nera che, aperta ai processi di assimilazione e acculturazione, ha finito col rinnegare proprio il messaggio che il sotto testo della poetica césariana ha cercato di far riemergere: la possibilità, ovvero, che anche nel clima di una brutale discriminazione razziale e alienazione culturale, il nero potesse ugualmente disporre della propria autonomia frenando il processo che lo avrebbe spinto ad una quasi inevitabile astrazione.

Graziano Benelli, Introduzione all’edizione italiana, a A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., p.

190

L’immagine lampante utilizzata da Césaire per accreditare la sua presa di posizione - politico-poetica - è rappresentata dall’esaltazione e dal ricordo della figura del rivoluzionario nero Toussaint Louverture, che diede vita alla rivolta degli schiavi neri di Santo Domingo sul finire del XIX secolo:

« Ciò che mi appartiene è un uomo solo imprigionato di bianco

è un uomo solo che sfida le grida bianche della morte bianca (TOUSSAINT, TOUSSAINT LOUVERTURE)

è un uomo che affascina lo sparviero bianco della morte bianca è un uomo solo nel mare infecondo di sabbia bianca

è un vecchio negro innalzato contro le acque del cielo

La morte descrive un cerchio che brilla al di sopra di quest’uomo la morte si costella dolcemente sopra la

sua testa

la morte soffia, folle, nel canneto maturo delle sue braccia

la morte galoppa nella prigione come occhi di gatto

la morte singhiozza come l’acqua sotto gli Scogli la morte è un uccello ferito

la morte decresce la morte vacilla

la morte è un patiura ombroso la morte spira in una pozza bianca di silenzio.

Lievitamenti della notte ai quattro angoli di quest’alba

sussulti di morte irrigidita destino tenace

grido alto di terra muta

lo splendore di questo sangue non scoppierà mai? » .191

A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., pp. 44-45. La “cascata” di versi è stata riportata come

191

L’intero poema è rappresentativo della profonda riflessione che Césaire ha compiuto analizzando anzitutto se stesso, restituendoci una sorta di sintesi del percorso fin lì intrapreso. Sembra evidente, in altri termini, che nelle intenzioni del poeta martinicano sia maturata la necessità di fissare, definitivamente e per iscritto, la sua personale coscientizzazione che, allo stesso tempo, è frutto di una riflessione maturata alla luce delle esperienze vissute dagli abitanti della sua isola, chiamati a rappresentare non solo la loro specifica condizione di abitanti della Martinica (francese), ma la generale condizione degli uomini e delle donne di colore che hanno voltato le spalle alle proprie origini e che vivono una condizione di alienazione che si esplica principalmente su un piano culturale. Questa duplice natura ha consentito alla poetica stessa di allargare gli orizzonti e la portata del messaggio che incorpora.

L’intenzione di Césaire non è stata quella di spingere verso l’eversione rivoluzionaria. Pur avendo esaltato e richiamato la figura dell’ex schiavo-rivoluzionario afroamericano Touissaint Louverture o ricordato costantemente lo stato di immobilismo quasi cronico di « questa città inerte, questa strana folla che non s’ammucchia, […] Questa folla che non sa farsi folla » , o ancora, pur avendo allontanato da sé qualsiasi forma di immobilismo 192

« “E soprattutto voi, mio corpo e mia anima, trattenetevi dall’incrociare le braccia nell’atteggiamento sterile dello spettatore, poiché la vita non è uno spettacolo, poiché un mare di dolore non è un palcoscenico, poiché un uomo che grida non è un orso che balla…” » ,193

la sua intenzione principale è stata quella di spingere verso quella forma di rivoluzione della coscienza che, privata della sua accezione violenta e distruttrice, risultasse in grado di far maturare all’interno di ogni singolo individuo nero la possibilità di percepirsi e affermarsi in qualità di uomo nero in un mondo dominato dai bianchi, facendo della propria storia e del proprio passato, non qualcosa da respingere e rinnegare bensì, il punto di partenza attraverso il quale operare una profonda riconversione nei confronti della propria cultura e della propria identità.

Passaggio successivo alla nuova presa di coscienza e al ricongiungimento con le proprie origini è stato indicato da Césaire - non senza tralasciare di mostrare « Pietà per i

A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., p. 29.

192

Ivi, p. 41.

nostri vincitori onniscienti e ingenui! » -, nell’universalizzazione di un messaggio che 194 cogliendo nel profondo la condizione non solo dell’uomo di colore disumanizzato e denigrato ma di tutti gli oppressi e gli sfruttati, ha consentito al poeta martinicano di andare oltre l’elemento specifico della discriminazione operata nei confronti dell’uomo nero, ovvero, il colore della pelle che, non a caso e come avremo modo di analizzare meglio in seguito, in

Discorso sulla negritudine non costituisce più il punto di partenza dell’analisi proposta da

Césaire che, non riferendosi più a presunte categorizzazioni biologiche, si è rivolto a una più generica « comunità costituita a partire dall’oppressione, dall’esclusione imposta, dalla discriminazione più dura » . Tale passaggio è stato così condensato nei versi del Cahier: 195

« Ma così facendo, cuore mio, preservami completamente dall’odio non fare di me quell’uomo di odio per il quale non ho che odio giacché per rinchiudermi in quest’unica razza

conosci però il mio amore tirannico conosci che non è per odio delle altre razze che mi nomino vangatore di quest’unica razza che ciò che voglio

è per la fame universale per la sete universale intimarla libera infine

di produrre dalla sua chiusa intimità la succulenza dei frutti » . 196

Nella poetica césariana del Cahier, in altri termini, l’obiettivo di fondo non è costituito dal superamento della dicotomia uomo bianco uomo nero verso l’edificazione di un

Uomo nuovo - come la prospettiva fanoniana di Peau noire et masques blancs ha suggerito -,

bensì la messa in discussione dello sfruttamento e dell’oppressione in senso lato, come i versi sopra richiamati lasciano intendere; una forma di denuncia alla quale corre parallela la necessità di (ri)affermare e preservare, come condizione imprescindibile, quell’identità nera che, ricongiungendosi al proprio passato, in esso e tramite esso, giunga alla sua piena e riconosciuta affermazione.

A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., p. 67.

194

A. Césaire, Discorso sulla negritudine, cit., p. 106-107.

195

A. Césaire, Diario di un ritorno al paese natale, cit., p. 68. Come per i precedenti versi richiamati si riporta la

196

Che riguardi la condizione dell’uomo nero - discriminato perché considerato assente dalla storia -, o l’uomo bianco - reso schiavo dalla sua stessa cultura, dalla sua politica e ideologia -, lo scopo di fondo è quello di ottenere una pacifica coesistenza attraverso un reciproco riconoscimento che non si traduca nella negazione e nella « cosificazione » dell’Altro.

Se di finalità dai toni universalistici si può parlare e a giusto titolo per entrambi gli intellettuali martinicani, sfumature differenti caratterizzano le conclusioni cui sono giunti. In Césaire, infatti, è maturata la necessità di un preliminare sguardo al passato e di un suo conseguente e definitivo recupero come leva attraverso la quale affermare l’identità del

popolo nero; un’operazione che Fanon ha sì vissuto come uno dei momenti che maggiormente

hanno contribuito all’esaltazione della propria rinnovata consapevolezza di percepirsi come uomo nero ma è stata successivamente criticata (così come esposto nelle conclusioni di Pelle

nera, maschere bianche), poiché di per sé giudicata in qualità di “fase transitoria” che

necessita di un passaggio successivo, ovvero, il suo stesso superamento che trae origine - contrariamente da quanto proposto da Césaire -, proprio da un taglio netto col passato. Una presa di distanza, in altri termini, da intendersi non tanto come rifiuto di riscoprire le proprie radici ma come condizione autenticamente rivoluzionaria e dal forte accento universale, che consenta un nuova presa di coscienza anche da parte dell’uomo bianco che altrimenti, posto in costante rapporto di conflittualità con l’uomo di colore esaltato dal suo nuovo percepirsi, dalla sua identità e soggettività riscoperte non farà altro che proseguire una controproducente dialettica.