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3.1 AIMÉ CÉSAIRE E FRANTZ FANON

3.1.5 Una sintesi

Il neologismo negritudine è stato messo precipuamente sotto la lente di ingrandimento attraverso un’analisi intrecciata delle varie opere richiamate. La necessità di ricorrere a tale comparazione trova fondamento nell’aver rilevato numerose sfumature - a tratti sottilissime - che sia Aimé Césaire sia Frantz Fanon hanno attribuito ad un concetto - ora centro nevralgico (del Cahier, così come di Et le chiens se taisaient e di Discorso sulla

negritudine), ora di estrema rilevanza (in Pelle nera, maschere bianche e in Discorso sul colonialismo) che non riassumibile di per sé in un’unica formula esplicativa in grado di

coglierne interamente la portata, se fosse analizzato esclusivamente alla luce della lettura di un’unica opera ne ricaveremmo un significato parziale se non del tutto distorto.

L’aver richiamato l’attenzione sulle linee di continuità tra il pensiero e le opere dei due martinicani - in ultima battuta si è cercato di inquadrare Et le chiens se taisaient come evoluzione della poetica espressa nel Cahier -, si pone in linea e a conferma di quanto posto come condizione preliminare e indispensabile in apertura del presente capitolo.

Al tempo stesso, prendere in considerazione le tesi di fondo delle opere dei due martinicani senza neanche accennare ad un loro critico confronto, lasciandole ovvero in uno stato di isolazionismo rispetto al resto degli altri scritti, ci porta a commettere lo stesso tipo di errore sopra accennato nei confronti del concetto di negritudine.

La difficoltà è insita nel cogliere le varie sfumature di quanto proposto da Fanon e Césaire, frutto diretto della loro reciproca influenza e della specificità del contesto storico in cui si sono trovati ad esprimersi; aspetti spesso richiamati ma non in una prospettiva di comparazione e forse eccessivamente e sbrigativamente liquidati e che hanno erroneamente portato ad analizzare esclusivamente alcuni aspetti a discapito di altri non meno determinanti. Troppo spesso, ad esempio, l’insistenza sugli eccessivi toni eversivi/rivoluzionari attribuiti a Fanon, non ha consentito di rilevare a fondo il messaggio insito nei suoi scritti

A. Césaire, Discorso sulla negritudine, cit., p. 112. Corsivo aggiunto.

(aspetto che sarà necessariamente ripreso nelle pagine successive) e ha portato ad incrementare più del dovuto la distanza tra due pensatori che, diversamente, mostrano di avere numerosi punti in comune; non casualmente è stata richiamata l’attenzione sul passo precedentemente citato de Et le chiens se taisaient punto forse di maggior contatto tra le visioni più radicali espresse da entrambi i martinicani.

Resta comunque da sottolineare come la necessità di proporre una lettura comparata dei due autori nasca quasi esclusivamente in seguito alla lettura di Pelle nera,

maschere bianche per i continui rimandi a Césaire che Fanon ha intenzionalmente voluto

introdurvi. Viceversa, si noti come Fanon non sia mai direttamente o esplicitamente richiamato nelle opere di Césaire.

Insistendo comunque sulla necessità di proporre una producente comparazione fra le varie opere e fra i due autori, sempre a titolo d’esempio, si è cercato di chiarire come prendendo esclusivamente le mosse da Discorso sul colonialismo si corra il rischio di non rilevare a pieno il condizionamento che il concetto stesso di negritudine ha conferito all’argomentazione lì proposta da Césaire che, viceversa, se confrontata con il successivo

Discorso sulla Negritudine ci restituisce un messaggio corredato da maggiore completezza e

che non necessariamente ci porta ad inquadrare, laddove emergente, il neologismo di Césaire come blocco monolitico di opposizione alla cultura/mito della whitness o a sostenere l’esclusivo protagonismo da parte del proletariato senza prendere in considerazione il ruolo fondamentale che i colonizzati/subordinati sono stati chiamati a ricoprire.

Lo stesso può essere fatto inquadrando Discorso sul colonialismo come “ponte ideologico” tra le due principali opere di Fanon, sfumando così l’apparente netta presa di posizione nei confronti dello sprofondamento nel « grande abisso nero » che in alcuni passaggi proposti di Pelle nera, maschere bianche precedentemente richiamati, emerge comunque come una condizione essenziale (almeno in prima battuta) e che guardando invece a I dannati della terra (richiamando soprattutto la specificità della condizione coloniale) ci consente non tanto di giustificare la netta presa di posizione assunta da Fanon nel primo capitolo, ma quantomeno di gettare una differente luce sull’intero scritto.

Partendo da quest’ultimo punto, inoltre, non è impossibile tentare un paragone tra il significato profondo del concetto stesso di negritudine e il significato soggiacente alla presa di coscienza maturata da parte del popolo algerino (aspetto quest’ultimo maggiormente approfondito nell’analisi de L’anno V proposta nel Capitolo Quarto del presente lavoro) per Fanon strettamente coincidenti a partire dell’iniziale atto di ribellione e dissenso alla base di

entrambi: da questo punto di vista, entrambi i processi si presentano autenticamente rivoluzionari per il contesto e la serie di fattori che seppur in circostanze completamente differenti ne hanno favorito la spinta propulsiva iniziale.

Uno sguardo che ulteriormente allarghi l’orizzonte e i confini delle comparazioni sopra proposte chiarisce meglio come si sia reso possibile l’inserimento all’interno dei

Postcolonial Studies di due filoni di pensiero che, pur non ponendosi sempre sullo stesso

piano argomentativo e giungendo a conclusioni anche in parte differenti, mantengono come loro caratteristica peculiare una possibile lettura che, integrandosi vicendevolmente, porta ad attingere ad una sintesi ancor più speculativamente vantaggiosa.

Un approccio trasversale ai due autori consente, inoltre, di portare ancor più chiarezza sui possibili “punti oscuri” che anche la comparazione fin ora proposta rischia di non chiarire a fondo e, al tempo stesso, fornisce possibili e alternative letture. Non si cerca qui di proporre un approccio che porti definitivamente a stabilire cosa ci hanno “veramente detto” i due autori, ma si insite nel ribadire la loro attualità deducibile dalla straordinaria e spesso spiazzante flessibilità che continuano a mostrare in qualità di strumenti di indagine della contemporaneità.

A titolo d’esempio si guardi come James Clifford, nel 1988, un anno dopo l’intervento di Césaire alla Prima conferenza globale dei popoli neri della diaspora, abbia inserito un’analisi della poetica césariana in uno dei suoi lavori principali, The Predicamene

of Culture, condividendo, come punto di partenza della sua tesi, il timore espresso da Césaire

attraverso il suo Discorso, ovvero quello svuotamento di significato cui il neologismo stava andando incontro, non a caso giudicato dall’antropologo statunitense « troppo familiare » e nei termini di « un’astrazione e una ideologia » . 234

Clifford ha dedicato un piccolo ma significativo capitolo della sua opera ad Aimé Césaire, concentrando la sua attenzione sul concetto di negritudine e sul Cahier, che è giunto a definire in qualità di un autentico « paesaggio tropologico in cui avvengono trasformazioni sintattiche, semantiche e ideologiche » , portando nuovamente l’attenzione sugli aspetti più 235 prettamente poetici del Cahier, determinanti, a suo modo di vedere, per l’economia dell’analisi che intraprende nell’intero libro.

James Clifford, The Predicamene of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature, and Art, Harvard,

234

Harvard University Press, 1988; trad. it. I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 208.

Ivi, p. 206.

Clifford si è posto come obiettivo quello di guardare all’attività degli etnografi - oggetto principale della sua analisi - e nello specifico alla loro produzione letteraria, inquadrata come fondamentale contributo alla costruzione della coscienza moderna europea. Ne emerge, all’interno del capitolo dedicato a Césaire Una politica del neologismo: Aimé

Césaire, un’inevitabile analisi della rivolta intrinseca alla reinvenzione stessa del linguaggio

proposta nel Cahier, l’accentuazione del suo non conformismo con le standardizzazioni editoriali della Francia del periodo di pubblicazione e la sua insistenza - da Clifford messa in evidenza in maniera peculiare -, sul tentativo di trasmetterci il senso della negritudine come esigenza storica passando però attraverso la sua negazione più che attraverso la sua enunciazione: « La mia negritudine non è…» ripete uno dei versi del Cahier richiamati da Clifford e precedentemente anche nel presente lavoro.

Fuoriuscendo dal capitolo, l’analisi proposta da Clifford è ricaduta necessariamente sulle influenze che soprattutto a partire dagli anni Venti del Novecento l’etnografia ha ricevuto da parte della corrente surrealista, la stessa con la quale si era formato e confrontato Césaire, da Clifford presa in considerazione nella sua accezione più vasta, ovvero non riducibile al gruppo che si riunì intorno ad André Breton o, allargandone seppur leggermente gli orizzonti, alla cultura francese degli anni Venti e Trenta . 236

Ciò che è possibile trarre dalla lettura offerta da Clifford (in rapporto a quanto strettamente qui ci interessa), è che varie possono essere le finalità di analisi alle quali sono in grado di rispondere e contribuire i rimandi alle opere di Césaire e lo stesso vale (come avremo modo di vedere nei capitoli successivi) per quanto proposto da Fanon. Va da sé che in particolar modo l’approccio e la prospettiva adottata da parte degli studi postcoloniali e degli studiosi che ad essi hanno guardato e continuano a guardare, convalida a pieno titolo quanto appena accennato.