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LA NECESSITÀ DI (RI)LEGGERE FANON

Seguendo quanto proposto fin ora risulta paradossale considerare sia parziale sia parzialmente l’opera di Fanon, poiché è attraverso essa che il medico-rivoluzionario ha espresso il suo tentativo di denuncia ed ha sostenuto proprio la parzialità di ciò che si presenta in linea teorica universale ma che nella pratica si scontra con il suo versante discriminante e mistificante, l’Altro lato di una stessa medaglia.

Superato il velo della razza - attraverso l’esperienza per buona parte autobiografica raccontata in Pelle nera, maschere bianche - per Fanon il terreno era pronto per nuovi orizzonti che da quel punto di partenza hanno trovato slancio e che traslati in altri contesti - principalmente l’Algeria -, attraverso un’ulteriore operazione di immedesimazione e la presa di coscienza della subordinazione generata dalla violenza coloniale, ci restituiscono il Fanon che si è lasciato conoscere a partire dal suo primo scritto.

Nel Fanon che è giunto in Algeria è già maturata la consapevolezza che “uscire dall’inferno” è possibile e che non tentarci nuovamente significherebbe far fallire l’uomo. Che distanza separa infatti l’uomo di colore dall’Algerino colonizzato? Non vivono entrambi la drammaticità di una subordinazione che, nata dal ventre della cultura europea, si manifesta in pratiche discriminatorie, sguardi di disprezzo e che una volta interiorizzati generano quelle nevrosi le cui gabbie solo una completa Rivoluzione potrà spezzare per spingere nuovamente in direzione di una nuova rigenerazione e ricomposizione dell’uomo?

Sul piano concreto la drammaticità della colonia si mostra immanente alla sua artificiosità; solo passando attraverso lo smantellamento delle sue strutture e delle sue istituzioni - come primo passo - si potrà giungere alla rigenerazione dell’uomo, senza dimenticare di spingere - sul piano strettamente cultuale - verso quella necessaria operazione che vede coinvolti colonizzati e colonizzatori: spogliarsi dei panni del colonizzato significa smantellare la struttura coloniale ma spogliare anche e definitivamente il colono dei suoi retaggi razzisti e discriminatori - che non necessariamente necessitano di luoghi fisici per mostrarsi nella loro inumanità -, ed “esorcizzare” il colono che alberga all’interno di ogni colonizzato.

Cuore della questione, sessant’anni fa come oggi, resta sempre la questione dell’umano che, sia in Pelle nera, maschere bianche sia negli scritti del periodo algerino, spingendosi fino a I dannati della terra emerge nei suoi termini più radicali; per dirla con Miguel Mellino:

« […] è tra le pieghe di questi testi che la questione dell’umano emerge (in tutta la sua colonialità) per la prima volta. Vorrei suggerire che forse ciò che ci resta di Fanon oggi è proprio questa sua radicale interrogazione sulla produzione, il monopolio e i confini dell’umano » ; 295

la cui rilettura nel presente si inscrive più nel « campo della lotta politica ed economica anziché dell’etica » . La questione ruota sempre attorno alla razza, alla schematizzazione, 296 alla differenziazione: in Martinica è lo “sporco negro” in Algeria la “bestia africana”.

La questione dell’umano torna a riemergere come la questione fondamentale sollevata da Fanon e che spesso è stata messa in ombra dai toni radicali utilizzati sì dallo stesso Fanon, ma soprattutto da chi ha voluto insistere verso una certa lettura, più funzionale ad un certo clima politico e di contestazione che di obiettiva analisi e critica.

Si è inizialmente accennato al fatto che la preliminare operazione di lettura e interpretazione de I dannati della terra ha portato ad inquadrare il suo autore quasi esclusivamente come il teorico del movimento di liberazione nazionale e del soggetto rivoluzionario coloniale. Addentrandoci nella lettura in particolare del primo capitolo, lo stesso cioè che ha rafforzato tale presa di posizione, non risulta comunque impossibile tentarne una (ri)lettura che in parte prenda le distanze da questa visione, se vogliamo, che ha limitato la complessità e la varie sfaccettature del pensiero fanoniano.

Prendiamo, a titolo d’esempio, la forza delle immagini che ci spinge a richiamare alla mente Fanon attraverso la descrizione che ci ha offerto della città del colono e del colonizzato in apertura de I dannati della terra. Questa preliminare operazione ci consente di dare avvio, contemporaneamente, ad un duplice procedimento funzionale agli obiettivi posti in apertura del presente capitolo: uno rivolto ad un recente passato e che ci riporta nei Caraibi, quindi a Pelle nera, maschere bianche ed uno, compiendo un balzo temporale fino ai giorni nostri, che rimanda la mente alle nostre odierne metropoli occidentali; ha scritto Fanon:

« La zona abitata dai colonizzati non è complementare alla zona abitata dai coloni. Queste due zone si contrappongono […] Rette da una logica puramente aristotelica, obbediscono

M. Mellino, Presentazione a Fanon postcoloniale. I dannati della terra oggi, cit., p. 9. Corsivo di Mellino.

295

Per Mellino già Fanon aveva iscritto più sul piano della lotta politica e economica anziché dell’etica la sua

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interrogazione sull’umano. Sostenere tale posizione però va, in buona parte, nuovamente appannaggio dell’ultima opera di Fanon, si rischia cioè, di non tenere in debito conto la morale di fondo che caratterizza Pelle nera, maschere bianche. Al tempo stesso credo che tale interpretazione sia voluta da Mellino per sottolineare le forti connessioni che tutt'oggi legano le democrazie europee e più generalmente il liberalismo occidentale al passato coloniale. Per approfondimenti si rimanda in ivi, pp. 9-10.

al principio di esclusione reciproca: non c’è conciliazione possibile, uno dei due termini è di troppo. La città del colono è una città di cemento, tutta di pietra e di ferro. È una città illuminata, asfaltata, i cui secchi della spazzatura traboccano sempre di avanzi sconosciuti, mai visti, nemmeno sognati. […] La città del colono è una città ben pasciuta, pigra, il suo ventre è permanentemente pieno di cose buone. La città del colono è una città di bianchi, di stranieri. La città del colonizzato, o almeno la città indigena, il quartiere negro, la medina, la riserva, è un luogo malfamato, popolato di uomini malfamati. Vi si nasce in qualunque posto, in qualunque modo. Vi si muore in qualunque posto, di qualunque cosa. […] è una città affamata, affamata di pane, di carne, di scarpe, di carbone, di luce. […] Lo sguardo che il colonizzato getta sulla città del colono è uno sguardo di lussuria, uno sguardo di bramosia. Sogni di possesso. Tutte le forme di possesso: sedersi alla tavola del colono, dormire nel letto del colono, possibilmente nel letto di sua moglie. Il colonizzato è un invidioso, il colono non lo ignora quando, cogliendone lo sguardo alla deriva, constata amaramente ma sempre all’erta: « Vogliono prendere il nostro posto ». È vero, non c’è colonizzato che non sogni almeno una volta al giorno di insediarsi al posto del colono » .297

Questo lungo estratto non rimanda, compiendo un passo indietro, al Fanon di

Pelle nera, maschere bianche? Più precisamente, non ricorda i sogni delle Mayotte Capécia

affascinate dalle case e dagli stili di vita dei borghesi bianchi di Fort-de-France? Non richiama il desiderio di fuggire la propria condizione di uomo nero per aspirare a “migliori” condizioni? Non rimanda al desiderio di conquista da parte dell’uomo di colore nei confronti della donna bianca?

Al tempo stesso, compiendo un balzo in avanti, non ricorda la nostra quotidiana condivisione (divisione?) degli spazi metropolitani con gli Altri, gli stranieri, gli immigrati, gli odierni dannati che si riversano sulle nostre coste spesso per fuggire insopportabili condizioni di esistenza generate da un recente passato di colonizzazione e dalle odierne politiche post-coloniali e neoliberiste? La mente non va con facilità alle numerose rivolte nelle banlieus francesi o, più in generale, nelle periferie delle nostre metropoli europee? Non rimanda a xenofobe pulsioni e al timore che suscita un velo incrociato per le vie di una città o il progetto di costruzione di una nuova moschea?

Quel « mondo a scomparti » attraversato da divisioni e « abitato da specie diverse », così come descritto da Fanon, non è stato cancellato in seguito alla smantellazione dei vecchi Imperi coloniali in quanto continua a sopravvivere nella contemporaneità seppur geograficamente traslato nel “nostro” mondo occidentale. È a pieno titolo, da questo punto di

F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 6.

vista, significativo dello spaesamento o quantomeno dell’obbligo di riflessione necessario davanti al prefisso post di postcoloniale che ci proietta al centro della condizione nuova che trae comunque forza e ispirazione da un “passato non passato”; infatti:

« Più che indicare una frattura o un distacco netto nei confronti del passato, sta qui a significare, in una sorta di ritorsione lyotardiana, proprio il contrario: l’impossibilità di un suo superamento date le dinamiche neocoloniali che hanno caratterizzato la maggior parte dei processi storici di decolonizzazione formale, simboleggia quindi la persistenza della condizione coloniale nel modo globale contemporaneo » . 298

È - richiamando nuovamente Fanon -, il non superamento di una situazione dove l’infrastruttura economica è anche sovrastruttura nel determinare la differenza su di un piano economico e, al tempo stesso, sul piano culturale e razziale. Ieri nella colonia, oggi nelle metropoli occidentali « si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi » ; il tutto retto e 299 realizzabile grazie al meccanismo totalizzante - già descritto in Pelle nera, maschere bianche -, che rende possibile l’edificazione di un mondo manicheo che spinge alla disumanizzazione dell’Altro.

E per quanto riguarda il lessico coloniale? Anch’esso, valicando il confine del

coloniale persiste nei nostri registri culturali e rimandando sempre a terminologie prettamente

zoologiche rimanda, oggi come ieri, ai « movimenti serpeggianti dell’indocinese, agli effluvi della città indigena, alle orde, al puzzo, al pullulare, al brulicare, ai gesticolamenti » . Anche 300 in questo caso lo “sporco negro” di Pelle nera, maschere bianche torna a spalancare la sua bocca e a ribadire l’artificiosità e la mendacità che rendono possibili tali retaggi razzisti.

L’analisi proposta da Fanon letta sotto la lente del presente ci restituisce in parte - e rovesciata -, la storia che il colono ha fatto nella colonia, come naturale estensione della storia del paese di sua provenienza; una brusca interruzione - viceversa - della storia del paese colonizzato che, oggi giorno, continua il suo svolgimento all’interno delle metropoli contemporanee, dove sopravvivono e permangono forme culturali di colonizzazione che collidono - intrecciandosi con i nuovi flussi e spostamenti globali di merci e persone -, restituendoci la complessità di un presente che spesso sfugge a definitive sistematizzazioni e

M. Mellino, La critica postcoloniale, cit., p. 11.

298

F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 7.

299

Ivi, p. 9.

che necessita di una sua ulteriore interpretazione che richiama come necessaria l’apertura dell’archivio di un recente e non del tutto superato passato.

Permanente, in altri termini, è il costante senso di « tensione » - richiamando una terminologia cara a Fanon - che il colonizzato ha vissuto in colonia e che nel presente si ritrova a vivere in Occidente l’immigrato, lo straniero, il diverso, l’Altro che viene respinto, limitato negli spazi e nelle possibilità. Perfettamente consona al presente risulta infatti la visione che ci ha offerto Fanon del mondo coloniale:

« Quel mondo ostile, pesante, aggressivo perché respinge con tutte le sue asperità la massa colonizzata, [che] rappresenta non già l’inferno da cui ci si vorrebbe allontanare il più presto possibile, ma un paradiso a portata di mano protetto da tremendi mastini » .301

L’immagine di un Mediterraneo come via di fuga attraverso la quale giungere in Europa - che respinge e limita attraverso le odierne politiche migratorie -, non è lontana dalla descrizione della colonia che ci ha offerto Fanon circa sessant’anni fa e la Francia, per i martinicani degli anni Quaranta-Cinquanta, non è certo esente dall’iscriversi nella medesima prospettiva.

Se questo breve accenno comparativo avvalla l’odierna possibilità di poter prendere le distanze da chi sostiene una netta divisione all’interno dell’archivio fanoniano, è altresì incoraggiante per chi tenta di reinterpretare ed attingere nuovamente da un pensiero che si mostra così rinnovato, poiché spoglio di una dicotomica e restrittiva interpretazione.

Senza tentare un’analisi esegetica o filologica dell’opera - come l’esempio sopra riportato cerca di dimostrare -, risulta sì possibile e corretto riconoscere nel Fanon de I

dannati della terra il teorico di un nuovo soggetto rivoluzionario che ha dato rilevante

importanza all’interno della sua analisi al ricorso alla violenza come strumento di liberazione e di edificazione di una una nuova coscienza nazionale ma, senza esasperarne i toni, è possibile far emergere come preponderante il tentativo compiuto dal medico-psichiatra di offrire la sua personale, generale e non priva di mancanze ed errori di valutazione, analisi sociologica, psicologica e ontologica dei sommovimenti che interessarono sia l’Algeria, sia gli altri paesi del Terzo Mondo e che in seconda analisi ha incluso e ha fatto emergere come rilevante, anche la figura del soggetto rivoluzionario.

F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 17.

Questo tentativo di reinterpretazione, oltre ad offrire nuovi spunti critici di riflessione, è contemporaneamente funzionale proprio al tentativo di ridimensionare l’idea che ha predominato in particolar modo del Fanon teorico-rivoluzionario e, volendo necessariamente tener di conto del primo scritto, ci consente di chiarire meglio come sia maturata nel medico-psichiatra l’idea dell’inevitabile ricorso alla violenza.

L’analisi psico-sociologica proposta, che di rado si focalizza su precise tattiche militari o imprescindibili caratteristiche che il rivoluzionario dovrebbe avere, si è indirizzata prevalentemente verso la descrizione della specificità, della frammentarietà e dei limiti della situazione dicotomica vissuta, fuoriuscendo dai ristretti confini dell’Algeria, nei paesi del Terzo Mondo (l’Africa coloniale nello specifico) e che sotto certi aspetti - pur mancando espliciti riferimenti - richiama la situazione vissuta nella piccola Martinica.

Fanon ha fatto comunque emergere, come dato imprescindibile, una fondamentale differenza che ha reso centrale il ricorso alla violenza all’interno del suo ultimo scritto: risulta del tutto assente cioè, nel mondo coloniale africano, qualsiasi figura mediatrice e moderatrice tra le parti in causa. Elemento su cui Fanon ha precipuamente insistito è infatti costituito dalla denuncia della presenza nelle colonie africane, di istituzioni che prevalentemente attraverso l’uso della forza si sono imposte nel determinare le divisioni e le compartimentazioni che la descrizione della città coloniale precedentemente richiamata in parte ci restituisce.

Non si intravede nella prospettiva adottata da Fanon, per dirla in altri termini, possibilità alcuna di comunicazione tra due mondi che sono messi in relazione solo attraverso l’imposizione violenta del dominatore sul dominato. Da qui scaturisce la necessità, impellente, di altrettanta violenza per porre definitivamente fine alla subordinazione.

L’interpretazione, finendo col richiamare più i toni di un appello che di un’analisi scientifica di una specifica situazione, tenta inizialmente di tenere insieme i fili di un discorso che si vuole particolare e determinato, ristretto, ovvero, al caso dell’Algeria ma che in seconda battuta si è allargato al contesto internazionale rendendo generale e comune la situazione vissuta da paesi sottomessi del Terzo Mondo (come Cuba, il Vietnam, il Congo e il Madagascar) aprendosi quindi a generalizzazioni e semplificazioni nel mancato riconoscimento delle specifiche differenze che hanno riguardato, seppur in contesti simili, realtà spesso completamente differenti.

Fanon ci ha offerto un quadro generale delle varie anime che hanno caratterizzato il momento pre- e rivoluzionario, concentrandosi sulle interazioni tra i nascenti partiti nazionalisti, gli intellettuali, la borghesia locale e il mondo contadino; una costellazione di

soggetti che divisi al loro interno da illusorie concessioni, da parziali benefici derivanti dalla situazione di constante dubbio e travolti dalla loro stessa insurrezione si presentano spinti dall’incertezza e dalla spontaneità rappresentative, a giudizio del medico-rivoluzionario, delle principali forze motrici di un movimento che ha trovato legittimità e forza non in schiaccianti vittorie militari ma in locali trionfi e parziali liberazioni che, moltiplicandosi con il passare del tempo, hanno agito in maniera determinante sulle coscienze dei suoi promotori allargandone gli orizzonti.

Senza esimersi da delusioni e paure questi iniziali e frammentati moti insurrezionali hanno necessariamente dovuto affrontare l’esame della controinsurrezione, della tragicità e della crudezza che la guerra comporta, ma il tutto, sempre secondo Fanon e almeno in questa prima parte di analisi, come contributo al rafforzamento di un sentimento di appartenenza e unità nazionale che ha ritrovato nell’azione il fine e il mezzo per il suo compimento.

La descrizione di Fanon, carica di eccessiva fascinazione per il gesto di rivolta, ha ceduto il posto non a precise descrizioni e analisi delle fasi e dei soggetti che avrebbero spinto alla definitiva resa delle forze coloniali, bensì all’esaltazione dell’azione, della necessità e della violenza come frutto diretto della convinzione che grazie ad esse sarebbe maturata la capacità di riconoscere la nuova realtà che si stava edificando in opposizione ad un passato del quale « fare tabula rasa » . 302

In sintesi, ricollegandosi sia agli eccessivi toni utilizzati da Sartre nella Prefazione - anticipatori ma che si sono spinti fino a superare le posizioni sostenute dallo stesso Fanon -, sia richiamando il generale clima di contestazione nei confronti della crisi e della gestione da parte dell’Occidente delle complesse situazioni del Terzo Mondo nel contesto della Guerra Fredda - circostanze che hanno notevolmente contribuito a portare agli estremi un pensiero che non necessitava di vedere erigere su di una bandiera o su di un manifesto il volto del suo autore in qualità di teorico e profeta di un nuovo mondo, al pari degli sbandierati Ernesto Guevara, Fidel Castro, Ho Chi-min o Mao Zedong -, risulta più vantaggioso leggere ed interpretare oggi I dannati della terra senza il timore di avere qualcosa tra le mani che scotti, perché lontani - seppur permangano linee di continuità - dal quel clima culturale e politico.

F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 3. Riprendendo l’Introduzione alla nuova edizione italiana de I dannati

302

della terra, Liliana Ellena fa notare che il titolo dell’opera di Fanon richiama il primo verso dell’Internazionale, l’inno del socialismo rivoluzionario internazionale. Nel medesimo verso si fa riferimento, come vedremo successivamente, ad un passato del quale fare « tabula rasa ». Cfr. L. Ellena, Introduzione alla nuova edizione italiana, ivi, p. IX.

Il rischio cui si è andati incontro, da questo punto di vista, è che l’insieme di questi fattori abbia influito accelerando i tempi di una analisi che necessitava di una maggiore e più profonda ponderazione. Come infatti sottolineava già Pietro Clemente agli inizi degli anni Settanta (e nonostante la presa di distanza precedentemente sostenuta):

« Fanon campeggiava in questo quadro come il profeta della violenza degli oppressi, battistrada di una cultura totalmente « altra » da quella bianca-capitalistica, sostenitore quindi del rifiuto totale dell’« Occidente ». Questa suggestiva interpretazione non faceva però i conti con un approfondimento reale del pensiero del nostro autore, i cui testi restavano piuttosto letti e citati che discussi, analizzati e verificati » . 303

La sensazione di fondo, quindi, è che sia possibile liberi degli accenti posti su alcune delle tematiche e delle argomentazioni proposte da Fanon - figlie del clima sopra richiamato più che di un’esplicita intenzione dell’autore -, cogliere come rinnovato (e senza strumentalizzarlo) il messaggio di fondo. L’esaltazione in particolare del ricorso alla violenza, del ruolo chiave giocato dal popolo e la stessa critica alla borghesia nazionale possono essere rilette oggi senza accentuarne i toni, lasciando così emergere altri elementi evidentemente messi da parte e che si ricollegano sia al primo scritto sia agli altri scritti del periodo algerino. Rilevare infatti che nelle pagine de I dannati della terra non si trovano precisi riferimenti a come strategicamente dovesse muoversi il variegato mondo contadino, individuato da Fanon come una delle principali componenti della lotta di liberazione; quali tipi di rapporti dovesse intrattenere con i partiti nazionalisti, spesso indicati come eccessivamente influenzati dall’ideologia colonialista e quindi scarsamente funzionali alla rivolta; rilevare che mancano menzioni all’uso della propaganda e che non si ritrovano riferimenti alla nuova società che dovrà emergere prendendo le distanze dai modelli occidentali; ma sottolineare che ci troviamo tutt’oggi davanti ad un discorso incalzante, il cui tiro però - aspetto meno rilevato - è spesso corretto con richiami all’attenzione ed inviti ad evitare facili eccessi e degenerazioni che gli iniziali successi possono generare - in fin dei