3. I casi che hanno riacceso il dibattito sul fine vita in Italia
3.1. La vicenda umana e giudiziaria di Piergiorgio Welby
Il caso Welby1, grazie al suo forte impatto mediatico, ha
avuto il merito di richiamare l’attenzione pubblica sulla tematica delle decisioni di fine vita, contribuendo, attraverso gli esiti giuridici, a ribadire i diritti del malato, soprattutto per ciò che riguarda il rifiuto delle terapie salvavita.
Affetto da distrofia muscolare in forma progressiva dall'età di 16 anni, la malattia condusse Welby ad una situazione di estremo handicap fisico che gli comportò la paralisi completa e la perdita della capacità di respirare autonomamente e di parlare, mantenendo intatte però le facoltà intellettive2.
Nonostante fosse costretto a rimanere immobile su un letto collegato ad una macchina di respirazione e alimentazione artificiale, si impegnò attivamente a difesa del diritto di rifiutare le cure e del diritto ad una morte dignitosa.
A seguito dell'appello nel 2006, rimasto inascoltato, al Presidente della Repubblica, Welby si rivolse all'autorità giudiziaria presentando un ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. affinché si acconsentisse all'interruzione dei trattamenti in quanto costituenti, secondo il petitum, accanimento terapeutico.
Il Tribunale di Roma, che intervenne sul ricorso presentato da Welby, con ordinanza del 16 dicembre 2006 tuttavia dichiarò inammissibile la richiesta adducendo delle argomentazioni che, come è stato poi dimostrato in seguito, risultarono discutibili e del tutto contraddittorie3.
L'ordinanza, dopo avere ribadito il carattere costituzionale dei diritti e delle libertà della persona rispetto al proprio corpo e del diritto all’autodeterminazione, afferma poi che questi non sono concretamente tutelabili per mancanza di una specifica disciplina
1 Roma, 26 dicembre 1945-Roma, 20 dicembre 2006
2 A. SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, La Nuova Giurisprudenza Commentata, 1 gennaio 2008
normativa di carattere secondario che ne specificasse l'ambito di applicabilità4.
Si afferma inoltre che la volontà del ricorrente di interrompere la respirazione assistita non costituiva un diritto concretamente tutelato dall'ordinamento in quanto non si consideravano le terapie di sostentamento vitale un trattamento medico, nonostante tale conclusione fosse smentita da massima parte della letteratura scientifica internazionale, e quindi non rientrante nella copertura dell’articolo 32 della costituzione5.
Sulla base di tali considerazioni dunque, non sussisteva l'ipotesi dell'accanimento terapeutico.
Il giudice motiva ulteriormente la sua decisione richiamando inoltre l'art. 5 del codice civile affermando che il principio ispiratore, nell'ordinamento italiano, è quello della indisponibilità del bene vita, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, e gli artt. 575, 576, 577 I comma n. 3, 579 e 580 del codice penale, che puniscono, in particolare l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio6.
Si definisce dunque, secondo il giudice, il preciso dovere del medico di rispettare l'integrità fisica del paziente, anche contro la sua volontà, e l'obbligo giuridico di curarlo e mantenerlo in vita.
La pronuncia fu ritenuta costituire un caso di denegata giustizia, oltre che un tentativo di non lecita subordinazione delle disposizioni costituzionali alle leggi7.
Da quanto emerge dalla lettura del dispositivo del GUP, Welby dopo il diniego dell'ordinanza si rivolge al medico anestesista Mario Riccio che accetta di interrompere i trattamenti a cui era sottoposto trovando così la possibilità di vedere esaudita la sua richiesta di una morte dignitosa8.
Riccio fu accusato del reato di omicidio del consenziente, e seppur il PM avesse formulato richiesta di archiviazione, il Gip la respinse imponendo l'imputazione coatta nei confronti di Riccio su ordine del 7 giugno 2007. Tuttavia, il 23 luglio 2007 il giudice dell’udienza preliminare, con sentenza di non luogo a procedere, proscioglie Riccio dall’accusa di omicidio del consenziente.
4 C. CASONATO, Il malato preso sul serio: consenso e rifiuto delle cure in una recente sentenza della corte di cassazione, Quaderni costituzionali, 3, 2008.
5 Ibidem
6 A. SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, La Nuova Giurisprudenza Commentata, 1 gennaio 2008
7 Ibidem
8 C. CUPELLI, I diritti del paziente e i doveri del medico nelle ‘scelte di fine vita’, Forum di Quaderni Costituzionali, 4 giugno 2009.
3.1.2. Le motivazioni della sentenza del GUP
Si ritiene opportuno analizzare i punti principali che hanno contraddistinto la sentenza del GUP in quanto fortemente innovativi per la delicata materia di cui si tratta.
In primo luogo il giudice descrive minuziosamente lo svolgimento della vicenda analizzando in particolare le condotte e le manifestazioni di volontà di Piergiorgio Welby, fino alla morte, basandosi sulle risultanze documentali e testimoniali9.
Successivamente dà conto delle risultanze dell’accertamento medico-legale che confermano quanto riferito dai testi presenti e quanto documentato da un diario clinico che il Dott. Riccio aveva steso contestualmente allo svolgersi dei fatti10.
Dopo aver ripercorso i fatti salienti che hanno condotto al procedimento, il GUP esprime alcune considerazioni sulle motivazioni del rigetto del Tribunale di Roma al quale era stato richiesto, a seguito del ricorso di Welby, la sospensione dei trattamenti salva-vita.
Confuta infatti dapprima la motivazione dell'ordinanza ex articolo 700 del 16 dicembre 2006 che subordinava le norme di rango costituzionale a quelle codicistiche, sia la ricorrente motivazione secondo cui il preciso dovere del medico è quello di rispettare l'integrità fisica del paziente, anche contro la sua volontà e l'obbligo giuridico di curarlo e mantenerlo in vita11.
Il percorso argomentativo del GUP, infatti, parte dal presupposto di dimostrare la diretta attuazione del principio di autodeterminazione delle cure, nonostante l'assenza di una normazione specifica, sostenendo che il medico dovrebbe limitarsi solamente a dare attuazione alla richiesta del malato a cui spetta l’esercizio della discrezionalità sulla terapia12.
Quanto detto viene motivato ritenendo che il diritto al rifiuto del trattamento terapeutico fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all’art. 2 Cost., e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminazione riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost. e come risulta anche dalla Convenzione di Oviedo, che,
9 A. SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, La Nuova Giurisprudenza Commentata, 1 gennaio 2008
10 Ibidem 11 Ibidem
12 C. CUPELLI, I diritti del paziente e i doveri del medico nelle ‘scelte di fine vita’, Forum di Quaderni Costituzionali, 4 giugno 2009.
seppure non ancora vigente nel nostro ordinamento, deve comunque essere tenuta in conto come criterio interpretativo per il giudice13.
Sottolinea inoltre che tale principio può essere desunto da una serie di provvedimenti della Corte Costituzionale che ne affermano l’immediata precettività ed un ambito di efficacia non soggetto ai limiti derivanti dall’art. 5 c.c. e lo riconosce come uno dei valori supremi rientranti nel nucleo di tutela essenziale dell’individuo, alla stregua del diritto alla vita14.
In qualità di diritto soggettivo tutelato costituzionalmente non necessita di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria15.
Inoltre, rileva il giudice, non sussiste alcuna riserva di legge, in capo all'articolo 32 Cost., che limiti il principio di libera autodeterminazione obbligando il trattamento sanitario per colui che rifiuti cure salva vita16. In questo modo si ribadiva la natura di
trattamento medico delle terapie di sostegno vitale,
Sebbene venga superata dunque la posizione del Giudice civile, il GUP ripropone comunque la necessità di una concreta disciplina volta a regolare e a valorizzare le scelte del paziente, in modo tale che non si corra il rischio che la decisione venga rimessa esclusivamente alla totale discrezionalità del medico o del Giudice17.
Affinché il titolare possa autorizzare la sospensione delle terapie, la sentenza delinea due presupposti: la dichiarazione ad un sanitario qualificato e il consenso qualificato del paziente18.
Riguardo al primo presupposto si fa riferimento alla figura del medico con il quale il paziente stringe alleanza terapeutica, cui spetta l'obbligo di informare il malato delle conseguenze derivanti da ciascuna scelta terapeutica, sia che accetti sia che rifiuti la cura.
Riguardo al consenso, il giudice elenca i requisiti necessari per la sua validità. Partendo da un orientamento giurisprudenziale e dottrinario consolidato, il giudice afferma che il rifiuto debba essere personale, informato, autentico, reale ed attuale19.
13 GUP Roma, sentenza 23 luglio 2007 n. 2049
14 A. SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, La Nuova Giurisprudenza Commentata, 1 gennaio 2008
15 C. CUPELLI, I diritti del paziente e i doveri del medico nelle ‘scelte di fine vita’, Forum di Quaderni Costituzionali, 4 giugno 2009.
16 Ibidem
17 M. AZZALINI, il rifiuto di cure. riflessioni a margine del caso Welby, la nuova giurisprudenza civile commentata, vol. 7 - 8, p. 313-328.
18 Ibidem
19 M. AZZALINI, il rifiuto di cure. riflessioni a margine del caso Welby, la nuova giurisprudenza civile commentata, vol. 7 - 8, p. 313-328.
La richiesta di interruzione formulata da Welby possedeva tutti i requisiti di validità elencati.
Dal provvedimento del GUP si evince dunque che il rifiuto delle terapie deve quindi essere espressione della volontà del paziente, in quanto nessuno può decidere della vita altrui; deve trattarsi di un consenso informato poiché presuppone una piena consapevolezza da parte del paziente sulla propria condizione psico- fisica e sulle conseguenze della scelta, affinché essa sia realmente rispondente delle sue esigenze psico-fisiche; deve essere autentico e non frutto di costrizioni; il rifiuto deve essere esplicito e non solo desumibile; infine attuale, nel senso che esso debba persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato20.
Il giudice infine affronta poi i vari profili penalistici rigettando che la vicenda del caso Welby rientri nella fattispecie degli artt. 575, 576, 577, I comma n. 3, 579 e 580 del codice penale, che puniscono, in particolare l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio21.
Nel caso Welby, in cui il soggetto è libero di determinarsi ma dipendente da trattamenti di sostegno vitale, il punto decisivo è se la sospensione delle cure mediche possa essere considerato un atto attraverso il quale il medico provochi deliberatamente la morte di un paziente o lo aiuti a togliersi la vita.
In questa prospettiva il medico che, nelle condizioni precisate, riceva la richiesta di interrompere i trattamenti verrebbe a trovarsi in una situazione di conflitto tra il dovere di ottemperare alla richiesta del paziente e, dall'altro, dalla norma penale che punisce l'omicidio del consenziente22.
La soluzione di questo conflitto è data, secondo il GUP dall'applicazione della scriminante dell'adempimento di un dovere, che esclude la punibilità di chi adempie un dovere imposto da principi giuridici, ovvero il diritto di rifiutare le cure23.
“Certamente la condotta posta in essere dall'imputato integra
l'elemento materiale del reato di omicidio del consenziente”, che
“del reato contestato sussiste anche l'elemento psicologico, poiché
il dottor Riccio ben sapeva che l'interruzione della terapia di ventilazione assistita avrebbe comportato il decesso del paziente”,
20 GUP Roma, sentenza 23 luglio 2007 n. 2049
21 A. SANTOSUOSSO, La volontà oltre la coscienza: la Cassazione e lo stato vegetativo, La Nuova Giurisprudenza Commentata, 1 gennaio 2008
22 Ibidem 23 Ibidem
ma che “nel caso concreto appare sussistere anche la scriminante
di cui all'art. 51 c.p.” [che esclude la punibilità di chi espleta un
dovere imposto da norme giuridiche]24.
Questa sentenza rappresenta indubbiamente un passo in avanti nel riconoscimento del diritto del malato di autodeterminarsi nelle scelte terapeutiche in relazione alla propria vita e alla propria persona, ridisegnando il rapporto tra medico e paziente.