LE REQUISITORIE PENALI
A) Diritto penale
4. La violazione di sigilli
A fronte di una remissione alle Sezioni Unite della questione “Se si configuri il reato di violazione di sigilli quando la condotta atipica abbia riguardo a sigilli apposti esclusivamente per impedire l’uso illegittimo della cosa e non anche per assicurarne la conservazione o l’identità”,il Procuratore generale78 ha sostenuto: il ricorrente sostiene che, ai fini della affermazione della penale responsabilità, l’apposizione del sigillo sul bene assume il rilievo di presupposto del delitto in questione solo laddove lo stesso sia stato apposto per una delle finalità tassative indi-cate nell’art. 349 c. p., ovvero assicurare la conservazione o l’identità della cosa. Per tale ragione, a suo giudizio non sussiste il reato nel caso in cui siano stati violati i sigilli apposti ad un negozio per attestarne l’i-nagibilità o per impedire il proseguimento dell’attività commerciale o, come nel caso di specie, di una attività di somministrazione al pubbli-co di alimenti e bevande senza la prescritta autorizzazione.
Con riferimento a tale tematica sussiste indubbiamente un contra-sto di giurisprudenza. La Sezione rimettente, in particolare, nella
sin-77Le Sezioni Unite, con la decisione depositata il 6 ottobre 2009, n. 38691, hanno condiviso l’orientamento già prevalente, sostenendo che in tema di peculato, il seque-stro preventivo, funzionale alla confisca “per equivalente” disciplinata dall’art. 322 ter, comma primo c.p., può essere disposto, in base al testuale tenore della norma, soltan-to per il prezzo e non anche per il profitsoltan-to del reasoltan-to. Inoltre la stessa decisione ha esclu-so che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisione-quadro del Consiglio dell’Unione Europea 2005/212/GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter primo comma cod. pen.
anche al profitto del reato.
78In proc. n. 26977/2008, P.G. G. Palombarini.
tetica ordinanza di rimessione, enuncia i contrapposti orientamenti giurisprudenziali formatisi nel corso dell’esegesi applicativa della fat-tispecie incriminatrice dell’art.349 cod. pen. Il primo, sostenuto da una giurisprudenza minoritaria e alla quale si richiama la ricorrente nel proprio atto di impugnazione, àncora al dato letterale l’interpreta-zione della norma incriminatrice, affermando il principio secondo il quale non ricorre il delitto di violazione di sigilli quando il sigillo non è apposto “al fine di assicurare la conservazione o l’identità di una cosa” ma solo per la finalità, considerata diversa e tipicamente sanzio-natoria, di impedirne l’uso. Il secondo invece, sostenuto dalla giuri-sprudenza di legittimità maggioritaria, ritiene invece che << l’oggetto del delitto di violazione di sigilli va individuato nella tutela della intan-gibilità della cosa rispetto ad ogni atto di disposizione o manomissio-ne, dovendosi ricondurre alla finalità di assicurare la conservazione della cosa anche la interdizione dell’uso disposta dall’autorità senza che rilevino le finalità o le ragioni del provvedimento limitativo. L’o-rientamento della giurisprudenza maggioritaria, appare condivisibile.
Infatti, il delitto previsto dall’art. 349 cod. pen., è inserito tra i delitti contro la pubblica amministrazione, dato non trascurabile nell’inter-pretazione della norma. Il bene giuridico tutelato è individuato di con-seguenza nel buon andamento dell’attività amministrativa, che trova un preciso referente di rango costituzionale nell’art. 97 della Costitu-zione, un bene configurabile anche con riferimento all’attività di cu-stodia svolta su cose sottoposte a vincoli cautelari. Non a caso, tradi-zionalmente, per “violazione dei sigilli” viene intesa una qualsiasi con-dotta che, pur senza comportarne la manomissione, ne elude la fun-zione di custodia. La norma tutela, infatti, non tanto l’integrità mate-riale quanto quella strumentale e funzionale del sigillo, che, in quanto costituisce più che altro “segno” della volontà della P.A. di assicurare la cosa soggetta a vincolo cautelare, può non essere idoneo ad impedi-re l’ “accesso” alla cosa. Ebbene, se la violazione dei sigilli dolosa (art.
349 c.p.) o colposa (art. 350 c.p.) non è reato che ha per oggetto la tu-tela dell’integrità fisica della cosa, ma vuole garantire con una sanzio-ne penale il rispetto dovuto al particolare stadio di custodia sanzio-nel quale determinate cose vengono a trovarsi per volontà degli organi dello Stato; questo rispetto è dovuto anche quando con la custodia si vuole impedire l’uso della cosa. E’evidente la finalità “preventiva” del seque-stro e della conseguente apposizione dei sigilli. Il reato di cui all’art.
349 cod. pen. presuppone infatti l’applicazione dei sigilli per disposi-zione di legge o per ordine delle autorità competenti (anche se non giudiziarie). I sigilli sono il mezzo assicurante – così è scritto in una
sentenza della Suprema Corte – con il quale la pubblica amministra-zione manifesta la sua volontà di assicurare determinate cose contro ogni atto di disposizione da parte di colui che ne avrebbe il diritto, ma che di questo diritto non può fare uso perché gli è stato interdetto. Si noti, sia detto per inciso, che nel caso di specie non è stata contestata la legittimità dell’interdizione. Dunque, questo è il fine che la norma in esame vuole esprimere allorché sembra limitare la sua particolare tutela ai sigilli apposti per assicurare la conservazione o l’identità di una cosa. Conservare una cosa, in realtà, significa mantenerla nello stato in cui attualmente si trova: e quindi sottrarla all’esercizio di ogni facoltà altrui compresa quella di farne uso. Quando dunque si tratta di sigilli apposti per il fine suddetto, la violazione di essi, come appunto è nel caso di specie, può configurare il reato in esame, ovviamente ove ne ricorrano gli altri estremi. Con riferimento a tali rilievi si è osserva-to in dottrina che <<le finalità indicate dalla norma non sono di per sé escluse dalla eventuale compresenza di altri fini ed obiettivi, ulteriori ri-spetto alla conservazione o all’identità della cosa che si vogliono stru-mentalmente garantire>>. Fini ulteriori, a me pare, che rientrano co-munque nella conservazione della cosa. In quest’ottica, si può affer-mare che l’interdizione all’uso può essere ricondotta o comunque ri-collegata al concetto di conservazione.79
5. Fraudolente alterazioni per impedire l’identificazione o l’accertamento di qualità personali (art. 495 ter c.p.)
La Procura generale80, letti gli atti relativi al ricorso proposto av-verso l’ordinanza con la quale il G.I.P. del Tribunale di Torino aveva convalidato l’arresto eseguito dalla polizia giudiziaria nei confronti del ricorrente, ha osservato che il cittadino extracomunitario era stato sot-toposto a fermo di polizia giudiziaria per reati in materia di sostanze stupefacenti. Stante la pessima qualità delle impronte digitali rilevate all’atto del fermo, soltanto nei giorni successivi la polizia scientifica riusciva a comparare utilmente i precedenti dattiloscopici del sogget-to (nel frattempo ristretsogget-to in carcere per i reati in tema di droga, ri-guardo ai quali era stata emessa ordinanza di convalida del fermo e di applicazione della misura cautelare custodiale). La polizia giudiziaria – constatato che il prevenuto aveva alterato parti del suo corpo
me-79 Le SS. UU., con decisione assunta nell’udienza del 26 novembre 2009, ed in corso di deposito, ha condiviso la soluzione sostenuta dalla Procura generale.
80In proc. n. 33561/2008, P.G. A. Mura.
diante “consunzione del piano tattile dei polpastrelli, allo scopo di non consentire l’accertamento della sua identità personale” e che in passato egli aveva fornito in più occasioni, quale persona sottoposta ad inda-gini, generalità diverse – dichiarava in arresto il predetto per violazio-ne degli articoli 495-ter (“fraudolente alterazioni per impedire l’identi-ficazione o l’accertamento di qualità personali”) e 495 (“falsa attesta-zione o dichiaraattesta-zione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”) del codice penale. Riguardo ad entrambi detti reati, aggravati ex articolo 61 n. 11-bis c.p., il G.I.P. accoglieva la richiesta del pubblico ministero di convalida dell’arresto ed emanava l’ordinanza di cui in epigrafe, della quale la difesa dell’odierno ricor-rente lamenta l’illegittimità e chiede l’annullamento.
In merito la requisitoria riteneva: tra le fattispecie delittuose per le quali è stato eseguito l’arresto del quale qui si discute, la prima ad essere fatta oggetto di riflessione da parte del G.I.P. è quella prevista e punita dall’articolo 495-ter c.p., introdotto dalla legge 24 luglio 2008 n.
125, la quale ha convertito – con modificazioni – il decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92 ed è entrata in vigore il 26 luglio 2008. Al riguardo, il Giudice piemontese premette notazioni sulla collocazione sistemati-ca della nuova norma in tema di fraudolente alterazioni fisiche fina-lizzate ad impedire l’identificazione e tratta, altresì, dell’oggetto giuri-dico dei reati contro la fede pubblica, del carattere pluri-offensivo di essi, della “sorta di ibridazione concettuale e giuridica tra una falsità materiale (...) e una falsità personale” ravvisabile nella nuova ipotesi di reato, del quale definisce quindi l’oggetto della tutela: trattazione ac-curata e in linea di massima condivisibile, pur non risultando essa ri-levante ai fini del decidere. Quando, però, affronta gli “aspetti classifi-catori del nuovo titolo di reato”, il giudicante afferma trattarsi di “delit-to permanente (od eventualmente permanente, allorché è soltan“delit-to possi-bile lo sfasamento tra realizzazione e consumazione del reato)”, argo-mentando tale asserzione in base alla “circostanza che, per effetto della fraudolenta mutilazione o alterazione del corpo viene a crearsi una si-tuazione di pericolo per il bene giuridico protetto suscettiva di protrarsi continuativamente per un apprezzabile spazio di tempo (l’abrasione del piano tattile, ad esempio, è situazione in grado di impedire, ostacolare o rendere più difficoltosa l’identificazione fisica del soggetto per tutto il tempo in cui la modificazione somatica indotta dalla condotta abrasiva si mantiene e si manifesta), dall’altro, dal fatto che, una volta scientifi-camente accertato che l’impronta papillare abrasa è suscettibile di ricom-posizione per effetto dei naturali processi di rigenerazione cellulare del derma, la condotta omissiva del reo (che ponga fine ad atti di ripetuta
abrasione dei polpastrelli) unitamente all’inevitabile decorso del tempo sono fattori codeterminanti in grado di interrompere la lesione (messa in pericolo) del bene protetto, quale effetto ricollegabile anche alla volontà del soggetto attivo (art. 41 comma 1 c.p.)”. L’estensore ritiene, quindi, di prevenire possibili obiezioni alla sua tesi mediante una “attenta con-siderazione della singolare struttura del reato in discorso”, in base alla quale afferma che “almeno nei casi di alterazione reversibile delle creste papillari (come si riscontra nel caso di specie) la protrazione dell’offesa al bene protetto avviene per effetto di una volontaria opera dell’agente che continua a contrastare la inevitabile quanto fisiologica “ricrescita” del polpastrello abraso con successivi e ripetuti atti commissivi di cancella-zione, contribuendo così in prima persona al permanere della situazione antigiuridica, che è in grado di far cessare astenendosi da periodiche ra-schiature obliteranti. Ovviamente,” – si legge ancora nell’ordinanza –
“proprio la peculiarità della fattispecie in cui deve tenersi conto anche della eventuale reazione fisiologica ed incontrollabile dell’organismo alle volontarie pratiche alteranti, impone di calibrare la soluzione circa la na-tura del reato ai casi concreti di volta in volta esaminati. Trattandosi di reato permanente, da un lato, deve ritenersi che il tempus commissi de-licti coincida con la cessazione della condotta e, quindi, con la cessazio-ne della permacessazio-nenza ai fini della successiocessazio-ne delle leggi penali cessazio-nel tempo (art. 2 c.p.) e, quindi, anche ai fini dell’operatività del divieto di retroat-tività della legge penale incriminatrice, dall’altro, va rilevato che, alla luce della disposizione di cui all’art. 382 comma 2 c.p.p., lo stato di fla-granza deve considerarsi sussistente nel momento in, all’atto dell’accer-tamento, l’impronta papillare (o la mutilazione od alterazione di altra parte del corpo utile all’identificazione o all’accertamento di qualità) ri-sulti ancora alterata (continuando a mettere a repentaglio il bene protet-to), ad esempio perché, in tutto o in parte, abrasa, e quindi sussista an-cora una condizione di permanenza del reato”.
La Procura generale ha dissentito dall’argomentare testé richia-mato e dalle conclusioni cui, in base ad esso, perviene il G.I.P. torine-se ritenendo fondate, in proposito, le deduzioni della difesa ricorren-te. Tanto la definizione normativa della condotta incriminata, quanto i caratteri concreti della fattispecie in esame inducono ad escludere che il delitto p. e p. dall’articolo 495-ter c.p. possa definirsi permanen-te. Trattasi, invero, di condotta che si esaurisce istantaneamente, no-nostante ne derivino effetti dannosi o pericolosi atti a perdurare per un certo lasso di tempo. Ne offre riprova la constatazione che il pro-trarsi di detti effetti sfugge interamente al controllo – e, dunque, alla volontà – dell’autore, il quale non è in grado di determinarne la
cessa-zione o di influire sulla stessa: al potere di instaurare la situacessa-zione an-tigiuridica non corrisponde anche quello di rimuoverla, che è tipico del reato permanente, nel quale rileva non solo l’attività iniziale (la quale realizza la lesione/compressione del bene), ma anche quella suc-cessiva di volontario mantenimento. E’ fallace l’argomento sviluppato dal giudicante quando invoca la circostanza che “la condotta omissiva del reo (che ponga fine ad atti di ripetuta abrasione dei polpastrelli) uni-tamente all’inevitabile decorso del tempo sono fattori codeterminanti in grado di interrompere la lesione (messa in pericolo) del bene protetto, quale effetto ricollegabile anche alla volontà del soggetto attivo (art. 41 comma 1 c.p.)”. Quella c.d. “condotta omissiva” è, in realtà, la non rei-terazione dell’azione criminosa (una o più volte posta in essere in pre-cedenza): cioè la non commissione di un ulteriore, omologo delitto.
Ma tale presupposto nulla ha a che fare con la categoria dogmatica del reato permanente: altrimenti – portando alle estreme conseguenze il ragionamento del G.I.P. – dovrebbe dirsi permanente il delitto di lesio-ni personali realizzato vibrando una pugnalata non mortale al corpo della vittima, perché anche in tal caso “la condotta omissiva del reo”
(che non reiteri l’accoltellamento) “unitamente all’inevitabile decorso del tempo” sarebbero “fattori codeterminanti in grado di interrompe-re la lesione (messa in pericolo) del bene protetto”. Ma la fallacia della tesi sviluppata nell’ordinanza risalta con chiarezza anche esaminan-done le conseguenze da ulteriori angoli di visuale. Infatti, qualunque sia l’atteggiamento psicologico dell’agente successivamente all’altera-zione irreversibile dei polpastrelli realizzata con dolo specifico, egli non è in grado di far cessare il danno (o il pericolo) per la fede pubbli-ca, la causazione del quale la norma incriminatrice intende sanziona-re: soltanto i processi rigenerativi naturali e le cure mediche rilevano in tale prospettiva. Nel caso di specie, inoltre, la stessa ordinanza dà atto di “un progressivo miglioramento del pavimento papillare dovuto alla rigenerazione cellulare delle papille nell’intertempo in cui l’indagato si trovava ristretto in carcere e, quindi, si trovava impossibilitato a pra-ticare le continue e/o periodiche alterazioni (raschiature) funzionali al-l’occultamento e al non rilevamento della sua identità fisica”. E il Pro-curatore della Repubblica di Torino, nella richiesta di convalida del-l’arresto indirizzata al G.I.P. il 7 agosto 2008, afferma che è possibile
“collocare con certezza l’epoca della fraudolenta mutilazione per cui si procede oggi tra il 13 maggio ed il 24 luglio 2008”. Dunque, si ammette che Mboup MOR – dal 24 luglio 2008 (giorno del fermo per reati con-cernenti sostanze stupefacenti) – non si attivò in alcun modo per alte-rare la cute dei suoi polpastrelli: non pose in essere, quindi, dopo
quel-la data, quel-la condotta sanzionata dall’articolo 495-ter del codice penale.
Posto che questa norma incriminatrice è entrata in vigore il successivo 26 luglio, non pare in alcun modo ravvisabile la violazione di essa da parte dell’odierno ricorrente, il quale non risulta avere posto in essere – nella vigenza della disposizione penale – la condotta vietata. Tanto meno può parlarsi di flagranza. L’ordinanza di convalida dell’arresto, per quanto inerisce all’articolo 495-ter c.p., risulta dunque illegittima.
Peraltro nell’occasione si è ulteriormente argomentato: nonostan-te la condivisibilità delle deduzioni svolnonostan-te dalla difesa, la cui fondanonostan-tez- fondatez-za emerge dalla trattazione sinora svolta, non sembra che il ricorso possa trovare accoglimento e sfociare nell’annullamento dell’ordinan-za impugnata. E’ vero che, ove questa avesse avuto ad oggetto soltan-to la convalida dell’arressoltan-to per il delitsoltan-to previssoltan-to e punisoltan-to dall’articolo 495-ter c.p., la conclusione coerente con le premesse enunciate nella presente requisitoria sarebbe stata l’annullamento senza rinvio. Tutta-via si deve rilevare che il provvedimento di convalida inerisce pure al-l’altra fattispecie criminosa rubricata a carico (delitto p. e p. dagli ar-ticoli 61 n. 11-bis e 495 c.p.) e che rispetto ad essa non risultano enun-ciati specifici motivi di ricorso. Sulla base di tali presupposti, non è dato in questa sede discutere in ordine alla legittimità della convalida dell’arresto per detta ipotesi delittuosa, che esula dall’impugnazione devoluta alla Corte di cassazione. L’ordinanza impugnata – seppure anche al riguardo motivata in modo assai opinabile per varie ragioni, sul piano della legittimità – è, per il profilo ora menzionato, intangibi-le: insuscettibile, dunque, di annullamento. Né pare doversi addiveni-re ad un annullamento parziale (limitatamente alla convalida dell’ar-resto inerente all’articolo 495-ter c.p.), che avrebbe valore meramente formale perché inidoneo a riverberarsi in concreto sulla posizione del-l’impugnante. In conclusione, si ritiene conforme al diritto sollecitare la reiezione del ricorso, con contestuale precisazione da parte della Suprema Corte delle correzioni degli errori di diritto nella motivazio-ne dell’ordinanza di convalida dell’arresto emessa dal G.I.P. del Tribu-nale di Torino in data 8 agosto 2008, alla luce dei rilievi sviluppati nei motivi d’impugnazione e nella presente requisitoria.81
6. Cessione di stupefacenti e morte dell’assuntore (art. 586 c.p.) Con ordinanza n. 41026 del 3 novembre 2008 la quarta sezione
81Con sintetica motivazione la Sez. V ha condiviso la principale argomentazione della Procura generale (sentenza 31202/2009).
aveva richiesto l’intervento delle Sezioni Unite sulla questione che si poneva al fine dell’accertamento della responsabilità penale dello spacciatore di sostanze stupefacenti per la morte del soggetto acqui-rente, decesso avvenuto in conseguenza della cessione o di più cessio-ni intermedie della sostanza stupefacente risultata letale per l’assunto-re; ovvero se fosse sufficiente o meno la prova del nesso di causalità materiale fra la precedente condotta di cessione e l’evento morte, di-verso ed ulteriore, o se non dovesse essere anche dimostrata la sussi-stenza di un profilo colposo per non avere preveduto l’evento.
Nella propria requisitoria il Procuratore generale82, ha preso atto che la difesa affermava che l’evento letale occorso all’assuntore fosse stato erroneamente addebitato all’imputato sulla base del mero nesso di causalità materiale, che la fattispecie disciplinata dall’art. 586 c.p.
rientra tra i casi che sogliono ricondursi al c.d. decorso causale atipi-co, connotato da una successione degli eventi che fuoriesce dagli sche-mi di ordinaria prevedibilità. Relativamente a tali casi il rapporto di causalità sussiste tutte le volte in cui non è improbabile che l’azione produca l’evento. Pertanto il giudizio di probabilità si appunta neces-sariamente sulle circostanze presenti al momento dell’azione conosci-bili ex ante dal soggetto agente. In risposta al quesito proposto sul punto alle Sezioni Unite ha pertanto osservato: intanto va ricordato che nella Relazione ministeriale al codice del 1930 si osservava che
“mentre l’art. 587 del progetto preliminare puniva il fatto predetto a ti-tolo di responsabilità obiettiva, nel progetto definitivo la disposizione venne modificata in correlazione con l’art. 86 [poi divenuto art. 83] del progetto medesimo, per il quale gli eventi, diversi da quelli voluti dal-l’agente, sono punibili a titolo di colpa, se la legge li prevede tra i de-litti colposi. L’art. 586 non è, pertanto, che una conferma e una parti-colare applicazione di questo principio generale, e trova la sua ragio-ne ragio-nel fatto che vieragio-ne stabilito un aumento di pena per l’omicidio e le lesioni personali colposi”. Nella giurisprudenza costituzionale, poi, pur non essendo mai stato affrontato esplicitamente il tema della le-gittimità della disciplina dettata dall’art. 586 c.p., è ormai consolidato l’orientamento che esclude l’ammissibilità di ipotesi di responsabilità oggettiva. Già da un ventennio, infatti, la Corte Costituzionale ha
“mentre l’art. 587 del progetto preliminare puniva il fatto predetto a ti-tolo di responsabilità obiettiva, nel progetto definitivo la disposizione venne modificata in correlazione con l’art. 86 [poi divenuto art. 83] del progetto medesimo, per il quale gli eventi, diversi da quelli voluti dal-l’agente, sono punibili a titolo di colpa, se la legge li prevede tra i de-litti colposi. L’art. 586 non è, pertanto, che una conferma e una parti-colare applicazione di questo principio generale, e trova la sua ragio-ne ragio-nel fatto che vieragio-ne stabilito un aumento di pena per l’omicidio e le lesioni personali colposi”. Nella giurisprudenza costituzionale, poi, pur non essendo mai stato affrontato esplicitamente il tema della le-gittimità della disciplina dettata dall’art. 586 c.p., è ormai consolidato l’orientamento che esclude l’ammissibilità di ipotesi di responsabilità oggettiva. Già da un ventennio, infatti, la Corte Costituzionale ha