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La legislazione speciale 1 In tema di diritto d’autore

LE REQUISITORIE PENALI

A) Diritto penale

9. La legislazione speciale 1 In tema di diritto d’autore

La seconda sezione penale aveva rimesso alle Sezioni Unite, con ordinanza del 21 aprile 2009, la decisione che riguardava la duplica-zione e commercializzaduplica-zione, in videocassette, di opere cinematogra-fiche prodotte della Walt Disney (oggi Disney Enterprises), in quanto preliminare era risultata la risoluzione della questione relativa alla ap-plicabilità o meno del termine di durata dei diritti di utilizzazione eco-nomica delle opere cinematografiche alle opere già di pubblico domi-nio al momento di entrata in vigore delle nuove disposizioni in tema di diritto di autore, che hanno fissato in cinquanta anni la durata di tali diritti. Inoltre, trattandosi di autori statunitensi si poneva l’ulterio-re problema se nel computo dei termini di durata di tali diritti occor-resse o meno tenere conto della proroga della sospensione che era stata prevista nel periodo post bellico (e sino alla entrata in vigore del Trattato di Parigi). Affrontando la questione proposta alle Sezioni Unite della Seconda Sezione penale il Procuratore generale88 ha rile-vato come nel merito – lo aveva già osserrile-vato la Corte d’Appello di Mi-lano nell’impugnata sentenza – il principale argomento proposto con le impugnazioni degli imputati riguarda la durata del diritto l’autore;

e quella Corte ha aggiunto in proposito “che se fosse fondato l’assun-to dell’appellante verrebbe a cadere la parte principale dell’impianl’assun-to accusatorio, non vi sarebbero cioè né truffa, né violazioni del diritto d’autore”. Ai fini della soluzione delle questioni si è sostenuto: pare convincente la giurisprudenza della Terza Sezione penale, come espressa con la sentenza n. 1917 del 27 giugno 2007 senza indugiare sulle argomentazioni poste a sostegno dell’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna di S. M. per fatti analoghi a quelli di cui si discute oggi. Può ricordarsi soltanto in sintesi, che, dissociandosi dalla giurisprudenza civile di questa Corte, la Terza penale ne ha puntual-mente contestato le relative motivazioni, in particolare affermando l’irrilevanza della circostanza che le due disposizioni (D. Lgs. Lgt. n.

440 del 1945 e Allegato 15, lett. A) n. 3 del Trattato di pace) abbiano durata diversa, si riferiscano a soggetti diversi, usino termini diversi (proroga e sospensione o estensione). Su questo piano, infatti, la diver-sità tra le due disposizioni è ancor più radicale perché la prima fa parte dell’ordinamento giuridico italiano mentre la seconda fa parte

88P.G. G. Palombarini, proc. 27790/2004, ud. 24 settembre 2009.

dell’ordinamento internazionale. Questi rilievi non sono però decisi-vi. Il fatto è che le finalità dichiaratamente perseguite dall’Allegato 15 del Trattato di pace e lo stesso tenore testuale delle sue disposizioni non richiedevano affatto che ai cittadini delle potenze alleate ed assi-milate vincitrici fosse riservato - in ordine alla durata dei diritti di au-tore in generale, e delle opere cinematografiche in particolare - una protezione privilegiata e più ampia rispetto a quella accordata ai cit-tadini italiani, essendosi anzi espressamente escluso che, per effetto delle disposizioni stesse, potesse derivare ai cittadini delle potenze al-leate un trattamento più favorevole degli uni rispetto agli altri. L’uni-co effetto che la disposizione di cui al citato n. 3 dell’Allegato 15 vole-va perseguire era che, nel calcolo dei termini normali di vole-validità dei di-ritti di autore “che erano in vigore in Italia allo scoppio della guerra” ed appartenenti ai cittadini delle potenze alleate, non si sarebbe dovuto tener conto del periodo di tempo intercorso durante la guerra, e che di conseguenza la “durata normale” di tali diritti sarebbe stata automati-camente estesa per il tempo di durata della guerra. Dunque, già secon-do il suo tenore testuale la disposizione del trattato si riferiva esclusi-vamente ai termini normali di validità, vigenti in Italia allo scoppio della guerra, ed alla durata normale dei diritti di autore.

Pertanto è evidente che la disposizione del trattato, nel prevedere l’estensione del termine, non ha inteso riferirsi al termine comprensi-vo anche della proroga stabilita col D. Lgs. Lgt. n. 440 del 1945 (già vi-gente al momento della stipulazione del trattato), che non costituiva il termine normale di protezione, ma un termine speciale applicabile solo alle opere di alcuni autori, e che comunque non era in vigore al mo-mento dello scoppio della guerra. Lo scopo perseguito dalla disposi-zione era chiaramente proprio quello di estendere ai cittadini delle po-tenze alleate il beneficio già concesso ai cittadini italiani ed assimilati dal D. Lgs. Lgt. n. 400 del 1945 (e di cui era, quanto meno, incerta l’ap-plicabilità agli stranieri o ad alcuni stranieri), senza la creazione di in-giustificate posizioni di privilegio. Una disposizione razionale, finaliz-zata a ottenere un risultato di giustizia con riferimento agli effetti della guerra sul godimento dei diritti d’autore. È inoltre evidente che, se si dovesse ritenere inserita nell’ordinamento una norma che avesse l’effetto di accordare ai cittadini delle potenze alleate, per compensar-li del mancato esercizio dei diritti di autore durante la guerra, un di-verso termine di 11 anni, 10 mesi e 8 giorni, anziché quello normale di sei anni previsto per i cittadini italiani, si sarebbe in presenza di una norma, di dubbia costituzionalità, che avrebbe attribuito inspiegata-mente ai detti cittadini un trattamento privilegiato e più favorevole,

ne’imposto ne’giustificato dalle disposizioni del trattato. Per effetto del-l’ordine di esecuzione del trattato, deve dunque ritenersi immessa nel-l’ordinamento interno una norma che attribuiva ai cittadini delle po-tenze alleate vincitrici sostanzialmente lo stesso termine già attribuito ai cittadini italiani per neutralizzare gli effetti negativi determinati dallo stato di guerra sull’esercizio dei diritti di utilizzazione delle opere dell’ingegno, impedito durante il periodo bellico. Si può dunque affermare che i giudici di merito hanno erroneamente ritenuto la per-sistenza dei diritti d’autore sulle opere in oggetto, in quanto deve rite-nersi inapplicabile, alla durata dei diritti di utilizzazione, pari a tren-tasei anni, la proroga prevista dal Trattato di pace di Parigi, giacché con tale ultima disposizione si veniva in realtà ad applicare anche ai cittadini dei paesi alleati ed associati un trattamento (quello, appunto di proroga) che il d.lgt. n. 440 del 1945 aveva previsto per i soli citta-dini italiani ed equiparati. In definitiva, quindi, allorquando con il d.p.r. n. 19 del 1979, è stato stabilito il termine di cinquant’anni per la durata dei diritti, la validità dei diritti d’autore relativi alle opere della Walt Disney (di durata, appunto, trentaseiennale) era già venuta meno con conseguente insussistenza dei reati attribuiti ai M.

Quanto al problema dell’applicabilità del nuovo termine cin-quantennale alle opere già cadute in pubblico dominio, premesso che, secondo l’art. 11 preleggi la legge non dispone che per l’avvenire, essa non ha effetto retroattivo, va osservato che nel D. Lgs. n. 19 del 1979 non vi è una norma nel senso che i nuovi termini di durata della protezione delle opere cinematografiche debbano applicarsi anche alle opere già in precedenza cadute in pubblico dominio. Ricorda la sentenza 1917 della 3^ sezione che ho già citato, che quando il legisla-tore ha voluto dare efficacia retroattiva ai nuovi termini di durata della protezione ed in particolare ha voluto estenderli alle opere già cadute in pubblico dominio, lo ha espressamente previsto, ponendo altresì una disciplina transitoria in ordine ai contratti stipulati ed ai rapporti sorti in relazione al lecito esercizio del diritto di sfruttamen-to dell’opera caduta in pubblico dominio da parte di soggetti diversi dall’originario titolare. Infine – mi riferisco a quei capi d’imputazione nei quali non è indicata con precisione la data del fatto, ma si usa la formula “fino al”, con una indicazione che potrebbe quindi riferirsi anche a un tempo antecedente al 1979 – non va trascurata la circostan-za che l’applicabilità del nuovo termine alle opere già cadute in pub-blico dominio, se interpretata retroattivamente, potrebbe in definitiva avere riflessi sui principi di cui all’art. 2 c.p. in tema di successione di leggi penali. Di qui, appunto, la conclusione che l’estensione da 30 a

50 anni del termine di protezione per le opere cinematografiche ope-rata dal D. Lgs. n. 19 del 1979 non riguardi i film che erano in prece-denza già caduti appunto in pubblico dominio. Dunque, per effetto di queste considerazioni si possono formulare le prime conclusioni. La insussistenza dei reati concernenti le violazioni del diritto d’autore e quelli di cui all’art. 640 c.p. va pronunciata nei confronti di S.M., men-tre per la posizione di I.M. va pronunciato l’annullamento senza rin-vio della sentenza impugnata essendo i reati estinti per morte del reo.

Tra l’altro – dico ciò del tutto incidentalmente in quanto la circostan-za non incide sulle mie conclusioni – dovendosi tenere conto della prima proiezione del filmato, che per “I tre porcellini” è del 1933 (la decorrenza da tale momento è prevista dall’originario art. 32 della legge n. 633 del 1941), se si computano 35 anni e 9 mesi (ovvero la sola proroga del 1945) il termine è scaduto nel settembre del 1968; se si cal-colano 41 anni e 9 mesi (ovvero entrambe le proroghe) il termine è scaduto nel settembre 1974 e quindi in ogni caso, prima del D.p.r. del 197989.

9.2 La falsa dichiarazione per l’ammissione al gratuito patro-cinio

La quarta sezione della Corte, chiamata a valutare se il reato di cui all’art. 95 del d.p.r. n. 115 del 2002 sussistesse anche nel caso di c.d.

falso innocuo, cioè di non superamento da parte dell’istante dei limiti reddituali che consentono 1’ammissione al gratuito patrocinio, aveva ritenuto di dovere rimettere la questione all’esame delle Sezioni Unite stante l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale sul punto90.

Il Procuratore generale ha rilevato che a fronte dell’ampio indiriz-zo secondo il quale il reato in esame non sussiste, laddove la condotta non si sostanzi nella falsa dichiarazione di avere un reddito inferiore a quello fissato quale soglia di ammissibilità dell’istanza, (in

proposi-89La decisione, assunta nell’udienza del 24 settembre 2009, non risultava ancora depositata al momento della redazione del presente volume, anche se dall’esame del di-spositivo si può ricavare una risposta negativa ad entrambe le questioni sottoposte dalla sezione remittente.

90L’art. 95 prevede che “La falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni previste dal-l’articolo 79, comma 1, lettere b), c) e d), sono punite con la reclusione da uno a cin-que anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549,37. La pena è aumentata se dal fatto consegue 1’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al patrocinio; la con-danna importa la revoca, con efficacia retroattiva, e il recupero a carico del responsa-bile delle somme corrisposte dallo Stato”.

to Cass. V, 12.5.2006, n. 16338), la Corte di Palermo ha ritenuto il ra-gionamento seguito da questa sentenza e da altre della Cassazione non convincente, “poiché trascura di considerare che la norma incrimina-trice prevede espressamente un aumento della pena ove, grazie alla falsa dichiarazione, si sia riusciti ad ottenere l’ammissione, e prevede inoltre la revoca, con effetto ex tunc, del relativo provvedimento”, so-stenendo che l’argomento appariva insuperabile per le seguenti ragio-ni: infatti qui vi è una distinzione significativa, secondo questa senten-za della Corte di Palermo, che è impossibile trascurare. Proprio il fatto che scatta l’aggravante se il falso non è innocuo lascia intendere che comunque il falso è punito. In proposito appare convincente il diver-so orientamento pure riscontrabile nella giurisprudenza della Supre-ma Corte. L’ordinanza di rimessione cita fra le altre una recente deci-sione della Quinta Sezione, 24 gennaio 2008, n. 13309, Marino, rv.

239387, secondo cui il reato delineato dall’art. 95 d.P.R n. 115 del 2002 punisce le false dichiarazioni circa le condizioni reddituali, a prescin-dere dall’incidenza che possano avere avuto sull’ammissione al patro-cinio, tanto che è previsto un aggravamento di pena per il caso in cui la falsità sia stata decisiva ai fini dell’ammissione. Infatti la norma sta-bilisce che le dichiarazioni sostitutive delle certificazioni sulle condi-zioni di reddito vanno fatte ai sensi della legge sulle autocertificazio-ni, che dà rilevanza penale alle dichiarazioni non veritiere in genere.

L’obbligo di dichiarazione veritiera – ricorda puntualmente l’ordinan-za della Quarta Sezione, richiamando l’orientamento fatto proprio dalla Corte di Palermo - discende anche dalla previsione di cui all’art.

96 d.P.R n. 115 del 2002, secondo cui il magistrato, chiamato a valuta-re l’istanza di ammissione al patrocinio, deve valuta-respingerla se vi sono fondati motivi per ritenere che l’interessato non versi nelle condizioni di cui agli artt. 76 e 92 del medesimo decreto, che fissano i limiti di reddito; e dalla previsione dell’art. 98, che stabilisce che l’ufficio finan-ziario verifica l’esattezza dell’ammontare del reddito attestato, nonché la compatibilità dei dati indicati con le risultanze dell’anagrafe tribu-taria, e può disporre la verifica della posizione fiscale dell’istante e degli altri soggetti indicati nell’art. 76. Tutto ciò conferma che il fine della norma è quello di ammettere al patrocinio solo i soggetti che hanno un reddito, effettivo e non solo dichiarato, compreso nei limiti di legge. Da qui l’obbligo per l’interessato di rendere dichiarazioni ge-nericamente veritiere anche per consentire l’accertamento secondo quanto previsto dalla legge. Correttamente si può concludere che non si può ritenere che la parte precettiva della norma contenuta nell’art.

95 richieda un quid pluris rispetto alla parte precettiva della norma

dell’art. 483 c.p., che punisce qualsiasi infedele attestazione, e cioè l’af-fermazione, contraria al vero, di avere un reddito inferiore a quello fis-sato dal legislatore quale soglia di ammissibilità, poiché qualsiasi ele-mento indicativo di reddito, anche inferiore a quello significativo ai fini del superamento della soglia, deve essere dichiarato per consenti-re la valutazione ai sensi degli artt. 96 e 98 d.P.R n. 115. Va aggiunta poi una considerazione relativa alla previsione delle ipotesi di revoca dell’ammissione al patrocinio, di cui all’art. 112 d.P.R. n. 115 del 2002.

Data la tassatività dei casi di revoca - costituiti dall’omessa comunica-zione nei termini di eventuali variazioni dei limiti di reddito, dalla va-riazione dei limiti di reddito, come da comunicazione, in misura da escludere l’ammissione, dall’omessa produzione nei termini della cer-tificazione dell’autorità consolare, dal raggiungimento della prova della mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito per l’ammissione al patrocinio - si avrebbe la paradossale conclusione, se si accedesse alla tesi dell’irrilevanza delle false dichiarazioni prive di incidenza effettiva sull’ammissibilità al patrocinio, che la revoca do-vrebbe essere adottata in presenza di un’omessa comunicazione delle variazioni del reddito, anche se ininfluente rispetto al superamento della soglia di legge, e non anche in caso di originaria inveritiera di-chiarazione, pur essa ugualmente ininfluente.91

9.3 Reati fallimentari

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appel-lo aveva proposto ricorso sul presupposto che la sentenza impugnata non avesse applicato la circostanza aggravante prevista dall’art. 219 legge fall. e, pertanto, in luogo di procedere a giudizio di comparazio-ne tra le concesse circostanze attenuanti gecomparazio-neriche e detta aggravante, avesse, nel caso di specie, irrogato un aumento di pena ex art. 81 c.p.v.

c.p., avendo stimato i reati de quibus unificati sotto il vincolo della continuazione.

Il Procuratore generale92 ha in merito sostenuto: è noto che l’art.

219 comma II n. 1 della legge fall. prevede che l’aumento di pena deve essere applicato “se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli pre-visti in ciascuno” degli artt. 216 e 217 della stessa legge; in altri

termi-91Le Sezioni Unite (27 novembre 2008 - 16 febbraio 2009 n. 6591) hanno afferma-to sul punafferma-to: Il reaafferma-to di cui all’art. 95 del d.p.r. n. 115 del 2002, falsità od omissioni nelle dichiarazioni relative alle condizioni per l’ammissione al gratuito patrocinio, si confi-gura anche se il reddito accertato non supera la soglia minima prevista.

92Proc. n. 3240/2009, P.G. L. Riello.

ni, detta norma contiene una disciplina alternativa a quella del con-corso di reati e della continuazione, dato che prevede un’aggravante nel caso in cui una persona commetta più fatti di bancarotta. Tuttavia, non sfugge al deducente che sia in giurisprudenza che in dottrina -c’è contrasto sull’ambito di applicabilità della disposizione, perché quest’ultima, secondo un orientamento, riguarderebbe solo la com-missione di più fatti previsti dallo stesso articolo (vale a dire di più fatti di bancarotta fraudolenta oppure di più fatti di bancarotta sem-plice) mentre, secondo l’altro orientamento, dovrebbe riguardare anche la commissione di fatti previsti da diversi articoli. Più in parti-colare, è stato ritenuto – cfr. Cass. sez. V, sent. n. 48282/2004 – che “in tema di reati fallimentari, poiché la legge limita la considerazione uni-taria della bancarotta alla sfera interna di ciascuno degli artt. 216 e 217 legge fallimentare, deve ritenersi possibile il concorso cosiddetto “ester-no” tra la bancarotta fraudolenta e la bancarotta semplice, fattispecie di reato fra loro completamente autonome; può dunque ammettersi, sulla base di tale principio, la continuazione tra fatti di bancarotta fraudolen-ta e fatti di bancarotfraudolen-ta semplice, allorché le fattispecie materiali delle singole ipotesi di bancarotta semplice e bancarotta fraudolenta si identifichino o comunque siano le une riconducibili alle altre” (cfr.

Cass. Sez. 5^, 7.6-1996 n. 8041, D’Angelo e altro). A contrario, si è ar-gomentato da parte di altra giurisprudenza che l’operatività della sciplina del concorso di reati e della continuazione rimarrebbe di di-ritto esclusa anche nel caso, come quello in esame, in cui vengano dalla stessa persona commessi sia fatti di bancarotta fraudolenta, sia fatti di bancarotta semplice.“La lettera della norma – si è rilevato - non è univoca e la questione si intreccia con quelle, sulle quali pure c’è contrasto, relative alla c.d. concezione unitaria del reato di bancarot-ta e al ruolo che rispetto alla struttura di questo reato svolge il falli-mento”, così pervenendo alla conclusione che “il fallimento abbia nei reati di bancarotta una funzione tendenzialmente unificante, dimo-strata, oltre che dalla disposizione del comma 2, n. 1, dell’art. 219, da quelle dei commi 1 e 3 dello stesso articolo (i quali danno rilevanza al danno complessivamente cagionato da tutti i fatti di bancarotta e non a quello cagionato dai singoli fatti)”, con la puntualizzazione che

<<l’argomento che appare decisivo per far ritenere applicabile l’aggra-vante dell’art. 219 comma 2, n. 1, ed escludere la continuazione nel caso di commissione di fatti di bancarotta fraudolenta e di bancarot-ta semplice, è quello, evidenziato in dottrina, che “certo non sarebbe ragionevole punire con maggiore asprezza chi abbia commesso un fatto di bancarotta fraudolenta e un fatto di bancarotta semplice,