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Distinctio II: i fondamenti della metafisica di Giovanni da Ripa

2. Natura e caratteristiche del Primo Grado

2.6 Il legame con Aristotele ed Averroé

L’autorità dei Padri e dei Dottori della Chiesa esercita su Ripa una notevole influenza, che si riflette nello sforzo costante di mantenere le parti più innovative della sua dottrina sempre in linea con la tradizione; abbiamo inoltre già avuto modo di osservare, seppur brevemente ma ne avremo ulteriori dimostrazioni, come ciò non accada per altri Dottori Moderni, verso i quali Ripa non esita ad ingaggiare (più di una) battaglia. Un’altra autorità che Ripa avverte come fortissimamente cogente è quella che vede costantemente collegate le figure di Aristotele e di Averroé, nei confronti dei quali – come già notato da André Combes – Ripa cerca di mostrarsi sempre in accordo; il rilievo non è banale perché ogniqualvolta si incontra una citazione di Aristotele si incontra sempre anche il commento relativo di Averroé, secondo uno schema preciso che trova un parallelo soltanto nell’altro grande ‘binomio’ d’autorità ripiano: quella tra lo Pseudo-Dionigi e Roberto Grossatesta. Lo schema è sempre il medesimo: citazione d’autorità (Aristotele, Pseudo-Dionigi), commento esteso del Commentatore (Averroé, Grossatesta). Se nel caso dello Pseudo-Dionigi e di Roberto Grossatesta la dipendenza può essere spiegata più agilmente mediante affinità dottrinale, dal momento che Ripa condivide gran parte degli schemi neoplatonici attivi nella filosofia dello pseudo-aeropagita, nel caso di Aristotele e di

Forme e modelli di durata… (op. cit.), pp. 452-453. Anticipando qualcosa del percorso successivo, recuperando un argomentazione tratta dalla Distinctio 3 e avente come bersaglio proprio Guglielmo di Ockham, possiamo facilmente notare il punto di vista di Giovanni da Ripa, che riconnette (a) le voces ai concetti, e (b) i concetti alle res, cosicché – privando dell’originario riferimento alla res sia le voces che i concetti – questi ultimi non possono avere alcuna validità: «et primo, cum negat quod conceptus sit proprie univocus et hoc concedit de voce, videtur mihi totum oppositum: nam quod vox sit signum repraesentativum, hoc est praecise ad placitum et variatur in esse signi repraesentativi, secundum quod subordinatur alicui conceptui tamquam priori, a quo dicitur signum verum vel falsum; ergo, sicut nulli voci competit primo et per se esse signum repraesentativum sed conceptui, ita nec esse signum univocum vel equivocum, sed conceptui», IOHANNES DE RIPA, I Sententiarum, Distinctio 3, Quaestio I, Art. 4, cod. Vat. Lat. 1082, f. 121rb; «sicut vox

ad hoc quod sit univoca requirit unitatem conceptus cui subordinatur, ita conceptus requirit unitatem in rebus quibus denominatur univocus, ut sic intelligamus quamdam descriptionem univoci, scilicet quod univocum proprie est conceptus communis significans distincte aliquam rationem realem communem rebus pro quibus verificatur», ID., ibid., f. 122ra

Averroé la questione mi pare decisamente più complessa, soprattutto in merito alla prima questione della

Distinctio 2, nella quale sono presenti diverse innovazioni ripiane che il Dottore marchigiano vorrebbe già

‘contenute’ nella dottrina del Filosofo e rilevate dal suo Commentatore. Perché Ripa sente il bisogno di mostrare la piena coincidenza delle sue tesi sia con quelle di Aristotele che con quelle di Averroé, al punto da dedicare a questo problema un intero (sebbene breve) articolo?89 La questione è molto interessante perché sembra quantomeno difficile sostenere che Aristotele abbia potuto ammettere l’immensità di Dio, distinta da un’infinità creaturale.

La risposta, comunque, non è semplice e probabilmente nemmeno così scontata come pare a prima vista, perché – a differenza dal caso rappresentato dallo Pseudo-Dionigi e da Roberto Grossatesta – non sembra essere l’affinità dottrinale (almeno, quella genuina) ciò che interessa principalmente a Ripa. Per rispondere al problema credo si debbano tenere in considerazione diversi elementi: un primo indizio emerge già dall’introduzione alla Distinctio 2, laddove Ripa qualifica Aristotele ed Averroé come i ‘probantiores

philosophi apud modernos90’; questo rilievo non va (decisamente!) preso alla lettera, perché al tempo di Ripa

sembra essere in voga una tendenza più curiosa – quasi un gioco di questi Dottori che ispirano ancora oggi reverenza – in base alla quale ogni Dottore è impegnato ‘contro’ gli altri (non necessariamente i suoi socii, ma anche Dottori più antichi verso i quali vuole ingaggiare una polemica) a mostrare di saper padroneggiare così bene i testi di Aristotele e di Averroè al punto tale da poter proporre tutta una vasta gamma di citazioni d’autorità a sostegno delle proprie tesi. Questa ‘tenzone’ è palesemente evidente nelle Distinctiones 8 di Gregorio da Rimini e di Giovanni da Ripa: ad una decina di pagine di edizione critica nelle quali Gregorio da Rimini si sforza di mostrare come sulla scorta delle autorità di Aristotele e di Averroé sia possibile dimostrare che Dio è in un genere91, risponde audaciter Ripa con altrettante pagine dedicate a mostrare invece come

secondo la vera mens di Aristotele e di Averroé Dio non è in un genere92. Una ragione ulteriore per spiegare i numerosi riferimenti ad Aristotele e ad Averroé potrebbe essere la conoscenza sempre più approfondita del Commentatore: in Inghilterra, ad esempio, Giovanni Baconthorpe aveva approfondito lo studio di Averroé nella prima metà del XIV secolo (e Ripa dimostra di non ignorare gli sviluppi della filosofia in Inghilterra93)

il che potrebbe aver contribuito a suscitare interesse nei confronti della filosofia averroista nonostante le condanne di alcuni decenni prima. Qualunque sia la ragione dietro ad un utilizzo così massiccio del Filosofo e

89 «Utrum ex dictis Philosophi et Commentatoris possit convinci immensitas primi gradus essendi», IOHANNES DE RIPA,

I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 3, cod. Vat. Lat. 1082, ff. 92va-93ra.

90 ID., Distinctio 2, Quaestio I, Art. Introductorius, f. 86vb.

91 «Huius sententiae, videlicet quod deus sit res contenta in praedicamento substantiae, fuisse Philosophum nullus, qui

eum viderit, potest dubitare», GREGORIUS ARIMINENSIS, Lectura super Primum et Secundum Sententiarum, I, Distinctio 8, Quaestio III, art. II, p. 130 (ed. Trapp-Marcolino-Santos Noya), Walter De Gruyter, Berlin-New York, 1982.

92 «Sed contra hoc arguitur a quodam Doctore qui innititur probare oppositum ex intentione Commentatoris, unde arguit

sic: et ut utar eius verba, quod Deus – inquit – sit res contenta in praedicamento substantiae fuisse Philosophi, nullus qui eum vidit potest dubitare (…). Sed audaciter respondeo huic Doctori quod nullus qui viderit dicta Philosophi vel Commentatoris et non negligenter unquam dubitavit quin nullum incorruptibile possit esse in aliquo genere decem praedicamentorum», IOHANNES DE RIPA, I Sententiarum, Distinctio 8, Quaestio II, Art. 1, cod. Vat. Lat. 1082, f. 144rb.

93 Ad esempio questo brano, riferito al tema dell’univocità dell’ens: «alius modus salvandi univocationem est ille qui

ponitur a multis modernis, et maxime sequentibus dicta Doctoris Subtilis, sicut audio quod in Anglia quidam faciunt», ID., I Sententiarum, Distinctio 3, Quaestio I, Art. 3, cod. Vat. Lat. 1082, f. 119vb.

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del Commentatore, la conoscenza dei loro testi, l’ampio uso che ne viene fatto nei punti nevralgici dell’impalcatura ripiana e soprattutto il tentativo di mostrarsi sempre piuttosto fedele alle tesi del Commentatore (o forse, sarebbe meglio dire, il tentativo di mostrare la piena coincidenza delle tesi di Averroé ed Aristotele con quanto Ripa viene a sostenere) è una vera e propria caratteristica del testo di Ripa, e non può non essere tenuta in considerazione.

Fatte queste precisazioni preliminari possiamo vedere in che modo Aristotele o Averroé abbiano potuto sostenere, ancorché implicitamente, l’immensità divina. Per quanto riguarda la prova dell’esistenza del Primo Grado e la tesi della sua immensità di contro ad un’infinità che rimane sempre e solo secundum quid Ripa liquida brevemente la faccenda mediante una sola e semplice conclusione. Alla domanda se dalle parole di Aristotele ed Averroé si possa ricavare l’immensità del Primo Grado, la risposta è lapidaria:

circa quem articulum pono unica conclusionem responsivam ad articulum, puta quod ex dictis ipsorum evidenter convincitur immensitas primi gradus94.

Perché questa semplicità, evidenziata dal fatto che la risposta alla domanda si ricava evidenter? Gioca un ruolo fondamentale la comprensione della struttura metafisica del Primo Grado: secondo Ripa, infatti, (a) è palese l’impossibilità di pensare come maggiore il Primo Grado, che è già l’id quo maius cogitari nequit95

; se nella filosofia di Ripa questa impossibilità coincide con l’immensità mentre in altre filosofie si attesta semplicemente sull’esistenza di un Primo che blocca la risalita infinita nella serie delle cause seconde, ai fini del ragionamento ripiano conta semplicemente il darsi di un Primo di cui non è possibile immaginare uno maggiore o uno anteriore. E infatti è altrettanto evidente (b) che Aristotele ed Averroé consideravano impossibile il darsi di qualcosa di anteriore o di maggiore del Motore Immobile o del Primo Motore, dal che ne consegue dunque (c) che l’immensità del Primo si ricava già dalle filosofie di Aristotele ed Averroé. L’argomentazione di Ripa è interessante, perché sembra non considerare (volutamente?) l’avversione dei greci verso l’infinità, dando per scontato (sulla base del suo complesso sistema) la replicabilità infinita di ciascun grado finito:

quilibet ponens aliquem gradum <esse> tantum quod apud ymaginationem contradictionem includit ipso esse vel posse esse maiorem, evidenter convincitur habere – <et> consequenter ponere – ipsum esse immensum; sed secundum Philosophum et Commentatorem sic est de primo gradu essendi simpliciter; ergo etc. Maior probatur: nam apud omnem ymaginationem omnis gradus finitus secundum quod tantus gradus est, est ymaginarie replicabilis in infinitum, sicut est de omni quantitate finita apud philosophum quemlibet, secundum quem quod naturalis quantitas est, habeat terminum suae magnitudinis, secundum tamen quod dimensio finita est ymaginarie duplabilis vel triplabilis, et sic in infinitum. Minor probatur: nam Philosophus ponit ipsum primum gradum esse purum actum simpliciter – puta infinitae simplicitatis et unitatis – in tantum quod apud omnem ymaginationem contradictionem

94 ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 3, cod. Vat. Lat. 1082, f. 92va.

includit aliquid esse magis unum vel magis simplex, et per consequens magis ens, cum primus gradus non possit intelligi replicari in esse entitatis nisi etiam sit intelligibile ipsum posse replicari in esse nobilititatis, simplicitatis, et unitati 96.

Ripa ‘svicola’ dall’impossibilità di attribuire ad Aristotele ed Averroé un qualunque discorso – peraltro testualmente insostenibile – sulla possibilità di una serie infinita attuale, o sulla replicabilità (matematico- metafisica) infinita di un qualunque grado finito, ma si concentra sulla caratteristica di Atto puro (caratterizzato da infinita semplicità ed unità e dalla trascendenza che lo separa dal mobile) attribuita al Primo da Aristotele, e da qui muove per concludere che l’immensità del Primo è già presente, almeno embrionalmente, nella filosofia di Aristotele. In secondo luogo recupera la non-appartenenza del Primo Motore aristotelico alla serie degli enti (che nel suo sistema si declina come latitudo entis distinta dalla puntuale immensità divina) per verificare la piena coincidenza della sua metafisica con l’impostazione aristotelica.

Un terzo elemento (che racchiude tre argomentazioni distinte) è una particolare reinterpretazione della cosmologia aristotelica e della beatitudine raggiungibile dai vari enti:

secundum positionem Philosophi intelligentiae in latitudine essendi se habunt sicut gradus varii in latitudine discreta et non continua, nam secundae intelligentiae correspondet indivisibilis gradus essendi specifice, et inter ipsam et tertiam non est possibilis media, nec inter tertiam et quartam, cum quaelibet talis – secundum eum – sit necesse esse, et quodlibet necesse esse est. Data igitur a prima intelligentia, b secunda, c tertia, d quarta: si a intelligentia est finita, a est immediata b et indivisibiliter

b excedit excessu discreto; et b aeque praecise c sicut in latitudine numerorum; ergo b plus excedet d

vel c quam a b. Consequens non admitteret Aristoteles, quis enim prudens admitteret quod purus actus simpliciter et supersimplex unitas infinitae nobilitatis et omnimode independens non plus excedat perfectionaliter quodcumque esse citra se quod est potentiale et aliquo modo dependens, quam unum ens potentiale excedat reliquum. Quomodo enim concederet quod eminentius – quantumlibet sine fine – omnis perfectio sit in primo, ubi est purissime actualiter et fontaliter quam in aliquo citra ipsum, cum ipsum sibi ipsi sufficiat et cuilibet citra ipsum ad plenam beatitudinem et completam quietem? Nihil vero citra ipsum, sub aliquo gradu quantumlibet parvo, potest per suam naturam esse beatum, licet toto naturae conatu tendit in ipsum ut in amatum et desideratum97.

È significativo notare come la tendenza di Ripa nel mostrare la convergenza tra teologia e filosofia sia attiva in molti luoghi strategici, come già evidenziava Paul Vignaux a proposito della questione relativa alla beatitudine dell’anima: «la lumière inaccessible dont parle l’Epitre à Thimothée est ici ‘infinite…, immense

inaccessibilis….cuilibet intelligentiae creabili in puris naturalibus consideratae’, c’est-à-dir à un ensemble

infini: ‘toti latitudini intelligentiae creabilis’, série admettant cependant un double termi: un ‘terminus

inclusivus’ qui est l’intelligence infinie creabile; un ‘terminus exclusivus’, Dieu meme, la ‘prima Intelligentia’

96 IOHANNES DE RIPA, I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 3, cod. Vat. Lat. 1082, f. 92va. 97 ID., ibid., ff.92va-vb.

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des philosophes. De meme quel es intelligences, la lumière qu’elles sont, essentiellement, se présente comme une ‘latitudo’ que termine ‘exclusive’ le ‘lumen gloriae’, identique à l’essence divine: aucun esprit créable n’a donc en soi ‘ex propria sua essentia’ l’ultime béatitude; cela aux yeux du philosophe éprouveé (’philosophus

probatus’) comme du théologien»98.

In quarto luogo Ripa torna nuovamente sulla natura della causalità propria del Primo Grado: se per generare enti distinti dalla perfezione ontologica distinta non è richiesta una maggiore o minore potenza causativa nel Primo, ne consegue che il primo può generare un effetto infinito senza modificare la propria virtus. Così è in Aristotele ed Averroé (almeno a giudizio di Ripa, che mi pare poco attento nel rilevare la difficoltà di conciliare i ragionamenti sull’infinito mediati dalla scuola dei Calculatores e dei matematici parigini con la filosofia greca ed araba), dimostrando l’immensità del Primo:

si duo gradus inaequales in aliqua latitudine aequalem praecise causalitatem exigerent ad suum esse in totali agente quod possit ipsos derivare in esse, sequitur quod tale agens, quantum est ex se, infinitam possit latitudinem derivare; si enim a sit gradus ut 4, b ut 8, c agens cuius causalitas totalis tanta esset praecise respectu b sicut respectu a, sequitur quod a, si esset in duplo intensior gradus quam nunc est, non requireretur in c maiorem causalitatem quam nunc, et per consequens ex intentione non requiritur maior causalitas in agente ad producendum intensiorem effectum; ergo ad triplandum vel quadruplandum a, et sic in infinitum, non requiritur in a maior causalitas, et per consequens si a sufficit se solo producere a in esse, a infinitam latitudinem potest in esse producere, et sequitur necessario quod

a est infinitum. Sed sic est de primo simpliciter: nam in latitudine essendi rerum tantam perfectionem

exigit quantumlibet parva res in ultimo suo fine, sicut quaecumque alia supra ipsam, ymmo sicut primum simpliciter ad suam perfectam quietem; ergo sicut a – sive primum simpliciter – sufficit quietare perfecte ut ultimus finis aliquam latitudinem essendi rerum, quantum est ex se, plene sufficieret ad infinitam, ubi ex parte effectus non clauderetur repugnantiam ipsam esse99.

Infine Ripa chiude le sue argomentazioni richiamandosi al De Substantia Orbis di Averroé per mostrarne la necessità di attribuire a Dio ciò che è perfezione, e quindi l’impossibilità di ammetterne uno maggiore.