Distinctio II: i fondamenti della metafisica di Giovanni da Ripa
2. Natura e caratteristiche del Primo Grado
2.2 Ordinabilità di una serie infinita di cause essenzialmente ordinate
Posta dunque la complessa serie delle condizioni per il darsi di una causalità essenzialmente ordinata, che disegna una trama piuttosto articolata tra le singole espressioni create di causalità, Ripa si dirige verso il vero obiettivo di questa sezione: mostrare che l’esistenza di Dio si può ricavare molto meglio a partire da una serie infinita di cause essenzialmente ordinate piuttosto che da una serie soltanto finita19. Per raggiungere questo
risultato Ripa articola il suo discorso in due momenti essenziali: nel primo si mostra la non-contraddittorietà di una risalita all’infinito nella serie delle cause; nel secondo si mostra la necessità metafisica di un principio esterno alla serie infinita.
Questo approccio implica la necessità di ridefinire – come opzione originaria della filosofia di Ripa – i concetti di infinità e divinità, modulandoli in direzione tale che l’infinità creaturale non si confonda con l’infinità divina; Ripa introduce quindi il suo concetto di immensità: la dimostrazione di un’infinità possibile nella serie delle cause e degli enti – infinità che a sua volta non solo è numerale, cioè legata alla numerabilità di una successione infinita di cause, ma che è anche metafisica, culminante in una specie suprema creabile caratterizzata da un’infinità intensiva – implica che Dio debba essere caratterizzato da un’infinità di tipo diverso, assolutamente e unicamente appropriata al suo grado metafisico: l’immenso; come già notava Paul Vignaux, «un’infinité absolue proprie à Dieu dont le transcendance apparait quand on la compare aux infinités relatives du créable»20. Oltre a mostrare la non-contraddittorietà di una serie infinita, Ripa deve infatti già
distinguere in nuce – proprio come presupposto intuitivo della sua filosofia – l’immensità come il grado proprio dell’essenza divina, che ne indica la sua intensità (metafisica). Se infatti la conclusio 1 afferma semplicemente che è possibile un’ordinazione di numerose cause essenzialmente ordinate in riferimento al medesimo effetto:
possibile est respectu cuiuslibet effectus producibilis a causa secunda diversas causas secundas essentialiter ordinari21;
(laddove quel diversas causas si tramuterà presto in infinitas causas), la dimostrazione di questa conclusione sottende già la novità che Ripa vuole inserire, ossia l’immensità del primo grado, che è di un ordine superiore rispetto all’infinito:
sit c aliquis effectus, sit b causa secunda, sit a causa prima; tunc sic: causalitas a respectu c immense excedit causalitatem b respectu c; igitur inter causalitatem a respectu c et causalitatem b respectu c, infinita potest esse latitudo causalitatis creaturae communicabilis. Consequentia patet: nam, sicut omnis entitas citra entitatem a est creaturae communicabilis, ita omnis causalitas; non enim dicit
19 Attenzione, perché l’intento di Ripa – che senz’altro concede la serie infinita degli enti e la risalita infinita nella serie
delle cause seconde – è sbilanciato proprio in questo senso: mostrare – diversamente da quanto proposto dalla tradizione filosofica – che un’eventuale infinità creata, di qualunque tipo sia, non ostacola l’esistenza di Dio, ma anzi è un medio molto più fertile per inferirla! Ripa infatti non è in grado di risolvere acuni problemi tradizionali legati all’infinità, come vedremo.
20 PAUL VIGNAUX, Pour lire Jean de Ripa (Sent. I, prol. q. 3), p. 286, in Studia mediaevalia et mariologica P. Carolo
Balic OFM septuagesimum explenti annum dicata, ed. Antonianum, Roma 1971, pp. 283-302.
10
maiorem perfectionem causalitatis quam entitatis, nec minus ex se est communicabilis divina causalitas quam divina entitas – utramque enim per plenitudinem communicatur ad intra – ergo inter causalitatem
a et causalitatem b respectu c est possibilis causalitas intermedia quantumlibet intense et finite excedens
causalitatem b; et per consequens possibilis est aliqua causa inter a et b quae sufficiat b movere ad agere et influere respectu c influxu alterius rationis et superiori quam b; et per consequens possibilis est talis causa secunda quae respectu b habeat omnem conditionem praedictam ordinis essentialis causarum22.
In altre parole, è già dato per acquisito – anche se verrà dimostrato poco dopo e già era stato accennato nella
Quaestio de gradu supremo – che la causalità del Primo Grado (a) eccede immensamente la causalità di una
qualsiasi causa seconda (b) rispetto ad un qualunque effetto (c), in modo tale che tra il primo grado-Dio (a) e la causa seconda (b) sono possibili altre cause seconde, più perfette ed essenzialmente preordinabili alla causa seconda (b) rispetto al medesimo effetto (c); ma proprio perché la causalità del primo grado eccede immensamente qualunque causa seconda essenzialmente preordinabile23, emerge già in nuce la possibilità che le cause seconde essenzialmente preordinabili siano infinite. Procedendo per gradi, comunque, quello che ora interessa a Ripa è mostrare come sia possibile una serie in-terminata di cause essenzialmente ordinate. In questa ordinazione, infatti, le cause che vengono prese in considerazione devono necessariamente possedere tutte e sei le condizioni della causalità essenzialmente ordinata:
secundo arguo sic: sic est de facto quod aliquae duae causae sic essentialiter ordinantur, ergo etc. Antecedens probo dupliciter. Primo: in quolibet effectu qui habet aliquam activitatem et est in continuo dependere a causa secunda, sicut est lumen respectu corporis luminosi et de speciebus causatis in mediis vel in organis exterioribus obiective – quilibet enim talis effectus in sua qualibet actione respectu causae a qua continue dependet habet omnes sex praedictas condiciones, sicut patet per singulas discurrendo – quilibet enim talis, sicut totalem suum esse capit semper a sua causa essentiali, ita quodlibet suum agere. Secundo hoc idem probo: nam generaliter ubi causa aequivoca non potest se sola effectum ponere, sed requirit aliam causam, illa est essentialiter sibi praeordinata. Et ratio est: nam sicut causa univoca – puta calor – si non possit calorem producere sine sole, sol esset causa essentialiter sibi praeordinata – requirit enim solem tamquam causam praemoventem et praedeterminantem ipsam ad agere; non enim aliunde causa univoca requirit aliam concurrentem compartialem secum, nisi sibi
22 ID.,Ibid., ff.88ra-rb.
23 I termini ‘ordinabile’ e ‘preordinabile’ sono sinonimi. La differenza risiede nel fatto che il termine ‘ordinabile’ si applica
all’intera serie delle cause essenzialmente ordinate, mentre il termine ‘preordinabile’ si riferisce alla causa immediatamente superiore rispetto a quella di volta in volta considerata all’interno della serie, in modo tale che la causa preordinata sia quella superiore, più perfetta, e che agisce per prima, mentre la causa inferiore sarà la causa essenzialmente subordinata.
praeordinatam ad agere – ita multo magis est hoc de qualibet causa aequivoca quae generaliter eminentius influit in effectum24.
Da questa prima conclusione ne segue una seconda, che sostiene proprio l’infinità della serie delle cause essenzialmente ordinate:
Secunda conclusio: inter causam primam et quamcumque causam finitam secundam, respectu cuiuscumque effectus, infinitae sunt possibiles intermediae essentialiter ordinabiles25.
La dimostrazione, questa volta, avviene per assurdo, ravvisando come non si possa negare la possibilità di infinite cause essenzialmente ordinate:
nam, si non, sit igitur c talis effectus, et sint a et b duae causae secundae essentialiter ordinabiles respectu c; et arguo sic: inter primam causam et a est infinite maior latitudo causalitatis respectu c quam inter a et b; ergo inter primam causam et a est possibilis causa media magis excendens a in esse causalitatis quam a excedat b; sed a essentialiter preordinatur b, ergo inter primam causam et a est possibilis causa media essentialiter praeordinabilis a et subordinabilis primae causae, quae sit d, et per eandem rationem probo quod inter d et primam causam est possibilis intermedia praeordinabilis essentialiter d, et subordinabilis primae causae, quae sit e, de qua iterum probo idem; et sequitur tunc ulterius quod inter a et primam causam infinitae sunt possibiles intermediae essentialiter ordinabiles respectu c, quod erat probandum26.
Se anche negassimo la possibile risalita all’infinito nella serie delle cause, non potremmo comunque negare che – poste due cause essenzialmente ordinate (a e b), di cui a è preordinata e b è subordinata – il primo grado (Dio) è infinitamente più perfetto rispetto ad a (che nella coppia a-b è la causa più perfetta); ciò implica che tra Dio e la causa a è possibile una latitudo molto maggiore rispetto a quella che intercorre tra a e b (proprio perché Dio è infinitamente più perfetto di qualunque causa seconda); in questa latitudo dunque potrebbe benissimo inserirsi una causa d, preordinata ad a (cioè più perfetta di a), e subordinata a Dio (cioè meno perfetta), e lo stesso ragionamento si applicherebbe alla latitudo che separa d e Dio, e così all’infinito. Da ciò Ripa conclude che infinite sono le cause essenzialmente ordinabili.
L’aspetto più interessante di questo ragionamento – Ripa era infatti ben consapevole della tradizionale argomentazione secondo la quale l’assenza di un primo, implicata nell’idea stessa di una serie infinita, equivale all’assenza della serie stessa, che resterebbe priva di principio – risiede nel fatto che Ripa non è assolutamente in grado di frantumare la struttura stessa della serie infinita: in quanto tale, ossia in quanto serie infinita
successive – al pari di Aristotele, di Tommaso o di qualunque altro filosofo – la serie rimane strutturalmente
in-terminata, aperta alla necessità che per ogni n dato sia sempre possibile un n+1. Su questa via non è possibile approdare ad un termine supremo, perché la serie è appunto infinita in quanto strutturalmente carente di un
24 ID., ibid., f. 88rb.
25 ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 1, concusio 2, cod. Vat. Lat. 1082, f. 88rb. 26 ID., ibid.
12
primo elemento; per figurarcela possiamo immaginare una linea (composta di punti) che sia estendibile in una sola direzione: qualunque sia il termine di questa linea, è sempre possibile aggiungere un punto ulteriore che ne aumenta la lunghezza. Il ‘termine’, inteso come termine di contenimento, non è individuabile in direzione ‘orizzontale’, giacché la serie è sempre aperta ad n+1, ma è individuabile in direzione ‘verticale’, immaginando cioè un livello ulteriore (superiore) che ricomprende la serie che al livello inferiore rimane strutturalmente aperta. Per questo motivo – ma sarà l’oggetto della terza questione di questa Distinctio 2, e con tutta probabilità un’innovazione del filosofo – Ripa introduce anche un infinito intensive che si colloca ad un livello superiore rispetto alla serie successive infinita, nel quale l’intera serie si trova ricompresa unitive; ciò significa postulare un doppio livello di infinità creata, o quantomeno un livello sfalsato nel quale la serie successive infinita e in- terminata è ricompresa unitive in un livello superiore (in un ente infinito intensive)27. Per questo all’interno della filosofia di Ripa gioca un ruolo fondamentale la distinzione molto netta tra l’infinito e l’immenso, perché l’immenso viene a trovarsi nella posizione privilegiata di poter rappresentare il fondamento (metafisico) tanto di un infinito intensive quanto di un infinito successive, leggermente depotenziato rispetto all’infinito intensive, e quindi ricomprensibile al suo interno senza più risultare vittima della tradizionale riluttanza ad ammettere una serie infinita. Sono dunque almeno tre i livelli metafisici di intensità dell’essere: (a) il livello dell’immenso, che coincide con Dio (Primo Grado, Primo Ente, Causa Prima); (b) il livello dell’infinito intensive (che racchiude unitive tutti i gradi ad esso inferiori); (c) il livello dell’infinito successive (che è strutturalmente ricompreso all’interno dell’infinito intensive). Naturalmente la distinzione di vari livelli di infinità riconduce sempre al ruolo di primo piano che spetta a Dio – l’immenso – dalla cui sola potenza può provenire l’infinità delle cause seconde, tanto successiva quanto intensiva; questo rilievo permette di salvaguardare il ruolo primario di Dio, il Fondamento dal quale dipende anche l’infinità, infinità che rimane sempre secundum quid, perché limitata essenzialmente ad un solo estremo della serie delle cause seconde (l’infinità discendente trova infatti un termine ultimo invalicabile proprio nel non-essere)28.
Questa conclusione potrebbe comunque comportare un’obiezione all’apparenza piuttosto consistente: se si ammette il concorso di infinite cause essenzialmente ordinate nei confronti di un medesimo effetto, e tenendo conto del fatto che l’infinità delle cause non è potenziale ma attuale, bisogna ammettere che ogni effetto risulti intensivamente infinito perché prodotto dal concorso di infinite cause? La risposta di Ripa è netta e distingue
27 «Aliud est dicere latitudinem numerorum totam signabilem non habentem terminum inclusivum – puta numerum
infinitum – habere ultimam unitatem, aliud est dicere numerum infinitum in quem unitive concurrit tota huiusmodi latitudo habere ultimam unitatem. Primum enim est simpliciter impossibile: sicut enim claudit contradictionem signata tota latitudine omnium numerorum finitorum possibilium – et solum ipsorum – aliquem esse supremum numerum, ita contradictio est eius latitudinis numeralis dari ultimam unitatem. Sed secundo modo est simpliciter necessarium: nam sicut primo modo, ideo nulla est ultima unitas: quoniam talis latitudo isto modo considerata nullum habet terminum inclusivum, ita secundo modo est necessarium: quoniam si tota latitudo primo modo considerata concurrat unitive in aliquem unum numerum, talis numerus huiusmodi latitudini superaddit aliquam unitatem per quam est ipsius terminus inclusivus», ID., Distinctio 2, Quaestio III, Art. 3, cod. Vat. Lat., 1082 f. 103rb.
28 «Huiusmodi infinitatem esse possibilem probabitur evidenter inferius in ista distinctione. Sic ergo dico quod respectu
cuiuslibet effectus stat per Dei potentiam infinitas causas essentialiter ordinari, quarum quaelibet actualiter influat respectu effectus. Ista autem infinitas non est possibilis versus causas remissiores, quoniam necessario respectu cuiuslibet effectus est possibilis causa infima essentialiter ordinabilis; sed huiusmodi infinitas est possibilis ascendendo versus primam causam, sicut probant rationes», ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 1, cod. Vat. Lat. 1082, f. 88va.
tra la virtus causis e la virtus effectus: la ‘virtus’ (o potenza intrinseca) di una causa non genera necessariamente un effetto di pari intensità, ma può generare effetti la cui intensità varia dall’intensità massima della causa al grado 0; questo significa che se infinite cause concorrono alla realizzazione di un effetto, l’intensità massima della virtus raggiungibile dall’effetto sarà offerta non dal numero delle cause (infinito), ma dalla virtus della causa più perfetta (che non necessariamente è infinita)29. In altre parole viene dissolto il legame tra intensità dell’effetto ed intensità della causa; l’unica condizione che rimane in vigore è che la causa non può produrre un effetto più perfetto o più potente di sé stessa.
Alla conclusione che sostiene la risalita all’infinito nella serie delle cause seconde, Ripa sente il bisogno di affiancarne una terza – il cui peso potrà essere valutato solo tenendo conto del rilievo che abbiamo appena proposto, e solo al termine del complesso percorso metafisico del filosofo marchigiano – che sostiene il darsi di una causa suprema e creata nella serie infinita delle cause:
sit tertia conclusio ista: respectu cuiuslibet effectus est praeordinabilis aliqua causa suprema in tota coordinatione huiusmodi causarum possibilium et essentialiter sibi praeordinabilium, et talis est causa creata30.
L’ammissione di un infinito quantitativo o di successione, implicito nella risalita all’infinito nella serie delle cause, non esclude dunque secondo Ripa l’approdo ad un termine supremo che deve necessariamente essere infinito – dal momento che la risalita nella serie delle cause è risalita anche nei gradi di perfezione metafisica – ma questo termine infinito è a tutti gli effetti parte della serie delle cause seconde (e ciò implica la possibilità di un infinito creato, o di una creatura infinita), benché se ne distingua solo per un tipo particolare di infinità che (vedremo in dettaglio nell’analisi della terza questione) è tale perché ricomprende ad un grado ulteriore tutta la serie, numericamente infinita, delle cause seconde intensivamente finite, che concorrono unitive in esso, in modo tale che questo grado infinito risulta immediato a Dio. Il termine ‘immediato’ rispetto a Dio – parte di un linguaggio tecnico che si riferisce all’impossibilità di ammettere un grado ulteriore interponibile tra l’infinito e Dio (da qui l’idea di ‘immediatezza’ tra l’infinito e Dio) – che tra l’altro non figura in questa conclusione ma ne risulta comunque sotteso, implica una rielaborazione della teoria della quantità discreta, rielaborazione che consente a Ripa di considerare l’infinito come il grado immediato (o immediatamente prossimo) rispetto all’immenso, la cui distanza si dà secondo la logica della quantità discreta, che impedisce il darsi di qualsivoglia latitudo tra l’immenso e l’infinito, come avverrebbe invece per due realtà caratterizzate dalla quantità continua. Il solco non potrebbe essere più netto: mentre la risalita nella serie delle cause
29 «Dico quod sicut ex immenso influxu divino quo efficitur et producitur in esse quilibet effectus, non sequitur infinitas
talis effectus – quoniam nec influxus activus attenditur penes terminum actionis, nec quantitas effectus penes latitudinem activi influxus – ita stat cum quantalibet primitate effectus, quod infinitae causae essentialiter ordinabiles simul in ipsum influant. Ratio autem ulterius procedit ex falsa ymaginatione: non enim a redditur aliquantum ex influxu b praecise: ubi enim non potest correspondere aliquis influxus activus sine determinatione praevia causae superioris essentialiter sibi praeordinatae, nec aliquem gradum habet effectus a b, quem non habeat a qualibet superiorum causarum, ymmo totam latitudinem a effectus quaelibet illarum producit», ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio I, Art. 1, cod. Vat. Lat.
1082, f. 88vb.
14
essenzialmente ordinate è risalita all’infinito secondo la logica della quantità continua (e ciò implica che tra due cause essenzialmente ordinate ce ne possa essere sempre un’ulteriore intermedia, e così all’infinito), risalita che approda comunque ad un termine supremo e infinito, tra l’infinito e l’immenso, ossia Dio, non è possibile alcuna latitudo, e Dio si preserverà sempre ed essenzialmente come immensamente più perfetto dell’infinito. Tale solco emerge anche dalla distinzione che Ripa propone tra termine inclusivo e termine esclusivo di una serie: il termine inclusivo è il termine supremo e ultimo di una serie, e coincide con l’infinito di cui stiamo trattando; il termine esclusivo è il termine ‘fondativo’, esterno alla serie e dal quale l’intera serie dipende metafisicamente, e tale termine esclusivo è l’immenso, ossia Dio. Questa impostazione è interessante, perché – come rilevava André Combes – «du point de vue où nous sommes ici placés, trois points y surgissent en haut relief: la possibilité d’une créature infinie, la fausseté de l’opinion commune sur le procès à l’infini dans le causes essentiellement ordonnées, l’insuffiance de la notion scotiste d’infinité pur caractériser l’essence divine»31. E, volendo essere estremamente sottili, dobbiamo notare che non solo la nozione scotista di infinito era insufficiente a caratterizzare l’infinità propria di Dio così come la natura dell’ente creato più perfetto: accanto a questa insufficienza Ripa si sente in dovere di riconoscere l’imperfezione di una prospettiva di natura più logica, che confutava le tradizionali argomentazioni sull’infinito servendosi di nozioni ricavate dalla logica. In questo punto particolare – pur senza farne diretta menzione – Giovanni da Ripa prende di mira Adamo di Wodeham il quale, distinguendo tra l’accezione categorematica e sincategorematica del termine ‘totus’ all’interno della proposizione ‘tota multitudo hominum est generata generatione unica’ giungeva a dimostrare logicamente l’impossibilità di una risalita infinita, perché o (a) l’intera moltitudine è generata da un suo individuo, che è contraddittorio, o (b) ciascun individuo della moltitudine è generato dal precedente, ma in questo modo non si dimostra che ci fu effettivamente un primo uomo32. Al di là della complessa critica
di Ripa è bene soffermarsi sulla modalità con la quale il filosofo risponde all’argomento:
31 ANDRÉ COMBES, La métaphysique de Jean de Ripa, in Miscellanea Mediaevalia, Band II, Die Metaphysik in mittelalter.
Vortrage des II internationalen kongresses fur mittelalterliche philosophie, Koln 31 august – 6 september 1961, Walter de Gruyter & Co., Berlin 1963.
32 Questo il lungo brano di Adamo di Wodeham: «ponamus vel imaginemur philosophice quod homo fuit generatus ab
homine, et ille ab alio, et sic in infinitum, vel equus ab equo in infinitum, sicut concedunt etiam nonnulli Doctores catholici fuisse possibile. Hoc facto, demonstro totam multitudinem hominum vel equorum quorum quilibet est generatus ab alio priori. Certum est quod hoc posito, haec falsa est ‘tota ista multitudo est generata ab homine priore se, vel ab equo priori se’, sumendo ly ‘tota’ categorematice. Et tamen quaelibet pars illius multitudinis est generata ab homine priori se, id est quilibet homo. Non dico: quaelibet partialis multitudo totalis multitudinis. Sic enim non quaelibet pars huius multitudinis esset generata ab homine, quia contingit dare instantias infinitas; quia non haec pars, demonstrando multitudinem omnium hominum praeter ultimo genitum. Et eodem modo per omnia, probatio tua, cum dicis ‘quaelibet pars istius multitudinis demonstratae habet prius se’, non habet evidentiam aliam quam petitionis, nisi in ista distributione ‘quaelibet pars multitudinis’ intelligendo distributionem sic fieri ‘id est quodlibet ens totius istius multitudinis. Quod autem sensus secundus non probet intentum patet, quia non sequitur ‘tota multitudo hominum quorum quilibet habet priorem se’, ex