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E’ possibile una risalita all’infinito nella serie delle cause?

Distinctio II: i fondamenti della metafisica di Giovanni da Ripa

2. Natura e caratteristiche del Primo Grado

2.1 E’ possibile una risalita all’infinito nella serie delle cause?

Il punto di partenza di Ripa, che è solito non dilungarsi in lunghe e sterili introduzioni ma procede fin dalle prime righe in direzione della soluzione del problema, è rappresentato dalla discussione sulle cause essenzialmente/accidentalmente ordinate, che a sua volta è funzionale a sottoporre all’attenzione del lettore il seguente problema: ammettendo che le cause essenzialmente ordinate sono di ratio differente (nel senso che la causa superiore è di natura essenzialmente più perfetta rispetto all’inferiore), è possibile ammettere una risalita infinita nelle cause essenzialmente ordinate? In questi termini emerge subito – tra le righe – il problema sul quale andrà a cadere l’attenzione di Ripa: se (a) la causa essenzialmente sovraordinata è di ratio superiore a quella subordinata, ma (b) la risalita stessa nelle cause essenzialmente ordinate non è incompatibile con una serie infinita, (c) cosa accade per quelle cause che si avvicinano sempre di più all’infinito? È evidente infatti che la ratio delle cause più perfette è essa stessa di natura essenzialmente più perfetta, e quindi (a) o al termine della serie infinita si trova Dio, ma non si capirebbe dove collocare il passaggio tra la serie stessa – che essendo infinita rimane strutturalmente priva di un termine ultimo – e Dio, oppure (b) Dio e l’infinito rimangono distinti, e andrà dunque indagata in dettaglio la natura della loro differenza. In realtà il presupposto della distinzione tra infinità e immensità non rappresenta un vero e proprio oggetto di indagine per Ripa, ma piuttosto l’elemento intuitivo e basilare della sua filosofia più autentica (quasi l’intuizione fondativa del suo sistema), che certamente sarà sottoposto ad una verifica completa e complessa, ma non sarà mai realmente posto (ne tantomeno ponibile) in dubbio5.

Prima di affrontare il complesso impianto ripiano è buona cosa analizzare brevemente la differenza che lo distingue dalla filosofia di Duns Scoto, perché la discussione sulle cause accidentalmente ed essenzialmente ordinate gioca un ruolo fondamentale nella prova scotista dell’esistenza di un Primo Principio, benché sotto una prospettiva differente. L’argomento era stato infatti utilizzato da Duns Scoto nella Distinctio 2

5 In verità si ha quasi l’impressione che la filosofia della metà del XIV secolo stesse procedendo, progressivamente, verso

un’indagine sempre più dettagliata della natura dell’infinito. Principalmente in ambito matematico-geometrico e secondariamente in ambito metafisico-teologico, come vedremo in Richard Kilvington e Ruggero Roseto, attivi in Inghilterra nei primi decenni del 1300. Risulta però più interessante un rilievo di Guglielmo Crathorn, domenicano inglese posteriore ad Ockham, il quale – pur negando l’impossibilità di una serie infinita di cause – lascia intendere come i tempi fossero ‘quasi’ maturi per non considerarla più una ‘follia’ filosofica: «sciendum tamen quod licet non sit per se notum nobis nec posset concludi a nobis ex aliquo per se noto nobis, quod non sit processus in infinitum in causis ascendento de perfectiori ad perfectiorem, tamen bene possumus concludere ex aliquo per se nobis noto quod non sit processus in infinitum in causis descendendo a perfectiori ad imperfectiorem, quia hoc est nobis per se notum quod impossibile est eandem perfectionem numero esse intensive vel in valore infinitam et non esse intensive infinitam; sed si esset processus in infinitum in causis descendendo, una et eadem causa esset intensive infinita et non esset intensive infinita», GUILLELMUS CRATHORN Quaestiones in primum librum sententiarum, Quaestio IV, in FRITZ HOFFMANN, Crathorn. Quaestionen zum ersten sentenzenbuch. Einfuhrung und text, “Beitrage zur geshicthe der Philosophie und Theologie des Mittelalters. Neue Folge”, vol. 29, Aschendorff, Munster 1988, pp. 292-293.

dell’Ordinatio, Libro I, laddove il Dottor Sottile dimostra che – nonostante la possibile infinità di cause accidentalmente ordinate – nelle cause essenzialmente ordinate il processo di risalita all’infinito è impossibile, ed è necessario ammettere un termine primo. Ciò permette a Scoto di dimostrare la presenza di una causa prima che sia il fondamento della serie (solo finita) di cause essenzialmente ordinate, e costituisce quindi il fondamento della prova scotista dell’esistenza di Dio6

in quanto possibilità di un ens infinitum, che proseguirà poi in direzione della dimostrazione della sua esistenza attuale.

Giovanni da Ripa viene invece a modificare profondamente questo quadro, ammettendo di fatto la possibilità di una serie infinita di cause essenzialmente ordinate, e modulando successivamente la prova dell’esistenza di Dio proprio sul presupposto della possibile serie infinita di cause seconde. Il discorso sul rapporto tra cause accidentalmente ed essenzialmente ordinate viene quindi complicato nell’ottica ripiana proprio dall’opzione originaria del Supersubtilis, che lo porta ad ammettere senza alcun problema la risalita all’infinito nella serie delle cause seconde. Se Duns Scoto poteva indicare semplicemente tre condizioni per il darsi delle cause essenzialmente ordinate – e queste condizioni sono: (a) la dipendenza della seconda dalla prima nell’esercizio della propria causalità, (b) il darsi una causalità di un altro ordine e di un’altra perfezione, ossia la maggiore perfezione della causa superiore rispetto all’inferiore, (c) la necessaria compresenza di tutte le cause essenzialmente ordinate ai fini della produzione dell’effetto – dalle quali concludeva l’impossibilità di una serie infinita di cause essenzialmente ordinate (principalmente per mezzo dell’ultima condizione, legata ‘tradizionalmente’ all’impossibilità di un infinità attuale di elementi) e la necessità di un Primo, Giovanni da Ripa si trova costretto a complicare notevolmente il quadro, nell’ottica di supportare la propria tesi relativa alla possibilità di una serie infinita di cause, introducendo ben sei condizioni che garantiscano – quando tutte compresenti – il darsi effettivo di una serie di cause essenzialmente ordinate:

1) La prima condizione impone che la causalità delle cause essenzialmente ordinate sia di natura (ratio) differente per ciascuna delle due cause7.

2) La seconda condizione impone che la causa superiore contenga eminenter la causalità della causa inferiore, in modo tale da poter produrre l’effetto della causa inferiore senza il concorso di quest’ultima8

.

3) La terza condizione afferma la dipendenza della causa inferiore dalla superiore sia nell’essere prodotta (produci) che nell’essere conservata (conservari)9.

6 «Infinitas essentialiter ordinatorum est impossibilis. Similiter secunda: infinitas accidentaliter ordinatorum est

impossibilis, nisi ponatur status in ordinatis essentialiter; ergo omni modo est impossibilis infinitas in essentialiter ordinatis. Si etiam negetur ordo essentialis, adhuc infinitas est impossibilis; ergo omni modo est aliquod primum necessario et simpliciter effectivum», DUNS SCOTUS, Ordinatio, I, Distinctio II, § 52

7 «Primum est quod huiusmodi causae habeant causalitates alterius rationis», IOHANNES DE RIPA, I Sententiarum,

Distinctio 2, Quaestio I, Art. 1, cod. Vat. Lat. 1082, f. 87ra.

8 «Secundum est quod causa superior, per suam causalitatem contineat eminenter causalitatem causae inferioris, ad istum

scilicet intentum, quod omnem effectum causae inferioris causa superior quantum est ex se possit producere sine concursu causae inferioris», ID.,ibid.

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4) La quarta condizione sostiene che la causa inferiore dipende nell’esercizio della propria causalità dalla causa superiore, in modo tale però che anche qualora non dipendesse dalla causa superiore nell’essere (per esempio perché Dio solo la conserva senza la mediazione della causa seconda), esigerebbe comunque l’influsso attivo della causa superiore per esercitare la propria causalità10.

5) La quinta condizione implica che la causa superiore eserciti il suo influsso prima della causa inferiore11.

6) La sesta condizione (che Ripa considera quasi includere tutte le altre) afferma che la causa superiore determina ad agire la causa inferiore in modo tale che non solo produca l’effetto della causa inferiore, ma anche muova quest’ultima verso l’agire e le permetta di esercitare la propria causalità12.

Non è superfluo analizzare in dettaglio alcuni punti particolarmente interessanti nella trattazione ripiana della causalità essenzialmente ordinata. In primo luogo la causalità di altra natura (ratio) è richiesta perché altrimenti la causa subordinata potrebbe generare l’effetto senza l’ausilio della causa sovraordinata che, rimanendo della stessa natura, non sarebbe necessariamente richiesta se non al fine di generare un effetto più intenso (proporzionato all’intensità della causa), ma pur sempre affine a quello generato dalla causa subordinata (meno intensa).

In secondo luogo la causalità di natura più perfetta è tale da includere tutti gli effetti producibili dalla causalità meno perfetta (mentre non vale, naturalmente, il viceversa), in modo tale che – quanto più si sale nella serie delle cause essenzialmente ordinate – tanto più ci si avvicina a qualcosa che è definibile, sebbene impropriamente, come ‘pienezza di causalità’, ossia una causalità a tal punto intensa da poter generare qualsiasi effetto senza il concorso delle cause inferiori:

si c causalitas est alterius rationis et superioris quam d, sequitur quod c magis participat totalem rationem causalem correspondentem primae causae respectu effectus communis c et d quam d; et per consequens c in omni gradu causalitatis quem habet d communicat et aliquid superaddit; ergo c se solo potest efficiere quidquid potest cum d.

Confirmatur: nam per accessum ad causam primam originalem continue acquiritur latitudo causalitatis et nullum esse causale deperditur; ergo quidquid est superius in latitudine aliqua causalitatis continet eminenter totam causalitatem gradus inferioris, ita quod potest sine ipso influere13.

Emerge tra le righe l’idea di una partecipazione metafisica (che sarà poi effettivamente recuperata in merito alle perfezioni creaturali in connessione alla loro origina divina) declinabile in una serie infinita di gradi di

10 «Quartum est quod causa inferior dependeat in causando a causa superiori ita quod, etsi causa inferior adhuc poneretur

non dependens in esse a superiori – puta si causa simpliciter prima inferiorem conservaret se sola – adhuc indigeret influxu activo causae superioris ad producendum nisi causa utrique superior ipsum suppleret», ID.,ibid.

11 «Quintum est quod causa superior prius influat quam inferior», ID.,ibid..

12 «Sextum est quod causa superior determinet ad agere causam inferiorem ita quod nedum producat effectum causae

inferioris, sed etiam moveat ipsam ad agendum et faciat ipsam agere», ID.,ibid..

intensità, ciascuno dei quali riceve soltanto una parte di una realtà – in questo caso la vis causativa – che in sé ed originalmente è indivisibile.

Nella prova della quinta condizione, Ripa sembra utilizzare il commento di Tommaso al Liber de Causis, testimoniando una dipendenza da certi schemi neoplatonici piuttosto marcata e accentuata14; in tutti i punti

nevralgici della propria metafisica, infatti, Ripa si appella sempre più o meno direttamente alla tradizione neoplatonica, con l’esito – molto interessante – di tentare una (ri)costruzione di una solida metafisica dopo l’esperienza ockhamista e dei logici della schola moderna. Il fatto che il ‘tentativo’ di Ripa, sotto questo aspetto, non sia andato a buon fine – attirandosi ad esempio, come noto, le critiche di Giovanni Gerson – non è di per sé indice di una filosofia inadaequata in se, ma piuttosto, come credo, indica che i tempi non erano più disponibili a recepire un impianto metafisico così strutturato, possente e articolato come quello ripiano, il quale – di questo bisogna rendere atto al Supersubtilis – non ha in sé nulla di diverso dalle altre grandi costruzioni filosofiche del pensiero occidentale.

Nella lunga prova della sesta condizione della causalità essenzialmente ordinata, recuperando l’autorità dello Pseudo-Dionigi e di un suo Commentatore, Roberto Grossatesta, Ripa fa emergere chiaramente l’intento di questa condizione, che a prima vista non è del tutto chiaro: garantire la provvidenza divina in un contesto in cui si palesa l’eventualità di una risalita all’infinito nella serie delle cause seconde. Se infatti la risalita all’infinito nelle cause essenzialmente ordinate è contemporaneamente/essenzialmente una risalita in perfezione, è evidente che mano a mano che si procede verso le cause più perfette si è in presenza di realtà che potrebbero – teoricamente, in virtù della loro perfezione quanto più tendente all’infinito – esautorare l’attività della Prima Causa (Dio e la sua provvidenza) in riferimento all’attività delle cause meno perfette. Si rende necessario garantire che l’intervento perfettivo/agente delle cause superiori sulle inferiori non cresca a tal punto da impedire che Dio possa ‘far muovere’ le cause seconde meno perfette (naturalmente per mezzo di un influsso generale)15. Per ottenere questo risultato è necessario garantire che, anche in un’eventuale risalita

all’infinito, la causa essenzialmente preordinata non solo determini la causa subordinata ad agire, ma anche la muova effettivamente all’azione, in modo tale che la Causa Prima (Dio), che è la prima causa essenzialmente ordinata, possa muovere (influxu generali) le cause seconde, permettendo così alla provvidenza divina di inserirsi anche nel contesto di una risalita infinita:

quinto arguo sic: causa prima in influxu generali quo cum omnibus causis secundis concurrit, influit ut causa essentialiter praeordinata; sed, in omni tali influxu, nedum ipsa producit effectus secundarum causarum, sed generaliter omnes movet ad agere; ergo ad hoc, quod causa essentialiter praeordinetur alteri in causando requiritur huiusmodi motio prima et determinatio ad agendum. Prima pars antecedentis patet: nam influxus essentialiter preordinatus oportet quod sit generalis influxus. Minor

14 «Hoc patet primo ex Commento primae propositionis De causis, ubi ponitur quod nedum causa primaria plus influit in

effectum quam secundaria sed etiam prius influit», ID.,ibid., f. 87rb.

15 «Si a non facit b agere cum b agit in c, sed solum concurrit respectu c, sequitur quod per hoc quod b noviter agit c,

nulla est nova dependentia b ad a, sed solius c ad a; et per consequens b in agendo noviter c non dependet ab a; ergo inter a et b non est ordo essentialis in causando, sed solum inter effectum a et b est ordo essentialis», ID.,ibid.

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probatur per Commentatorem Lincolniensem in De angelica yeararchia, capitulo IV, parte tertia, ubi ait sic: «habent communiter omnia essentiam in se ipsis quae sunt, et viventia vivificam virtutem in seipsis qua vivunt, et animalia sensificam virtutem in seipsis qua sensiunt, et rationalia et intellectualia sapientificam virtutem qua sapiunt; has tamen virtutes eis essentiales et substantiales a seipsis non habent nec earum in esse permanentiam, nec in actus proprios proruptiones, sed a divina providentia eas a non esse in esse producente, et in esse conservante, et in actus proprio movente et dirigente». Ecce quomodo divina providentia secundum illam ordinationem generalem qua omnibus se communicat, quoniam de illa loquitur etiam Dyonisus in hoc processu: «ista – inquit – providentia omnem virtutem activam creatam movet et dirigit et facit ipsam prorumpere in suum effectum»16.

Naturalmente la struttura delineata è tale che, nonostante l’attività delle cause preordinate sia necessaria e quindi sommamente necessaria sia l’attività divina (in quanto causa essenzialmente ordinata ed in assoluto prima), l’azione in quanto tale procede effettivamente dalla causa seconda che agisce. In questo modo risulta corretto affermare che l’azione di un ente secondo è sempre azione di quel particolare ente, nonostante si richieda l’influsso (previo) di una serie di cause preordinate in modo tale che la vis causativa possa propagarsi di causa in causa fino a trovare espressione nell’ente secondo particolare; in altre parole il ‘concorso’ di più cause nell’azione di un ente – concorso che ha funzione metafisicamente conservante (giacché la causalità non si può produrre spontaneamente) – non impedisce che l’azione effettiva sia proprio di quell’ente e non delle cause predeterminanti17. Questo rilievo è interessante perché si lega ad un altro dei cespiti della metafisica di Ripa, ossia l’idea che tra la causa e l’effetto vi possa essere ineguaglianza nell’intensità, il che equivale ad ammettere la possibilità che la causa immensa possa produrre un effetto meno intenso senza variare il grado della propria virtus, o – per restare al tema della possibilità di una Provvidenza – che possa collaborare con una causa seconda alla produzione di un effetto di intensità minore. Le Determinationes sollevano un’interessante osservazione:

nam cum causa formalis communicetur intrinsece affectui, ideo quantitas effectus attenditur penes gradum secundum quem forma communicatur. In causalitate vero efficiente non est sic: nam, quia per causalitatem effectivam essentia agentis non communicatur intrinsece effectui, ideo cum unitate agentis et equalitate influxus stat quantacumque inequalitas effectuum, sicut cum unitate effectus quantacumque varietas influxuum, sicut patet de effectu communi cause prime et secunde18.

16 ID.,ibid., f.87va.

17 «Concedo quod Deus se solo potest facere causam secundam agere, quia se solo potest activitatem eius applicare ad

agere. Et ad rationem ulterius dico quod non probat Deum non posse hoc facere, sed probat quod – si sic facit – effectus non est a solo Deo, quod concedo; sed cum hoc stat quod causam secundam agere talem effectum est terminus solius actionis divinae, prout ly ‘causam secundam agere’ solum ponit applicationem activitatis respectu effectus. Vel aliter potest dici – et melius concedo – quod Deus non potest se solo facere causam secundam agere: nam, eo ipso quo causa secunda agit, agere suum est ab ipsa, et per consequens ipsam agere est ab ipsa et non a solo Deo; unde non est possibile quod alicui correspondeat activitas ad effectum quin eo ipso sibi correspondeat aliqua virtus qua potest suam activitatem applicare ad agere talem effectum, et eo ipso quo producit se applicat», ID.,ibid., f. 88ra.