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Distinctio II: i fondamenti della metafisica di Giovanni da Ripa

4. Infinità della specie suprema creabile

4.1 Natura finita o infinita della specie suprema creabile

Il primo articolo della questione, elaborato da Ripa come risposta a Pietro Aureolo e Duns Scoto, i quali – partendo dall’ordine essenziale delle cause – non concedevano come specie suprema creabile che una specie finita, è dedicato a mostrare che la specie suprema che Dio può creare non può essere soltanto finita ma deve essere strutturalmente ammessa come infinita187. L’articolo, considerando i presupposti della metafisica di Ripa, non prevede una grande complessità: solo due sono le conclusioni probatorie, mentre le obiezioni sono poche e considerate quasi irrilevanti. Avendo concesso, e già dimostrato, che è possibile una risalita all’infinito nella serie delle cause seconde proprio in virtù della perfezione ontologica crescente delle specie superiori che richiedono una virtus causativa sempre più potente, in un processo che culmina in un ente infinito che è

186 ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio III, cod. Vat. Lat. 1082, f. 99vb.

187 «Utrum aliqua sit possibilis suprema species a Deo creabilis et finita. Pro declaratione primi articuli advertendum est

quod difficultas ista inducitur propter quosdam Doctores antiquos ponentes quod, quia inter species est ordo essentialis, aliqua est maxima species a Deo creabilis et illa est tantum finita. Haec autem fuit positio Scoti, domini Petri Aureoli et pro maiori parte fuit opinio antiquorum Doctorum», ID., I Sententiarum, Distinctio 2, Quaestio III, art. 1, cod. Vat. Lat. 1082, ff. 100ra-vb.

infinitamente bisognoso di fondazione e che trova efficacemente tale fondazione soltanto in un immenso ad esso (metafisicamente) anteriore, Ripa formula lucidamente questa conclusione:

secundum omnem denominationem perfectionis simpliciter correspondentem divinae essentiae, supra omnem gradum finitum possibilis est gradus intensior in quacumque proportione finita. Verbi gratia, omni gradu in esse vitae finito dato, possibilis est duplo intensior in esse vitae, et quadruplo, et sic in infinitum, ita quod nullus est supremus possibilis tantum finitus; et ita de aliis denominationibus quae dicunt perfectionem simpliciter188.

La dimostrazione di questa conclusione è di natura essenzialmente metafisica, legata ai concetti di perfezione e infinità, e procede essenzialmente per assurdo, cioè mostrando l’inconsistenza della tesi opposta (che la specie suprema creabile possa essere soltanto finita). La condizione essenziale per il darsi della specie suprema creabile è che essa sia immediata rispetto a Dio: la qualifica di ‘immediata’ indica l’impossibilità o assenza di un qualunque grado intermedio tra questa specie e Dio, immediatezza che rende la specie suprema la creatura in assoluto più perfetta possibile e in quanto tale – sebbene impropriamente – ‘contigua’ a Dio, salvaguardando allo stesso tempo pienamente lo spazio della trascendenza tra Dio e le creature: mentre gli enti creati si trovano disposti lungo una latitudo che segue la logica del continuo, la distanza che separa Dio dalla specie suprema ad esso immediata obbedisce alla logica della quantità discreta, che non consente di collocare alcunché nello spazio esistente tra i due termini. Posta questa condizione essenziale, diventa impossibile ammettere la finitezza della specie suprema creabile (che è il termine immediato più vicino a Dio):

1) In primo luogo perché per ogni ente finito dato è sempre possibile il darsi di un ente che sia il doppio più perfetto, il triplo più perfetto, e così via all’infinito; ne consegue che – poiché la specie suprema è l’ultimo termine di questa serie (strutturalmente in-terminabile) e non è possibile che la sua perfezione possa essere ulteriormente aumentabile – essa è infinita.

2) Se anche ammettessimo il darsi di un termine intermedio tra la specie suprema e Dio, si riproporrebbe il problema di un ulteriore termine intermedio tra quest’ultimo e Dio, che riporterebbe alla nostra attenzione l’impossibilità di ammettere la finitezza della specie suprema creabile.

3) Dal momento che la risalita nei gradi finiti è anche contemporaneamente risalita in perfezione, il grado sommo è il più perfetto e il più semplice (in quanto maggiormente simile a Dio); ne consegue che – immaginando tale grado supremo come infinito – la sua impossibilità o proviene dalla sua stessa ratio

intrinseca, o da un difetto della causa agente. Quest’ultima eventualità non può essere, perché Dio è

immenso e quindi immensamente attivo e privo di limitazioni (defectus) nell’agire; non può darsi nemmeno la prima eventualità, perché non c’è contraddizione intrinseca nell’ammettere un termine supremo infinito:

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nam omne impossibile per se esse est impossibile esse ex rationibus suis incompossibilibus et ad invicem repugnantibus; sed talis gradus non est huiusmodi, cum sit simplex gradus essendi, sicut quicumque alius citra ipsum189.

A questo punto Ripa elabora quattro argomentazioni, di natura più specifica, per dimostrare la sua conclusione. Tali rationes sono caratterizzate da un utilizzo marcato, ancorchè non così esplicito, della struttura dell’analogia entis tra Dio e le creature (estendibile anche alle altre denominationes perfectionis) che costituirà l’oggetto della Distinctio 3; di nuovo vediamo operativa una forte interconnessione tra i vari punti della metafisica ripiana, che sottende una filosofia molto articolata e raffinata, bisognosa di un’analisi estesa dei testi e non solo circoscritta a pochi, inevitabilmente limitati, frammenti.

In primo luogo, posta (a) l’immensità dell’essere proprio di Dio e posta al contempo (b) la possibilità che Dio comunichi ad extra l’esse, benché non secondo la ratio formalis che gli è propria (l’immenso) bensì secondo una ratio semplicemente analoga (modulabile in infiniti gradi di intensità), ne seguono due interessanti rilievi: da un lato l’impossibilità di una creatura infinita non può provenire da Dio, che, nella sua immensità, resta sempre distinto da un infinito strutturalmente limitato ad un’infinitezza secundum quid; dall’altro lato tale impossibilità non può provenire nemmeno da una limitazione ex parte creaturae perché – avendo già dimostrato la distinzione tra immenso ed infinito – viene meno il rischio (connesso all’ammissione di una creatura infinita) di rendere tale creatura simile a Dio.

In secondo luogo, poiché l’immenso non è misurabile in alcun modo (nemmeno per mezzo di una latitudo infinita), e dal momento che Dio pur non comunicando alle creature la medesima ratio formalis che lo caratterizza, le contiene tutte in maniera causale, segue che dall’immensità divina può derivare una latitudo infinita, e quindi una creatura suprema che sia al contempo infinita in sé190.

In terzo luogo, siccome la causalità divina ad extra è immensa (poiché immenso è il suo grado intrinseco), non esiste un grado massimo cui possa essere limitata; al contrario gli effetti producibili sono infiniti quanto al numero e possono contemplare la possibilità di un infinito in sé191. Questo punto è interessante perché scompare dalla riflessione ripiana quell’impossibilità ex parte rei che rendeva impossibile, ancora secondo Duns Scoto, la produzione di determinati tipi di effetto (una serie infinita attuale ad esempio, o un ente infinito creato). Sulla causalità divina inoltre, è bene rilevare nuovamente come Ripa abbia la chiara percezione di introdurre una novità relativa all’intensio della causalità stessa: mentre – a suo giudizio – tutti i Dottori (sicut

omnes ymaginantur quos viderim usque nunc de causalitate divina192) confondevano l’estensione e l’intensità

189 ID., ibid., f. 100rb.

190 «Sed nunc divina essentia, licet non sit communicativa suae perfectionis formalis, non minus tamen est causaliter

contentiva cuiuslibet ymaginarii effectus finiti quam tunc, nec minus nunc excederet omnem gradum finitum quem derivaret quam tunc, ymmo plus, quoniam sua infinitas nunc non est mensurabilis penes aliquam latitudinem finitam vel infinitam, finities vel infinities replicatam, et tunc esset; ergo nunc, quilibet gradus finitus essendi ymaginaremus, derivabilis est a divina essentia», ID., ibid., f. 100va.

191 «Deus est infinite activus ad extra, ergo nullus est maximus gradus essendi finitus possibilis ab ipso produci.

Consequentia probatur: nam causalitas intensior, ceteris paribus, nedum est respectu agere intensioris, sed etiam respectu termini actionis maioris», ID., ibid., f. 100va.

della causalità divina paragonandola ad una latitudo o immaginandola addirittura dotata di una latitudo

intrinseca con la quale modulare gli effetti, Ripa intende la causalità divina come un punto di intensità

immensa, che non può subire alcuna flessione di intensità (non possiede quindi alcuna latitudo), ma che è in grado di produrre infiniti effetti di intensità variabile, proprio disponendo del grado sommo di intensità. Si tratta, come abbiamo visto più volte, di un rilievo che Ripa non si stanca mai di sottolineare, e che cela dunque una polemica con tutta una serie di socii che ammettevano al contrario una modulabilità dell’agire divino. Un’ultima argomentazione viene a sostenere che se la creatura suprema non fosse infinita, ma solo finita, allora la latitudo che la causalità divina potrebbe creare sarebbe soltanto finita (cioè compresa tra il grado zero del non essere e il grado supremo finito); ma poiché metaphysice la latitudo che può derivare dall’immensità divina è infinita (come dimostrato nella prima questione), saremmo nella condizione contraddittoria per la quale la causalità divina non è in grado di realizzare tutti gli effetti potenzialmente realizzabili da una causalità immensa, testimoniando così una strutturale imperfezione dell’ente sommamente perfetto193

.

Questa serie di argomentazioni conduce diretta alla seconda conclusione dell’articolo, secondo la quale Dio è in grado di creare, al di sopra di qualunque specie finita considerabile, una specie ancora più perfetta. Si tratta, naturalmente, della rielaborazione dell’argomento ripiano della risalita all’infinito nella serie delle cause, declinato questa volta in direzione della specie suprema (di cui, non a caso, si andrà proprio ad indagare la natura intensiva nel corso di questa terza questione):

supra quamlibet speciem finitam signabilem possibile est a primo produci speciem quantumlibet finite superiorem194.

Da notare che è attiva la duplice accezione di infinito: (a) numerale o successive, nel senso che non c’è un termine finito per la serie degli effetti (che sono infiniti anche nel numero), dal momento che la serie rimane strutturalmente interminata concedendo sempre la possibilità di un ulteriore n+1 ; (b) metafisico o intensive, nel senso che, per comprendere la natura dell’ente infinito in quanto tale (distinto da una serie strutturalmente infinita) sarà necessario operare un passaggio ad un livello distinto rispetto alla serie in-terminata dei numeri. Allo stesso modo è da notare la stretta connessione tra la struttura numerica, caratterizzata da una in(de)finita replicazione dell’unità numerale che viene a comporre numeri sempre crescenti e privi di un termine finito, e quella che Ripa propone di considerare come replicatio unitatis divinae, che a partire dall’unità unale di Dio genera per replicazioni successive la serie infinita degli enti, racchiusi all’interno dei generi e delle specie, al pari dell’unità numerica che genera – per replicazioni successive – l’intera serie dei numeri:

ista conclusio, quamvis magis patebit infra distinctione 44, tamen pro nunc potest breviter declarari: ad ipsam enim probandam sunt exempla Dionysii, in libro De Divinis nominibus, capitulo 5, parte sexta, ubi ymaginatur quod, sicut unitas mathematica per replicationem sui constituit latitudinem numerorum,

193 «Quarto principaliter potest argui sic: si aliqua est species maxima et finita a Deo producibilis, cum inter ipsam et non

gradum simpliciter sit tantum finita latitudo essendi, sequitur quod totius latitudinis ymaginarie inter Deum et non esse simpliciter – quae est infinita – tantum finita pars est possibilis in effectu», ID., ibid., f. 100va.

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ita divina unitas varietatem graduum essendi in rebus et latitudinem specierum; et per consequens sicut nullus est maximus numerus et finitus possibilis formari ex replicatione unitatis mathematicae, ita nullus est intensissimus gradus essendi nec perfectissima species et finita quae possit fluere effective ab unitate divina: non enim minus potens est divina unitas per variam sui communicationem derivare infinitam latitudinem specierum quam unitas mathematica per sui replicationem supra omnem finitum numerum alium formare maiorem 195.

Questa replicatio unitatis divinae sarà oggetto del terzo articolo di questa terza questione; per il momento limitiamoci a considerare come dato acquisito la non-finitezza della specie suprema creabile, in uno dei rari passaggi di sapore più letterario che Ripa concede, che ci permette di apprezzare l’intrinseca bellezza di una costruzione metafisica così raffinata:

nullam claudit repugnantiam quocumque gradu finito signato aliquem produci in esse maiorem, et Deus est omnipotens; ergo possibile est quocumque gradu finito signato, aliquem produci in esse maiorem. Quis enim, concedens Dei omnipotentiam et immensam virtutem activam ad extra audeat sic manum omnipotentis restringere et infra certam latitudinem entium et finitam eius virtutem omnipotentissimam cohartare? Potens est enim supra id quod intelligimus, et ideo melius est rationem nostram eius immensitatis submittere quam iuxta modulum nostrum eius infinitam magnitudinem mensurare196.

Le obiezioni a questo articolo sono brevi, probabilmente perché la posizione di Ripa non ammette mediazioni: se si concede la distinzione infinito/immenso (già acquisita nel corso di questa Distinctio), non è possibile mettere realmente in discussione la possibilità di un infinito creato; le obiezioni di Aureolo e Scoto si dissolvono dunque da sé. Risulta interessante notare la risposta che Ripa offre a chi gli obietta l’impossibilità di conciliare l’infinità creata con il noto adagio del Libro della Sapienza ‘omnia in numero et mensura et

pondere disposuisti’; per Ripa la disposizione secondo numero, misura e peso è garantita – e forse ancora

meglio – in una serie infinita di enti, che culmina in un infinito intensive:

ad secundam rationem dico quod ponendo infinitam latitudinem specierum ita pono totam huiusmodi latitudinem constitui in numero, pondere et mensura sicut ponendo solum finitam: Deus enim est ita numerus, licet non formatus sed formans; ita etiam mensura et pondus totius huiusmodi latitudinis, si ponatur infinita sicut si ponatur finita: aeque enim immense excedit latitudinem infinitam sicut finitam et aeque utramque continet eminenter197.

195 ID., ibid.

196 ID., ibid., f. 100vb. 197 ID., ibid.