2. LA MEDIAZIONE FAMILIARE IN ITALIA
2.3. I primi interventi normativi in materia d
2.3.2. Legge 4 aprile 2001, n 154: la mediazione familiare e la violenza
Una sostanziale novità è costituita dalla legge n. 154/2001, con la quale il legislatore italiano ha inteso colmare una lacuna del nostro ordinamento, attraverso l’introduzione di nuove “misure contro la violenza nelle relazioni familiari”, novellando il codice civile. A livello strettamente civilistico, la legge in questione introduce gli articoli 342 bis e ter, riguardanti l’istituto della “protezione contro gli abusi familiari”.
Al fine di offrire tutela alle vittime di violenza familiare, salvaguardando così la possibilità di recuperare i rapporti lesi a causa degli abusi, si permette ai giudici di emanare i cosiddetti “ordini di protezione”58, riconoscendo dunque la necessità di predisporre una tutela per il coniuge più debole nella richiesta di separazione personale, e in tutti i casi in cui il ricorso al codice penale (art. 572 c.p.) per il reato di maltrattamenti in famiglia, non sia ne proporzionato ne adeguato alle esigenze delle vittime.
Lo stesso art. 342 ter, oltre a dare la possibilità di emanare i suddetti “ordini di protezione”, permette ai giudici di “disporre, ove
58 L’art. 342 ter c.c. ad esempio, tra i possibili ordini di protezione, oltre che la “la
cessazione della stessa condotta” e “l'allontanamento dalla casa familiare del coniuge o del convivente che ha tenuto la condotta pregiudizievole prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall'istante” (comma 1), prevede anche, al comma 2, “il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi che, per effetto dei provvedimenti di cui al primo comma, rimangono prive di mezzi adeguati”.
occorra, l’intervento di servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare” (art.342 ter, comma 2), nell’ottica di un ripristino dei legami familiari, soprattutto in previsione dei limiti temporali dell’ordine di protezione, che non può essere superiore a sei mesi ed è prorogabile, “su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi per il tempo strettamente necessario”.
Come si percepisce appunto dal secondo comma dell’art. 342
ter, l’intervento dei servizi sociali o del centro di mediazione
familiare rappresenta, non una misura alternativa all’ordine di protezione, quanto piuttosto cumulativa, e questo ha suscitato contrasti di opinioni in relazione a quella che è la natura della mediazione stessa, che se inserita all’interno di un contesto sanzionatorio, come quello dell’imposizione di ordini di protezione, potrebbe avere un risultato tutt’altro che efficace.
In dottrina si ravvisa, se non altro, nell’applicazione della mediazione familiare a questo contesto, quella che è una funzione non tradizionale dell’istituto, in quanto qui non si mira al tipico raggiungimento dell’accordo tra le parti, ma piuttosto all’atipico scopo di far desistere il familiare abusante dal suo atteggiamento illegittimo, tanto che l’articolo 342 ter al secondo comma, affianca all’intervento dei centri di mediazione familiare anche le “associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l'accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati”. Vi è chi, ha dato particolare importanza all’inserimento dell’istituto mediativo in questo contesto, perché ha consentito di aprirlo alle famiglie non fondate sul matrimonio e prive di figli59. L’invio al centro di mediazione è mirato a ridurre le conseguenze degli abusi sui rapporti in crisi, anche se in realtà per una buona
59 Tommaseo F., Mediazione familiare e processo civile, in Famiglia e diritto,
2012, 831-834 afferma che “questo riferimento alle norme sugli ordini di protezione contro gli abusi familiari è comunque interessante poiché ci mostra come l’accesso alla mediazione è qui prevista anche per i membri di una famiglia di fatto e, più in generale, a prescindere dall’esistenza di figli minori”.
riuscita, presuppone il consenso e la collaborazione delle parti, per cui sarebbe opportuno che il giudice lo disponesse soltanto laddove esse vi abbiano acconsentito. Non a caso, se vogliamo, lo stesso articolo 342 ter, affida al giudice il potere di assumere la misura mediativa, “ove occorra”.
Ed è proprio sul tema della possibilità del consenso, o per meglio dire, dell’onestà e della volontarietà dello stesso, in situazioni così delicate quali quelle derivanti dal problema della violenza domestica, che sono nate accese discussioni, in quanto, per voler citare le parole dell’autore statunitense Hart, “la realtà è che una donna maltrattata non è libera di scegliere. Non è libera di preferire la mediazione o di rifiutarla, se il suo aggressore la sceglie, non è libera di identificare e difendere le componenti essenziali della sua autonomia e sicurezza e di quella dei suoi bambini, non è libera di terminare la mediazione ove ritenga che non stia funzionando. In definitiva, non è libera di convenire o dissentire con il linguaggio degli accordi. Il suo esplicito consenso è sotto costrizione”60.
La mediazione, in questo senso, rischia dunque di cadere nella tentazione di mirare esclusivamente al raggiungimento dell’accordo, tralasciando l’importanza di quelle che sono le indagini giudiziarie, che potrebbero condurre ad accogliere tutte le possibili tutele e garanzie a difesa della parte più debole.
Vi è chi rifiuta, in maniera decisa, la possibilità di ricorrere alla mediazione tra coniugi coinvolti in episodi di violenza. Tra gli stessi mediatori familiari italiani, la consapevolezza che il loro intervento non possa essere appropriato in tutti i conflitti familiari, è unanime, ed è anche da questa stessa consapevolezza, che ne deriva il rifiuto della mediazione come passaggio obbligato nei procedimenti di separazione e di divorzio, anche perché ogni mediazione in presenza
60 HART B., Gentle Jeopardy: The Further Endargerment of Battered Women and
di una situazione di abuso, corre il rischio di sostenerlo, rendendolo in qualche modo legittimo.
L’opinione possibilista sull’utilizzo della mediazione nei conflitti segnati dalla violenza, la si ritrova negli approcci terapeutici alla mediazione, con la prospettiva e l’aspettativa in ogni caso, che laddove rilevasse un qualsiasi fattore in grado di influenzare il consenso libero e consapevole delle parti, il mediatore abbia il buon senso di interrompere il suo lavoro, rimettendolo semmai al giudice; d’altro canto però, vi sono mediatori provenienti dal mondo della psicoterapia, che si ritengono, e viene da dire pericolosamente, in grado di affrontate con le loro conoscenze, anche situazioni particolarmente difficili.
Probabilmente, non è neanche da escludere, che la permissività della mediazione, anche in situazioni in cui la conflittualità familiare è più delicata, in quanto accompagnata da episodi di violenza, derivi dallo sguardo che può essere gettato oltre l’ambito familiare ed in particolare all’applicazione dell’istituto della mediazione in ambito penale, ove questo è, in alcuni casi, utilizzato come principale strumento della c.d. “giustizia riparativa”, con lo scopo di far incontrare le vittime ed i presunti autori del reato, affinché possano insieme superare il conflitto da cui è scaturito il fatto-reato. È dunque sicuramente nella prospettiva della buona riuscita dell’intervento di mediazione, che si consolidano le opinioni favorevoli, ma è anche vero che non pochi sono i rischi, come ad esempio quello dell’imputato che prende parte alla mediazione soltanto per non essere incarcerato, o per poter accedere ad una pena più leggera.
È chiaro pertanto che la questione dell’applicazione della mediazione familiare in questo ambito, è tutt’altro che semplice, ed è allora opportuno ricordare come il legislatore sia stato attento a circoscrivere l’avvio della procedura mediativa, ad un mero tentativo. È inoltre da sottolineare come gli ordini di protezione citati
nella legge del 2001, non siano altro che misure intermedie, avviabili soltanto laddove non sia necessario accedere alla più forte e decisiva tutela penale.
In positivo, ed a favore della legge n. 154 del 2001, va dunque ricordato come, in realtà, un centro di mediazione familiare mira sempre a ricostruire tranquillità e stabilità all’interno dell’ambiente familiare, ma se è vero questo, è anche vero che non si possono cancellare le perplessità derivanti dalla mancanza di qualsiasi menzione, nell’art.342 ter, al consenso delle parti, così come non può essere sottovalutato il rischio che la mediazione, possa risultare inefficace o, peggio ancora, servire a nascondere episodi di violenza o maltrattamenti.
Inutile dire, concludendo, come i rischi appena indicati possano risultare ancora più accentuati in un ordinamento che, come il nostro, continua ad espandere la rilevanza della mediazione familiare senza però dotarla di una disciplina.