5. Le materie prime
5.3. Il legno
Negli statuti duecenteschi non vi sono riferimenti precisi inerenti al controllo della raccolta e lavorazione del legno. La tipologia di legname impiegato variava secondo la necessità produttiva, ma cambiava anche la qualità, differente a causa della stagionatura o del reimpiego di legname utilizzato in precedenza182. Con la forte
pp. 91-93.
179Gabrielli, Prime analisi mensicronologiche cit., pp. 153, 156. 180Ibidem.
181ASBo, Capitano del popolo cit., muratori 1376, rubr. LIII.
182Archeologia dei materiali cit., pp. 215-218; Galetti, Abitare nel Medioevo cit., pp. 94-95; Guarnieri,
Il legno nell'edilizia e nella vita quotidiana del medioevo cit., pp. 80-81. Nel Settecento a proposito
dell'utilizzo di legno differente in edilizia, ancora si diceva: «Il legname tanto da ponere in opere nelle fabriche, ò siano tasselli, ò come dicono alcuni solari, coperti & altro dove fa bisogno, come
espansione di Bologna nei secoli XII e XIII il consumo di legname ad laborerium, ovvero di travi di grosse dimensioni per la realizzazione di strutture portanti, aumentò nell'edilizia residenziale, nelle opere idrauliche, nella costruzione di imbarcazioni, ma anche nella manutenzione e costruzione di ponti183. Il legno, lavorato grossolanamente
in montagna, probabilmente nei periodi autunnali e invernali, giungeva attraverso il fiume Reno prima a Casalecchio e poi in città184.
Gli statuti riferiscono di un foro lignaminis vel pallancharum che, controllato da comune e società, riforniva tutti i falegnami iscritti all'arte185. Attraverso questa
istituzione era possibile verificare la quantità di legna raccolta e lavorata destinata alla città, evitando i tentativi di speculazione e riducendo i costi della materia prima. I falegnami addetti alla vendita del legno si rifornivano dai segatori, segantini iscritti alla società in grado di eseguire correttamente il taglio dei tronchi, riducendoli secondo le esigenze lavorative186. I maestri gestori del foro erano obbligati a vendere
la legna a tutti i soci che ne facevano richiesta, pena, dal 1264, il pagamento di una multa di dieci bolognini187. Vista la grande richiesta, nello stesso anno i falegnami
pure per li ponti de muratori, bisogna sia ben custodito, secco, tagliato in buona luna, e stagione opportuna cone nelli mesi di decembre, genaro e febraro à luna calante, e lasciarli doppo tagliati, segati e lavorati dalli segantini, stare almeno così per un anno, che così li coperti e solari non calaranno in mezzo, e resisteranno di più.
Molti autori dicono che il legname da far porte, finestre & altri simili lavorieri non sono buoni se non sarà almeno anni tré sarà tagliato e questo c'insegna l'esperienza ancora.
Il legname ne solari, ò siano tasselli, coperti & anco per li ponti, & armature, non devesi adoperare di varie forti , quando ciò si possa fare di meno, mà adoperare legno dolce consimile, mà non col dolce mischiarvi querza, ò rovere & altri simili legnami forti, quali non convengono assieme, e difficilmente si possono congiungere & inchiodare assieme.
Il Bolognese somministra assai Pioppo, ç come diciamo corrottamente Fioppa, quale si rende assai leggiera, e fa buon lavorieri; in caso declini, dà indizio col piegarsi prima, avanti di rompersi affatto, mà il rovere , querzia, e simili legni forti, quando patiscono troppo peso, ò per altro mancamento, senza dare segno alcuno si rompono, e restano troncati all'improvviso senza potervi rimediare. Per fare ponti per muratori, la querzia e rovere deve gettarsi assolutamente, essendo troppo pesante, e pericolosa da rompersi.
L'abete dopo la fioppa è il migliore legname si trova, sì ne lavorieri di fabriche grandi, tanto più, che in occasione di coperti grandi, si possono aggiungere l'uno con l'altro; commettendolo assieme à giova, ò in altro modo con chiodi lunghi, & anco lighe, occorrendo per il bisogno di catene per li coperti, secondo il bisogno e necessità vi sarà», cfr., Spinelli, Economia nelle fabriche cit., pp. 102- 103; Angelotti, Nuova economia nelle fabriche cit., pp. 95-96.
183M. Zanarini, Il bosco e il legno: un difficile equilibrio tra dissodamenti e pratiche selviculturali
(secoli XIII-XVI), in Vito Fumagalli. Terra, uomini, istituzioni medievali, a cura di M. Montanari, A.
Vasina, Bologna 2000, pp .55-75, a p. 59.
184P. Guidotti, L'approvvigionamento dei materiali edili: il legno e la selenite, in I portici di Bologna cit., pp. 151-159; Bocchi, Il comune popolare e l'urbanizzazione cit., p. 53.
185ASBo, Capitano del popolo cit., falegnami 1255, rub. XLIV; ibid., falegnami 1320[a], rubr. XLVI;
ibid., falegnami 1320[b], rubr. XLIV; ASBo, Documenti e codici miniati cit., n. 1, rubr. XXXVIII; ibid., n. 2, rubr. XXXV; ibid., n. 5, rubr. L.
186Vedi supra note 141, 142.
vietarono ai propri soci di vendere i cerchi prodotti per realizzare le botti a scopo di lucro e la legna grezza e lavorata in tavole a qualunque artigiano non appartenente alla società188. Per lo stesso motivo, nel Trecento il comune controllava che il legname
venisse venduto nei luoghi deputati e dalle persone autorizzate, in modo che fossero rispettate le dimensioni e quindi i prezzi fissati per un bene considerato di prima necessità189. Gli statuti della società del 1335 e del 1376 precisavano che la vendita
del legname dovesse avvenire al minuto o all'ingrosso e il legno trattato poteva essere nuovo, fresco e poco stagionato, ma anche vecchio e ben stagionato oppure già lavorato e rivenduto190. Anche se gli statuti non entrano nel dettaglio dei costi è
indubbio che questi variassero a seconda della tipologia e qualità di legno utilizzata e della qualità del prodotto.
Dal 1288, secondo la nuova normativa relativa l'igiene cittadina, gli statuti comunali impedirono che la vendita di legname avvenisse all'interno della città e in particolare nella piazza del comune191. Il legno poteva essere trasportato nelle
botteghe o nei cantieri solo dopo la nona, nel caso in cui il materiale fosse strettamente necessario all'attività dell'artigiano e unicamente se le fascine di legna o le assi raggiungevano la lunghezza massima di sei piedi192. In particolare, la pulizia e
lo sgombro delle strade da legna e mattoni era richiesto dai due giorni precedenti il palio cittadino che si correva il 29 giugno, durante la festa di San Pietro e che percorreva la città dal ponte del Reno fino alla casa di dominus Rolandinus de
Romanciis, presso porta Stiera193.
188Statuti delle Società del popolo di Bologna, a cura di A. Gaudenzi, II (Società delle Arti), Roma 1896 (Fonti per la Storia d'Italia, 4), pp. 215-216 (rubr. LIII, LIV); ASBo, Documenti e codici
miniati cit., n.2, rubr. XLII, XLIII; ASBo, Capitano del popolo cit., falegnami 1288, rubr. XXXVII,
XXXVIII.
189Lo Statuto del Comune di Bologna dell'anno 1335 cit., pp. 860-861 (l. VIII, rubr. 217 De pena
vendentis ligna falsa vel deffectuosa, paleas vel fenum. Rubrica).
190ASBo, Documenti e codici miniati cit., n. 10, rubr. XXX; ibid., n. 55, rubr. XXVII.
191Sull'ufficio preposto al controllo di "Acque, strade, ponti, calanchi, selciate e fango", cfr. B. Breveglieri, Il notaio del fango, “Atti e memorie. Regia Deputazione di Storia patria per l'Emilia e la Romagna”, 56(2005), pp. 95-152; G. Albertani, Igiene e decoro: Bologna secondo il registro del
notaio del fango, “Storia urbana. Rivista di studi sulle trasformazioni della città e del territorio in
età moderna”, 116(2007), pp. 19-36; Ead., Igiene e manutenzione. Il caso di Bologna nei
programmi legislativi e nella realtà quotidiana del XIII secolo, in Artigiani a Bologna cit., pp. 165-
186: 173-198. Sulla connessione e sul legame tra salute, igiene pubblica e normativa urbanistica cfr., F. Bocchi, Normativa urbanistica cit., pp. 108-112.
192Statuti di Bologna dell’anno 1288 cit., II, pp. 168-169 (l. X, rubr. LXIII De pena tricolorum
magistrorum lignaminis, paglarolorum et aburatatorum). Le travi, quindi, lunghe circa 2,5 m,
potevano entrare in città dopo le 15,00 cfr., M. Viganò, Prefazione all'edizione critica aggiornata, in A. Cappelli, Cronologia, cronografia e calendario perpetuo. Dal principio all'era cristiana ai
nostri giorni, Milano 1998; Martini, Manuale di metrologia cit., p. 92.
Negli statuti del comune del 1335 le imposizioni sulle attività di carico e scarico del legname da lavorare, così come i limiti alle dimensioni consentite alle travi e ai tronchi rimasero vigenti, mentre il divieto di circolare in città con carri carichi di legname venne specificatamente limitato alla piazza del palazzo comunale e nella zone del mercato di porta Ravennate194. La normativa della società dei falegnami
percepì questo divieto specificando, come la restrizione riguardasse i soci che, diretti al mercato di porta Ravennate, intendessero passare per la piazza comunale o lungo strada Maggiore e strada di San Vitale, se diretti nel mercato del campo fuori la selciata della congregazione dei frati Minori. Per i gestori delle botteghe situate in una delle dette vie, il divieto cadeva, anche se vigeva quello d'ingombrare le strade con banchi o banconi, senza l'ottenuta autorizzazione da parte del capitano del popolo o degli anziani. Come stabilito dagli statuti comunali, invece, allo scopo di permettere il raggiungimento della chiesa di San Pietro dalla piazza del comune, venne vietata anche nella legislazione prodotta dalla società dei falegnami, la conservazione di casse, armadi da vendere, davanti la propria bottega o abitazione195. La
preoccupazione degli amministratori pubblici per l'igiene di piazza Maggiore sottointendeva la volontà di mostrare il simbolo per eccellenza della città, su cui si affacciavano tutti gli edifici più importanti e dove si svolgevano le azioni aggreganti più significative se, il più decoroso possibile196. La pulizia della piazza e delle strade,
nella mentalità cittadina medievale, simboleggiava la trasparenza dell'amministrazione. Nel 1376, rispecchiando tale normativa, la società impose ai propri iscritti e obbedienti il divieto di appoggiare e conservare il legname o altri ingombri destinati al lavoro nella via in cui sorgeva la sede della società, o davanti il muricciolo e sotto il portico collocati davanti. Il massaro e i ministrali erano poi tenuti allo sgombero di tale materiale addebitando le spese al proprietario del legname197.
194Lo Statuto del Comune di Bologna dell'anno 1335 cit., II, pp. 857-858 (l. VIII, rubr. 216 De pena
trichullorum, magistrorum lignaminis et paglarol<or>um et alliorum trichollorum certo tempore et loco emere prohybitorum. Rubrica); ibid., pp. 821-822 (l. VIII, rubr. 171 Quod aliquis curus ponderatus lignaminis non debeat stare in platea. Rubrica.)
195ASBo, Documenti e codici miniati cit., n. 10, rubr. LVIII. La rubrica si rifaceva a quella prodotta dal comune nella quale il divieto veniva ampliato anche a banchi, cerchi, botti e ogni altro genere di legname cfr., Lo Statuto del Comune di Bologna dell'anno 1335 cit., II, pp. 826-827 (l. VIII, rubr. 177 De pena tenentium per viam quam itur ab ecclesia Sancti Petri ad plaeam aliquod
inpedimentum transeuntibus. Rubrica.). In merito al divieto di circolare con carri e di effettuare la
vendita nel centro cittadino cfr., ibid., pp. 860-861 (l.VIII, rubr. 217 De pena vendentis ligna falsa
vel deffectuosa pales vel fenum. Rubrica). Circa il divieto di posizionare banchi da lavoro lungo la
strada e senza autorizzazione cfr., ibid., pp. 840-841 (l. VIII, 191 De banchis et hedificiis et alliis
non habendis super trivio porte Ravenatis vel in foro Medii vel extra muro stratarum).
Attraverso, quindi, la pulizia e l'igiene della propria sede, la società cercava di aumentare il proprio prestigio, dando l'immagine di ordine e rigore. La società sperava, così, di riflettere quello stesso ordine interno che si prefiggeva di mantenere e di far rispettare ai propri soci, esattamente con le stesse finalità con cui la città imponeva l'igiene ed il decoro del proprio palazzo del governo e della piazza antistante.
La possibilità di confrontare la produzione statutaria delle società di falegnami e muratori in progressione dalla metà del Duecento alla metà avanzata del Trecento ha permesso di intuire con particolare attenzione l'evoluzione delle due società d'arte. In particolare, osservando le prime produzioni statutarie è stato possibile cogliere molti degli aspetti prettamente corporativi delle società. Aspetti votivi, religiosi, senso comunitario di appartenenza, attività lavorativa e politica non apparivano distinti, ma si sovrapponevano e si intrecciavano, generando un amalgama che stringeva e avvicinava gli artigiani. Come si è potuto osservare, la produzione statutaria di questo periodo ben si discosta da quella espressa con gli statuti trecenteschi, dove l'ordine gerarchico delle rubriche sostituiva l'aspetto alluvionale delle prime redazioni. Parallelamente, le corporazioni duecentesche appaiono molto differenti dalle organizzazioni trecentesche. E' necessario considerare e denominare quest'ultime “società”, in quanto hanno perso la caratterizzazione sociale e comunitaria che li contraddistingueva nel Duecento, e probabilmente anche prima, per affermare quella economica e lavorativa. Se alla metà del Duecento il cittadino era solito affidarsi ai conoscenti, privilegiando i rapporti di vicinato e di lavoro, alla metà del Trecento sembra aver potuto scegliere tra un vasto ventaglio di società e confraternite che rispondevano con maggiore attenzione alle nuove esigenze lavorative, nel caso delle società d'arti, e a quelle votive nel caso delle confraternite religiose. Va sottolineato, inoltre, come appare cambiato anche il popolo degli iscritti alle arti. Se alla metà del Duecento risultavano essere iscritti tutti artigiani che svolgevano l'attività di propria mano, alla metà del Trecento questi divennero sicuramente un numero inferiore degli appartenenti alle arti, che comprendevano imprenditori e committenti. Ne è prova l'utilizzo nella matricola, in corrispondenza di ogni iscritto, del titolo dominus in sostituzione a quello più umile, usato nel Duecento, di
magister.
Questo mutamento all'interno delle società delle arti permise la regolarizzazione e il controllo di molti degli aspetti produttivi. Se alla metà del Duecento era più evidente la preoccupazione delle arti di non creare contese tra i soci iscritti e, nel caso, di dissiparle, alla metà del Trecento l'attenzione degli statuti si concentrò sulla qualità delle prestazioni e della materia prima impiegata. Forse, con l'introduzione di elementi esterni e magnatizi nelle società, i committenti e gli imprenditori cominciarono ad avere realmente voce in capitolo negli aspetti più propriamente produttivi. Se alla metà del Duecento la dipendenza della societas magistrorum muri
prestare giornate lavorative, nel Trecento a questo obbligo pare essersi sommato l'assoggettamento delle categorie impegnate nella lavorazione della materia prima e il controllo qualitativo del loro operato. Il sapere tecnico del magister, inoltre, che nel Duecento che veniva trasmesso con parsimonia ai soli meritevoli, nel Trecento perse il valore simbolico, mutandosi in una delle tante competenze necessarie a svolgere un'umile professione.
Giungendo alla fine di questo lavoro che si era posto come obbiettivo una parziale sintesi sugli uomini impegnati in campo edile, si deve inevitabilmente riflettere su tutte quelle questioni aperte, alle quali, per mancanza di dati o per l'immaturità di chi scrive, non è stato possibile dare risposte soddisfacenti. Un primo aspetto è sicuramente legato alle origini della societas
magistrorum muri et lignaminis e ai suoi rapporti con la figura del vescovo cittadino. Rapporti che
s'intuiscono da frasi inserite negli statuti dai notai delle due società e che si fanno particolarmente evidenti quando la riflessione comprende gli aspetti votivi legati alla figura dei santi patroni delle arti, i luoghi di ritrovo per la celebrazione dei riti legati alla collettività e all'appartenenza degli iscritti. Un ulteriore aspetto che meriterebbe una riflessione maggiore è quello del rapporto tra gli artigiani cittadini e quelli comitatini e stranieri. E' stato possibile delineare unicamente un quadro di generale chiusura della città nei confronti di questi elementi, ma non è stato possibile cogliere come questa divisione si esplicasse nel lavoro e nella vita comunitaria. Manca, infine, l'analisi degli aspetti più marcatamente pratici dell'attività lavorativa come i costi della materia prima, i compensi riconosciuti agli artigiani e la reale applicazione della divisione del lavoro all'interno del cantiere. Si tratterebbe, in questo caso, di approfondire l'indagine con altre fonti che, partendo dagli atti privati, dai libri contractuum e dai fondi degli uffici del dazio e delle attività di edilizia pubblica potrebbero fare luce su quegli aspetti trascurati. Queste sono solo alcune delle prospettive che, attraverso nuove ricerche, sarebbe possibile aprire. Non posso che limitarmi a sperare in un futuro che permetta un approfondimento in tale direzione.