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Alcuni aspetti teorici. Con traduzione di un’immagine in parole, azione che

potremmo anche chiamare verbalizzazione, intendiamo il rendere verbali dei

fenomeni che sono nello specifico iconici.

Si può incorrere in un rischio non di poco conto e ciò che:

[…] la transcodifica degli elementi iconici in elementi verbali si configuri, tendenzialmente come fenomeno di fondazione dello stereotipo. Nel momento in cui l’iconologo va alla ricerca dei cosiddetti valori simbolici in quanto principi di fondo della cultura entro cui l’opera è pensata, costruita e fruita, pone in sostanza la questione della leggibilità.126

Notiamo in questa citazione due aspetti. Il primo aspetto evidenzia che porre la leggibilità di un’immagine sia anche un presupporre implicitamente che essa

debba essere leggibile.

Il secondo aspetto ha a che fare con le parole simbolo e stereotipo. È come se attribuissimo all’immagine la presenza di simboli desunti da un campo

simbolico già formato.

70 Il simbolo si lega a stereotipo, poiché, allorquando ci mettiamo alla ricerca

di simboli da tradurre, in un certo senso chiudiamo l’immagine in una gabbia

semantica escludendo la creazione di nuovi universi di senso.

La transcodifica allora potrebbe avere ragion d’essere in casi di «rappresentazioni

letterali ed univoche che funzionano come un codice, che può essere decifrato in

maniera quasi automatica da un’intelligenza che calcola (il codice stradale)»127 e

da simboli univoci; questo modo di procedere porterebbe con sé come conseguenza l’ipotrofizzazione dell’attività ermeneutica, quasi ridotta al grado

zero.

Si tratterebbe infatti di una decodifica di segni che fanno capo ad un insieme

finito, un insieme di partenza che era il nostro bagaglio ermeneutico.

E allora l’interrogativo che sorge spontaneo è come la transcodifica possa

reggere come criterio quando deve far fronte all’equivocità e polisemanticità

dell’immagine.

Proveremo adesso ad usare sempre il termine traduzione, ma nell’accezione

di Meschonnich128, traduttore e teorico delle traduzioni. Per quanto egli non abbia

mai parlato di traduzione di un’immagine in un testo, esporre le sue teorie

sull’arte del tradurre può aiutarci a delineare un nuovo modo di intendere anche

quelle che riguardano le immagini.

127 Jean- Jacques Wunenburger, La vita delle immagini,Milano, Mimesis Edizioni, 2007, p. 99. 128 Henri Meschonnic (Parigi, 18 settembre 1932 – Villejuif, 8 aprile 2009) poeta francese,

linguista, saggista e traduttore. Intervenuto regolarmente al Forum delle lingue del mondo, è stato presidente del Centre national des lettres, conosciuto dal 1993 con il nome di Centre national du

71 2.1 Se sia servibile il parallelismo della descrizione come traduzione dell’immagine

A parere di Henri Meschonnich, traduttore e teorico delle traduzioni, si

deve superare l’ottica della traduzione come «pratica artigianale, tradizionale, una

sotto- scrittura, che non porta che a delle raccolte di ricette».129

Egli crede fortemente nel fatto che per fare uscire la traduzione dallo stato

di minorità sia necessaria una revisione da una parte del vocabolario consunto legato ad esso, dall’altra dell’atteggiamento di fedeltà al testo, con perdita di ritmo

e del continuum e movimento fluido:

[…] l’uscita di minorità è possibile soltanto attraverso una revisione della

langue de bois du traduire, del vocabolario ormai consunto del traduttore e

del professionista abituale della traduzione. Si tratta di una lingua di legno perché si pone in modo autoritario come verità senza alternativa; e la si deve chiamare lingua, anziché discorso perché non conosce che delle unità di lingua, parole apparentemente anodine e di buon senso, come lingua di partenza e lingua di arrivo, equivalenza, fedeltà, trasparenza o annullamento e modestia del traduttore; libertà e letteralità […] Una terminologia essenziale, nella gran parte organizzata in coppie di opposti, che ruota intorno alla polarità centrale del segno, distinto in significante e significato.130

129 Rita Messori, Linguaggio e spazialità: a partire da Meschonnic, «La nuova estetica italiana,

Aesthetica Preprint Supplementa», Palermo, Atti del convegno 27-28 Ottobre 2001, p. 73.

72 La lingua di legno dalla quale vuole prendere le distanze il nuovo traduttore

rimanda a quanto dicevamo prima di quel bagaglio ermeneutico preconfezionato.

Papi si serve della metafora della traduzione per parlare del commento di opere d’arte figurative:

Per il commento, in questo caso, userei dunque la parola traduzione, della quale sappiamo tutto sia sui modi della sua possibilità e delle sue condizioni reali, sia sulla sua impossibilità integrale, sia sull’opzione di un ricreare. 131

L’accento che qui si dà riguardo al termine traduzione, sottolinea come essa

non possa mai essere intesa in qualità di fedele copia rispetto ad un originale. Si vuole porre l’attenzione sull’impossibilità di una pura equivalenza integrale. In

questo senso l’opera di traduzione ricrea, non solo perché aggiunge o toglie

qualcosa, ma perché genera del nuovo.

Sicuramente è da aggiungere il fatto che mentre l’opera di traduzione di un

testo si muove sui medesimi canali espressivi, lo stesso non avviene nel tentativo di tradurre un’immagine in testo.

Si genera così una trasposizione di linguaggio, sia perché si passa dall’immagine alla parola senza che ci sia una condivisione di uno stesso

orizzonte di linguaggio, sia perché non si può prescindere dal processo originario

di testualizzazione pittorica, il quale mantiene comunque un insondabile alone di mistero dovuto all’autorialità.

131 Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Edizioni Angelo

73 2.2 Particolarità del testo- traduzione\commento

Occorre tentare di sentire, capire e tradurre, cercando le parole per rifare in un altro luogo, spazio, segno, significato, il processo di testualizzazione pittorica, cioè rendere leggibile il luogo di origine attraverso un altro testo che diventa una griglia attraverso cui è possibile ampliare la propria partecipazione al riconoscimento che il testo pittorico richiede per una propria verità. È impossibile trovare l’equivalenza, l’equivalenza non è atomistica, segno/ frase, ma piuttosto un oggetto che può essere generato su insiemi. Se il testo- commento deve funzionare da luogo semantico di una corretta visione, è evidente che lo sforzo di costituzione di questo testo deve tendere a un risultato informativo […]132

Il testo- commento, seppure non abbia come fine o pretesa l’equivalenza,

diventerebbe dunque una griglia di lettura idonea a funzionare come stimolo

semantico per guidare e proporre una corretta visione.

L’idea di uno stimolo semantico, può essere esemplificativa se questo viene

inteso come molla generatrice di significati non unilaterali.

Tuttavia, il fatto che si parli di corretta visione, ci invita a compiere un’importante riflessione in primo luogo perché l’utilizzo di un aggettivo

denotativo ci colloca su un versante problematico rimandando all’idea che ci

possa essere una visione corretta, contrapposta di necessità ad una visione

sbagliata.

Da questa problematica segue il riflettere sull’utilizzo di “corretta visione”.

132 Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Edizioni Angelo

74 Sarebbe corretta relativamente alle intenzioni dell’autore-artista, di cui

peraltro abbiamo fatto emergere sopra il fatto di come mantengano sempre un

velo di insondabilità, o sarebbe invece da intendere corretta in relazione all’immagine e al suo potere evocativo o semantico, un po’ come se stessimo

parafrasando Rudolf Arnheim dell’immagine come dichiarazione- visiva? 133

Ci sembra che in qualunque modo venga inteso, il fatto che si voglia essere

detentori del ruolo di informare per una corretta visione, porti con sé un carico di paternalismo da scongiurare nei confronti di una libera fruizione dell’immagine e

che nei confronti di questa e in parte anche delle intenzioni dell’artista operi la “violenza” di cui abbiamo parlato nella sezione precedente.

C’è sicuramente un passo ulteriore da fare ed è quello di svincolare il

fruitore di un’immagine dal carattere di passività ponendo il problema del testo-

commento di un’immagine e domandandoci: quale sia l’utilità di un testo riguardo

ad un’immagine e per chi sia utile.

Per quanto quindi non propendiamo sulla rilevanza informativa del testo rispetto all’immagine, Papi fa sicuramente una considerazione importante e

stempera i toni della sua argomentazione lasciandoci in conclusioni non del tutto

convincenti, quando sostiene che il commento possa informare anche con

proposizioni che non hanno carattere informativo, tra cui novera ad esempio il

ricorso a metafore. L'utilizzo della metafora è infatti, per il suo carattere di

figuralità, un voler parlare facendo vedere. Non è quindi tanto da contestare l'uso

133 Rudolf Arnheim, L’immagine e le parole, Sesto San Giovanni (Mi), Mimesis Edizioni, 2009, p.

13. L’immagine è come spesso afferma Arnheim, una dichiarazione visiva -un modo per trasmettere un significato attraverso le qualità visive rappresentate- ed è suscettibile di essere valutata come corretta o meno rispetto al proprio obiettivo raffigurativo.

75 di metafore nei testi-commento di un'immagine, quanto volere noverare questa

figura retorica nel campo degli espedienti informativi. Tutto ha l’aria di un labile compromesso:

Se il testo- commento deve funzionare da luogo semantico di una corretta visione, è evidente che lo sforzo di costituzione di questo testo deve tendere a un risultato informativo, ma non è affatto detto che questo risultato lo si possa conseguire solo con proposizioni che hanno carattere informativo: vi è un’informazione che può avvenire per complesse metafore e per evocazioni sensibili che sono vagliate, misurate e controllate.134

Tuttavia conclude sostenendo l’idea che testo e immagine non condividano

equivalenti corrispondenze e che il testo si svincoli in un certo qual modo dal suo carattere referenzialistico rispetto all’immagine, avendo quindi una vita autonoma

che procede su un proprio sentiero e che anzi spesso dall’immagine si allontana.

Ciò su cui, in ogni caso, non bisogna illudersi è che i due testi, pittorico e commento, possano essere messi in un sistema di corrispondenze. Il nuovo testo che nasce in questa relazione ha una sua vita, e così come si pone il compito di avvicinarsi al testo pittorico, è inevitabile che, per questa strada, anche se ne allontani.135

Se non possiamo mai aspettarci che tra il pittorico e il commento ci siano

delle corrispondenze e se è inevitabile che il testo finisca poi per allontanarsi dall’immagine, forse dobbiamo cominciare a staccare l’immagine dalle parole,

134 Fulvio Papi, La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Edizioni Angelo

Guerini e Associati S.r.l., 1992, pp. 287- 288.

76 vedere quello che essa ci vuole dire a prescindere dalle griglie interpretative,

lasciarla andare, vagare.

Tuttavia c’è chi pensa che non sia possibile in nessun caso che l’immagine

non venga letta e che anzi sostenga che l’unico modo che ha l’immagine per

esprimersi, sia propriamente quello del poter essere inquadrata. È la voce di

Mieke Bal, che riporta una teoria in forte disaccordo con quanto detto da Boehm,

il quale vede l’immagine come dotata di un proprio logos iconico e dunque

autonoma nel generare molteplici effetti.