UNVERSITA’ DI PISA
DIPARTIMENTO DI CIVILTA’ E FORME DEL SAPERE
Corso di laurea magistrale in Filosofia e forme del sapere
Tesi di Laurea
Immagini e parole nella Svolta iconica di Gottfried
Boehm.
Relatrice: Prof.ssa Manuela Paschi Candidata: Giovanna Lo Giacco
2 INDICE
INTRODUZIONE p. 5
CAPITOLO I: LA SVOLTA ICONICA
1. Ikonische Wendung: la cornice del quadro p. 13
2. Lo scambio di vedute sul Lebenswelt: pennellate p. 16
2.1 Caro Tom, Basel 1 Febbraio 2006 p. 17
2.2 Caro Gottfried, Chicago 3 Giugno 2006 p. 20
3. Il ritorno delle immagini, Die Wiederkehr der Bilder: prima messa a
fuoco p. 22
3.1 Cosa hanno in comune le immagini: la differenza iconica come
contrasto p. 25
CAPITOLO II: SE SIA POSSIBILE DESCRIVERE UN’IMMAGINE
1. Al di là del linguaggio? Osservazioni sulla logica delle immagini p. 29
1.1 La logica predicativa e la logica delle immagini p. 32
2. La descrizione dell’immagine p. 34
2.1 Quali siano le descrizioni che possano dirsi riuscite p. 36
2.2 La descrizione in Panofsky p. 37
2.3 Il contrasto della descrizione: la descrizione nella crisi del
figurativo p. 43
2.4 Actual fact e factual fact p. 46
3. Il mostrare della descrizione p. 49
4. Il logos muto p. 54
4.1 La parola e gli infiniti spazi di là da essa p. 59
CAPITOLO III: PAROLE E IMMAGINI
1. Michael Baxandall: Linguaggio e spiegazione, quadro e descrizione p. 64
1.1 Regis Debray: Scusarsi di parlare di immagini? p. 67
3 2.1 Se sia servibile il parallelismo della descrizione come
traduzione dell’immagine p. 71
2.2 Particolarità del testo–traduzione/commento p. 73
3. Leggere un’immagine p. 76
3.1 Jean-Jacques Wunenburger e le soglie dell’interpretazione
aperta p. 77
4. Cosa vogliono le immagini da noi p. 79
CAPITOLO IV: VERSO UN’ESTETICA DELLE ATMOSFERE
1. La svolta iconica verso un’estetica delle atmosfere p. 84
2. Le immagini agiscono e suscitano p. 88
3. I contributi di un approccio atmosferico p. 90
4. Che cosa sono le atmosfere p. 93
5. Lo sguardo spettatoriale p. 97
6. La rivoluzione dei musei p. 99
7. Esperimenti di scrittura sull’immagine-atmosfera? p. 105
CAPITOLO V: CREAZIONE DI UN PILOT
1. Osservazioni preliminari p. 110
1.1 Introduzione p. 111
2. Metodo p. 112
3.Partecipanti p. 113
4. I quadri p. 113
5. Le istruzioni e le domande prototipo p. 115
6. Findings p. 118
CONCLUSIONI p. 120
APPENDICE: Il baule magico del Cantastorie: storie - produzioni grafiche- racconti inventati. Tracce di una ricerca sul campo al Museo
4
BIBLIOGRAFIA p. 135
5 INTRODUZIONE
Nel 1994 mentre Gottfried Boehm delinea i connotati di una ikonische Wendung, William John Thomas Mitchell oltreoceano presenta il suo pictorial turn. I sostenitori di queste svolte non segnalano solo un fenomeno emergente, ma rivendicano anche il superamento di un’altra svolta, non meno epocale ratificata da Rorty e conosciuta come linguistic turn.
Parlare di una svolta iconica significa domandarsi quale posto abbiano le immagini in una riflessione filosofica e se, e in che modo, è possibile che una
Bildwissenschaft se ne occupi, dopo aver risolto problemi di natura metodologica
riguardo a quale sia propriamente l’oggetto di ricerca.
Si profila la possibilità di una teoria dell’immagine che si eriga a disciplina autonoma e che tenti di occuparsi delle immagini provando a non pensare alla loro inferiorità o sudditanza nei confronti della sfera linguistica.
Dopo aver presentato il carteggio Boehm-Mitchell, proponendo una sorta di cornice del quadro del dibattito sull’immagine, ci soffermeremo prima sui punti di convergenza e intersezione delle rispettive riflessioni, individuandoli nel fatto che entrambi sentano l’emergenza di muoversi all’interno di un rivolgimento di paradigma rispetto all’invadenza pan-linguistica derivata dal linguistic turn.
Entreremo poi nello specifico delle argomentazioni di Boehm circa il suo
valutare sconfinamenti e soglie di compenetrazione del linguistic turn e dell’iconic turn. Verrà attribuito a Wittgenstein, alle sue somiglianze di famiglia e
6 problematizzato il linguaggio e aver dato vigore alla potenza figurativa insita in
esso.
Presenteremo come a parere di Boehm l’immagine si fondi sul contrasto tra
la totalità di una superficie chiaramente visibile e tutte le interazioni che essa
include al suo interno. Questo contrasto andrà sotto il nome di differenza iconica,
intesa come potenza visiva e logica che appartiene al materiale e risiede
irrinunciabilmente nella materia, ma al tempo stesso lascia apparire un senso che
supera ogni fatticità.
Il secondo capitolo sarà incentrato sull’indagine della produzione iconica di
senso e sul rapporto tra questa e il linguaggio. Non si tratterà di proporre un
nostalgico recupero di una dimensione prelinguistica ma di valutare come l’immagine possa avere una propria potenza e goda di autonomia rispetto al
linguaggio. Boehm sosterrà che al di là del linguaggio esistono enormi spazi di
senso, in cui non sono necessari né perfezionamenti, né giustificazioni a posteriori
da perseguire tramite la parola. Tuttavia pur trattandosi di un senso non- predicativo è indubbio che l’immagine si trovi da sempre ad essere legata a
ekphrasis, descrizioni, discorsi, interpretazioni verbali e iconologia ed è proprio il rapporto descrizione di un’immagine e immagine, ad essere il fulcro del presente
capitolo e più in generale del nostro elaborato. Le descrizioni sono una
comprensione linguistica del fenomeno- immagine? Da quale fine sono animate?
Tentano di decifrare il visibile e vincolarlo ad un contesto linguistico o si
muovono in qualche altra direzione? E quando la parola descrittiva è appropriata
nel testimoniare l’eccesso iconico di senso? Boehm partirà da una critica alla
7 controllo del processo descrittivo, rivelandosi come un atto di violenza all’immagine, per delineare la sua proposta positiva riguardo ai requisiti che
debba avere una descrizione per adeguarsi ad un’immagine con le dovute distanze
e senza muoverle violenza. Le descrizioni suddette dovranno mostrare un di più dell’immagine cercando di cogliere l’invisibile, dovranno mantenere una distanza
intenzionale nel rispetto di chi guarda, per non consegnare una visione in parte già
interpretata, non potranno mai essere riproduzioni verbali perfette e non dovranno
essere narcisistiche ma vivere il momento di auto-trasparenza in vista dell’immagine. Il secondo capitolo contiene un paragrafo dove Boehm sembra
suggerire anche un’altra direzione. Abbiamo usato lo stesso titolo del saggio originale “Il logos muto” e di proposito lo abbiamo inserito dopo la pars
costruens riguardo le caratteristiche che debba avere una descrizione, perché ci sembra che presenti quasi il rovescio della medaglia. Si sostiene che ci sia un discorso silenzioso che si esprime nella sfera esperienziale dell’occhio e che si
apre in un senso pre-verbale o non-verbale, la cui ricchezza può essere tradotta in linguaggio a prezzo dell’incompiutezza. Il ricorso a Merleau-Ponty e al suo dire
che il linguaggio dice perentoriamente quando rinuncia a dire poiché ha sempre
una componente limitante e limitata nel prendersi carico delle sfaccettature delle
cose viste, sembrerebbe suggerirci una sorta di proclamazione del primato dell’iconico rispetto al verbale. Dunque quasi un invito a restare muti? Abbiamo
lasciato prudenzialmente aperta la questione fino a riconsiderarla alla luce di un’estetica atmosferica.
Il terzo capitolo dà uno sguardo ulteriore al rapporto parole immagini.
8 della descrizione di un’immagine (tuttavia Boehm ha proceduto ex- post, nel
senso che non è arrivato a domandarsi se l’interpretazione sia un momento
imprescindibile della fruizione estetica). Il capitolo è così scandito su diversi
aspetti della questione, per quanto non abbia in nessun modo la pretesa di esaurire
tutte le possibilità o presentare tutte le problematiche del caso.
Il capitolo è dunque animato dal tentativo di inserire il pensiero di Boehm,
riguardo al rapporto parole-immagini, in un’ampia cornice di riferimento, in cui
vengono presi in considerazione diversi aspetti del dibattito che coinvolge,
connette o discosta la sfera linguistica da quella iconica. Questa panoramica
servirà come sostegno della codifica programmatica e positiva che Boehm ha proposto riguardo a quelle descrizioni di un’immagine che possono dirsi adeguate
rispetto ad essa. Mentre nel precedente capitolo abbiamo semplicemente esposto i requisiti che una descrizione di un’immagine, a parere di Boehm, debba avere, nel
presente capitolo problematizzeremo i suoi risultati.
Partiremo, dunque, dalle assunzioni proposte da Boehm ed emerse nella
precedente trattazione per affrontare tre direttive. La prima, sottolinea le
differenze strutturali che sussistono tra il medium linguistico e quello iconico, a
sostegno del fatto che, posta questa constatazione di differenze, possiamo provare a cercare quali parole siano adeguate all’immagine senza la pretesa di volerla
delineare definitivamente. La seconda, partendo dal presupposto che a parere di
Boehm le descrizioni di immagini non devono perseguire l’ideale di una riproduzione verbale perfetta affronterà l’analogia della descrizione di
9 ricrea, non solo perché aggiunge o toglie qualcosa, ma anche perché riesce a
generare del nuovo.
La terza, metterà a confronto due modelli riguardo al compito delle
descrizioni: il primo, che prevede la necessità di una descrizione che legga l’immagine per darle significatività e che viene esplicitamente rifiutato da Boehm,
il secondo, che diametralmente opposto sostiene che tutte le volte in cui cerchiamo di descrivere un’immagine traducendo il dato visivo in parole,
riduciamo la loro complessità. La seconda posizione è un’assunzione implicita del
sistema delle descrizioni di un’immagine proposto da Boehm.
Il quarto capitolo riconsidera la trattazione di Boehm riconoscendone i
meriti, sventando fraintendimenti, facendone emergere i limiti. Boehm non
sostiene che la sfera linguistica non possa concorrere a dare nuovi modi di vedere,
né che immagini e linguaggio non possano condividere una segreta
corrispondenza. Dal linguistico possono infatti provenire dei nuovi modi di vedere
e non prenderne atto in un progetto di una Bildlichkeit può condurre in ultima
istanza al rischio di un mutismo tanto del logos iconico quanto di chi se ne
occupa. Ciò che vuole fare propriamente Boehm è opporsi alla degradazione del
senso iconico a surrogato del senso linguistico. Tuttavia non vuole delimitare in
maniera escludente i due ambiti, poiché è consapevole del fatto che una volta che
si ponga una irreversibile scissione dobbiamo di necessità chiederci quale dei due
media sia più efficace e superiore dell’altro, cadendo così in un errore di
valutazione.
Riguardo alla performatività delle immagini Boehm sembra invece non
10 di altro da sé, generino nel fruitore delle reazioni-emozioni. L’immagine dunque
non mostra, ma agisce e suscita. L’esperienza estetica allora si configurerebbe più propriamente come il cogliere l’atmosfera diffusa che l’immagine irradia. Si
tratterebbe di concepire la percezione come situazione affettiva nel senso che
veniamo colti dalle atmosfere emanate, prima di qualsiasi atteggiamento riflessivo
e predicativo. Che cosa garantirebbe l’approccio atmosferico? Riuscirebbe solo a svincolare l’estetica dal taglio semeiotico ed ermeneutico per cui le immagini
sono sempre testi da decifrare e leggere, permettendo il recupero dell’immagine in
quanto presenza proprio- corporea? Ad uno sguardo retinico verrebbe a sostituirsi
un incontro proprio-corporeo che colga l’atmosfera dell’immagine.
Abbiamo alla luce di questo problematizzato il ruolo dello spettatore
rispetto alle atmosfere e ci siamo chiesti se esse siano di natura tali da essere colte
di necessità o se ci sia bisogno di un indirizzamento alle atmosfere che ci spinga
ad approcciarci alle immagini attraverso un’esperienza affettivo-corporea.
Quasi come una conseguenza di questo nuovo approccio abbiamo proposto
un rivolgimento del museo, da contenitore di immagini a contenitore atmosferico.
Il capitolo termina con la presentazione di un progetto di ricerca interuniversitario
su letteratura e visualità, dove ad alcuni scrittori è stato chiesto di scegliere un’immagine e proporne una descrizione. I risultati ci sono sembrati un’adeguata
forma di dialogo e ibridazione tra parole e immagini in chiave atmosferica e forse
anche un esempio vero e proprio di descrizioni adeguata alle immagini come
Boehm le ha delineate. Le descrizioni di queste sperimentazioni narrative oltrepassano l’immagine stessa prendendo sentieri imprevedibili, facendone
11 vivere l’atmosfera e non creando un’etichetta di arida interpretazione
oggettivante.
Il capitolo quinto, sulla scorta di questo approccio atmosferico, presenterà
un esperimento pilot, da noi ideato che ricapitoli quanto emerso nella presente
trattazione e indaghi se il titolo di un quadro possa influenzare la nostra
percezione primaria. Si formeranno due gruppi cui verrà chiesto di rispondere a
determinate domande; ad un gruppo saranno mostrati quadri con titolo, all’altro
gli stessi quadri, ma simulando che siano senza titolo, per scelta dell’artista. Senza pretesa di un’analisi quantitativa o qualitativa, procederemo solo, riguardo ai
findings del pilot ad annotare i dati più significativi.
La presente trattazione prevede come perno dell’asse di ricerca un’indagine
sul rapporto immagine-descrizione, muovendo dalle proposte formulate da
Boehm. Per motivi di coerenza interna al nostro lavoro abbiamo coscientemente
deciso di “ritagliare” il Bild e qui occuparci solo di descrizioni di immagini, intese come opere d’arte pittorico-figurative della contemporaneità. Ci sembra
opportuno fare questa precisazione per non cadere in errori di false premesse o
inopportune generalizzazioni. L’asse della ricerca, per prendersi carico della
domanda di partenza riguardo a come si possano descrivere le immagini, si sposta
sul versante di una nuova estetica atmosferica, come a voler suggerire che,prima di capire in che modo un’immagine possa essere descritta, è necessario
domandarci in che modalità possa essere vissuta. Non vogliamo affermare che la
nuova estetica atmosferologica sia l’unica ad essere idonea rispetto al potenziale dell’immagine o sia l’unica via percorribile, ma senza dubbio essa ci spinge a
12 in modo tale da limitare, influenzare o canalizzare la nostra libertà di incontro con l’immagine.
A sostegno di questo aspetto si colloca anche il nostro studio pilota sulle opere d’arte senza titolo. Vedremo nelle conclusioni del nostro lavoro ulteriori
riflessioni su quanto emerso dalla trattazione. Ad ogni ci modo ci preme
sottolineare come non vogliamo proporre tra parole e immagini un rapporto di
esclusione, ma suggerirne una collaborazione, ibridazione e dialogo affinché la
nostra percezione non risulti limitata o influenzata, ma arricchita.
Dopo aver dato delle coordinate spaziali riguardo ai movimenti del nostro
argomentare, fatto precisazioni necessarie e suggerito forse già qualche punto di
13 CAPITOLO I: LA SVOLTA ICONICA
1. Ikonische Wendung: la cornice del quadro
Nel 1994 mentre Gottfried Boehm pubblica un saggio dal titolo “Die
Wiederkehr der Bilder” in cui si delineano i connotati di una Ikonische Wendung, Thomas Mitchell oltre oceano parla nel suo Picture Theory di pictorial turn.
I loro studi hanno poi fornito la molla argomentativa ai Visual Culture
Studies, una corrente multidisciplinare che si dedica allo studio dell'immagine e della dimensione visiva nella cultura da un punto di vista storico, sociale,
ideologico.
Per comprendere verso cosa punti l'ago della bussola in una navigazione
piena di insidie e fraintendimenti è necessario preliminarmente capire in che cosa
si configurino queste svolte, quale sia stata la rotta prefissata e da che cosa
desiderino prendere le distanze lasciandosi la terra alle spalle.
I sostenitori di siffatte svolte «non si limitano a segnalare un fenomeno
emergente, ma rivendicano contemporaneamente anche il superamento, più o
meno dialettico, di un'altra svolta non meno celebre ed epocale, quella linguistica,
appunto, ratificata da Richard Rorty».1
Il linguistic turn non si limitava a voler affermare il potere che aveva
conquistato il linguaggio alla fine degli anni Sessanta, ma voleva essere «una
svolta della filosofia, che concerne il posto occupato dal linguaggio nell'ordine del
giorno della riflessione filosofica, o meta-filosofica, come precisava Rorty».2
1 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 11. 2 Ibidem.
14 Parlare di una svolta iconica induce quindi a chiederci quale sia il posto
delle immagini nella riflessione filosofica. La domanda non è scontata e neppure
scevra da ripercussioni.
Il primo problema si manifesta su un versante storico: oggi riconosciamo
all'iconico forza e potere propri, ma si tratta di una scoperta o di una ri-scoperta?
Detto in altre parole perché dovremmo ritenere che l'immagine si accorga
proprio adesso di avere dei poteri da rivendicare?
Il secondo problema riguarda l'ambito delle possibilità di una “scienza” che
abbia come oggetto l'immagine così come le precisazioni terminologiche e
concettuali.
Se vogliamo infatti proporre il progetto di una Bildwissenschaft
preliminarmente dobbiamo fissare nell'ambito di eterogeneità e polivocità del
concetto di Bild, quale sia l'elemento di significatività che le immagini
condividono per non cadere nel paradosso di voli pindarici intorno ad un vuoto
concettuale.
Quello che la nuova Bildwissenschaft si trova a fronteggiare è un problema
di natura metodologica e in questo starebbe anche la chiave di lettura del carattere
rivoluzionario della svolta iconica: «la novità, la svolta, consiste piuttosto nel
modo in cui delle immagini si parla».3
E qui siamo costretti ad arrestarci di fronte ad un gomitolo di conseguenze,
ad un proliferare di dibattiti in cui cercheremo speranzosi di trovare il bandolo
della matassa, quel filo rosso che se non sarà in grado di farci ancora uscire dal
15 labirinto, tuttavia almeno ci mostrerà guardandoci indietro, i passi già fatti,in
avanti prospetterà il lungo sentiero su cui ancora camminare.
Dire che la svolta consiste nel modo in cui delle immagini si parla significa
infatti chiedersi:
[…] come si può parlare dell'immagine o più precisamente di una filosofia dell'immagine senza restare, magari involontariamente nel paradigma di una filosofia del linguaggio (sulle immagini)? E più in generale è possibile un sapere, che lo si voglia qualificare come filosofico o in qualche altro modo, che si realizzi e tematizzi esclusivamente nelle e attraverso le immagini?4
Si profila e si vagheggia la possibilità di una teoria dell'immagine come
disciplina autonoma che si occupi a pieno titolo delle immagini provando a non
pensare in termini di inferiorità o sudditanza nei confronti della sfera linguistica.
Questa autonomia è realmente praticabile e può vantare una sua legittimità
o invece sta avanzando solo pretese? Come si riesce ad uscire dall'impasse di un
bivio che per una strada ci conduce a vedere indifferentemente in un'immagine
qualunque cosa (stiamo pensando alla posizione tanto tautologica quanto
banalizzante di Frank Stella «what you see is what you see»5) mentre per l'altra ci
costringerebbe ad arrestarci di fronte ad un'immagine, rimanendo muti? Il
paradosso della nuova scienza è, se non risolvibile, in qualche modo arginabile?
Si può arginare proponendo una nuova estetica, nel senso etimologico del termine,
ovvero proponendo un nuovo approccio di esperienza con l’immagine?
4 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 12. 5 Ivi, p. 18.
16 Boehm arriverà ad affermare che «chiunque annetta al testo dietro
l'immagine un'eccessiva importanza finisce immancabilmente per approdare ad
una dominanza del linguaggio che - letteralmente- non riesce a vedere l'immagine
in tutte le sue possibilità».6
Tuttavia prima di parlare di esiti e arrivi, presentiamo la mappa, diamo voce
agli spostamenti, illustriamo quindi l'itinerario di viaggio.
2. Lo scambio di vedute sul Lebenswelt: pennellate
Ai fini della trattazione riportiamo il carteggio tra G.Boehm e W.J.T.
Mitchell che compare tradotto in italiano sulla Rivista Lebenswelt. Aesthetics and
philosophy of experience.7
Per quanto quella che andremo ad analizzare nel dettaglio sarà la Svolta
iconica, così come viene formulata da Boehm, vedremo che questo rivolgersi
reciprocamente l'uno all'altro in qualità di diretti interlocutori, contribuirà a
mettere in chiaro i punti salienti dei loro pensieri affrontando qui, per motivi di
trattazione, solo i punti di intersezione e convergenza delle rispettive riflessioni.
Che siano pennellate più o meno decise, fievoli tracce di allusioni o graffi su
tela, questo carteggio acquista un'importanza preliminare all'interno del dibattito
sulle immagini e pur essendo tardo e cronologicamente successivo alla stesura dei
loro testi programmatici, resta comunque una imprescindibile premessa per le
nostre riflessioni successive.
6 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 114.
7 Si tratta di una rivista dell’Università degli Studi di Milano che ospita articoli di estetica, filosofia
17 Per il suo carattere di disvelamento di intenti, ambizioni di una ricerca circa
le finalità di nuove metodologie applicate all'immagine, questo carteggio ha la
funzione di farsi chiave di lettura per chi voglia accostarsi a quel clima di fervore che gravita intorno all’immagine.
2.1 Caro Tom, Basel 1 Febbraio 2006
Boehm comincia il carteggio con Mitchell con un interrogativo che suona
quasi come un'esigenza o un monito di procedere adagio, con cautela e senza
avventatezze: «non sarà forse che la scienza dell'immagine (Bildwissenschaft) sta
iniziando troppo presto a scrivere la propria storia, senza ancora sapere né cosa sia
né cosa possa essere?»8
Senza discussioni sulla paternità del termine Boehm pone subito l'accento su
quale sia l'emergente novità nel dibattito sull'immagine: «quello dell'immagine
non è affatto un nuovo tema; si tratta piuttosto di un modo di pensare diverso,
capace di mettere in luce e sfruttare le possibilità cognitive delle rappresentazioni
non verbali».9
Potere, potenziale dell'immagine e il suo non essere riconducibile ad una
sfera linguistica, sono questi gli “accenti” che portano ad intendere l'immagine
come un nuovo logos (intendendo con questo termine un atto generatore di senso):
8 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 118.
18
[…] intendere l'immagine come logos, come atto generatore di senso: fu questa visione di un logos non verbale, di un logos iconico a spingermi ad attribuire al rafforzamento dell'interesse per l'immagine - o meglio per le immagini - un significato paradigmatico, e a parlare dell'iconic turn come di un progetto dalle più ampie prospettive. Com'è che le immagini generano senso?»10
Dopo aver quindi presentato gli aspetti teorici del progetto e riferendosi
all'interrogativo sopra emerso circa le modalità con cui le immagini generino e
producano un senso, Boehm si domanda anche come si giunga ad esporre un
significato facendo a meno del linguaggio.
Emanciparsi dalla pre-datità del linguaggio non significa comunque di
necessità escludere il linguaggio dalla sfera di riflessione sull'immagine. Come
infatti precisa:
[…] l'iconico non si sottrae al linguaggio ma se ne differenzia. Proprio come l'occhio, così anche l'immagine non è affatto innocente o immediata, ma è invece variamente correlata ai contesti di pensiero, genere sessuale, cultura, ideologia e discorso in cui vede la luce. Ciò non significa ovviamente che possa essere dedotta da questi contesti. Il “mio” è quindi un turn di critica dell'immagine, non di critica dell'ideologia.11
Seguono quindi una serie di considerazioni di scelta terminologica circa il
neologismo ikonisch, che si soffermano sulle differenze che sussistono tra lingua
inglese e lingua tedesca legate al concetto di immagini:
10 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 121.
19
[…] la lingua tedesca non distingue tra picture e image: bild e bildlich coprono un campo semantico molto vasto, e il neologismo ikonisch non fa che sottolineare ulteriormente questa generalizzazione, dal momento che indica tanto un oggetto quanto un metodo e dà quindi un nome all'esigenza teoretica messa in campo dal turn.12
Questa precisazione linguistica è molto importante per evitare il rischio di
fraintendimenti o sovrapposizioni con l'iconic ad esempio delineato da Charles
Sanders Peirce13, rischio che potrebbe sorgere spontaneo per gli anglofoni per
motivi di analogie, omofonie e richiami con ikonisch.
Lungi dal connotarsi come un atto di pedanteria, questa è una precisazione
molto importante perché il pericolo non è solo quello di un blando
fraintendimento di omonimia o un tentativo di sottolineare l'originalità del
termine; il rischio si ha allorché associando le due posizioni si cada in un errore
interpretativo riguardo al modo in cui intendere questa svolta rispetto all’iconico.
Già, infatti, in Zur einer Hermeneutik des Bildes per scongiurare l'approccio
di un'iconografia che non tenesse conto della «significativa evidenza intuitiva
dell'immagine»14 Boehm aveva proposto di sostituire ad un'ermeneutica che
riduceva tutto ad un fatto di linguistica, un'ermeneutica dell'immagine.
Riportiamo l'enunciazione dell'obiettivo programmatico di quel testo:
12 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 124.
13 Charles S. Peirce distingue i segni ( entità composte da significato e significante) in icona,
simbolo e indice. Si riferisce ad icon in tutti quei casi in cui il segno assomiglia al concetto rappresentato o si riferisce al segno che denota.
14 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 126.
20
[…] il mio obiettivo principale era quello di proteggere le immagini dal tentativo di definirle eteronomamente in termini linguistici, facendo ricorso a riferimenti iconologici o anche a ecfrasi che non mostrano la differenza tra dicibile e visibile. Allo stesso tempo però non volevo in alcun modo separare completamente immagini e linguaggio. Partendo dal presupposto che la comunicazione linguistica consentisse benissimo di accedere alle immagini, proponevo il modello di una traduzione reciproca che non avesse come unico fine quello di discutere sulle immagini, ma fosse anche in grado di valutare se una parola avesse colto nel segno, mettendola alla prova nel confronto con l'originale, cioè con l'immagine.15
Sarà in parte proprio questo testo, con il suo delineare il carattere figurale
del linguaggio, a suggerire l'idea di «far proseguire il linguistic turn in direzione
di un iconic turn»16.
2.2 Caro Gottfried, Chicago 3 Giugno 2006
L'incipit della lettera di Boehm in cui affiorava la paura che i tempi non fossero ancora maturi per scrivere una scienza delle immagini viene in questa sorta di respondeo, da Mitchell stemperato: «non è troppo presto per scrivere una storia in media res o almeno per registrare i nostri rispettivi percorsi all'interno di questo labirinto».17
15 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 127.
16 Ibidem. 17 Ivi, p. 130.
21 I loro sono «sentieri paralleli che si inoltrano nella foresta»18 e seppur divergendo su molti aspetti presentano anche dei punti di intersezione.
Per la seguente trattazione, il cui fine esula da un'analisi critica delle differenze del pensiero e degli esiti argomentativi delle produzioni dei due pensatori, presenteremo solamente le analogie dei loro percorsi sulla lunga strada che costeggia l’immagine.
Così recita Mitchell: «forse è questo il punto giusto per fare qualche considerazione sui luoghi in cui i nostri rispettivi percorsi intellettuali si sono incrociati».19
Certamente anche per Mitchell la svolta linguistica, con il suo tentativo di fare del linguaggio l'oggetto paradigmatico della riflessione filosofica e con l'effetto seppur non intenzionale e non direttamente voluto, di relegare le immagini alla periferia, è stata un punto di riferimento e un punto di partenza.
Ad ogni modo le immagini per entrambi i pensatori, ed è questo forse il punto più importante di comunione, sono il «luogo di significativa alterità rispetto al linguaggio».20
Il problema di linguaggio e immagini ha finito per diventare poi per Mitchell una «sorta di identità professionale»21 considerata anche la sua sottoscrizione alla IAWIS (International Association of Word and Image Studies) e all’affermarsi della sua rivista Word & Image.
18 Gottfried Boehm, Iconic Turn. Una lettera, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 127.
19 William J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Una risposta, «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», 2[2012], p. 138.
20 Ibidem. 21 Ibidem.
22 Questo scambio di prospettive dei due pensatori ci è servito per inserire la Svolta iconica così come viene formulata da Boehm in una cornice di rivolgimenti di paradigma rispetto all’invadenza pan- linguistica derivata dal linguistic turn.
L’emergenza di rivolgere attenzione al potere proprio dell’immagine si presenta da una parte come reazione alla suddetta invadenza, dall’altra ha anche come pars construens quella di indagare la significativa alterità dell’immagine rispetto al linguaggio.
Quelle che abbiamo chiamato pennellate del quadro sono servite dunque per sottolineare come ci sia stato un movimento di ampia diffusione mirante ad indagare la sfera dell’immagine come ambito autonomo di senso.
Dopo una disamina delle analogie con Mitchell entriamo adesso nello specifico della riflessione che Boehm fa riguardo a quella che chiama “il ritorno delle immagini”.
3. Il ritorno delle immagini, Die Wiederkehr der Bilder: prima messa a fuoco
Boehm scrive nel saggio tradotto in italiano con Il ritorno delle immagini:
«vogliamo qualificare il ritorno delle immagini, che si concretizza su diversi piani
a partire dal XIX secolo come una svolta iconica».22
Asserisce successivamente ed espressamente le analogie con il linguistic
turn, che nella sua forma radicale supponeva che tutti i problemi di cui si occupava la filosofia fossero problemi di linguaggio e si risolvessero nelle sue
regole.
23 Fino a qui nihil novi sub sole, rispetto a quanto finora è emerso dalla nostra
trattazione. Ma come si passa dal linguistic all'iconic turn? Si tratta di due
momenti totalmente contrapposti o ci sono sconfinamenti e soglie di
compenetrazione?
Boehm introduce come anello di congiunzione e come sconfinamento da
una svolta all'altra il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche.
È proprio quella la sede in cui viene introdotto il concetto di gioco
linguistico, basato sulla somiglianza di famiglia dei concetti.
Nel paragrafo 66 Wittgenstein scrive così:
[…] considera, ad esempio, i processi che chiamiamo “giuochi”. Intendo giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palla, gare sportive, e via discorrendo. Che cosa è in comune a tutti questi giochi? Non dire deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero giuochi- ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele e anzi ne vedrai tutta una serie. Come ho detto: non
pensare, ma osserva!23
Cosa sta facendo Wittgenstein e cosa ci sta suggerendo?
Sta tentando di aprirci una nuova prospettiva nel cercare di capire cosa
abbiano in comune tutti questi giochi e quale sia il tratto condiviso per cui effettivamente si possa parlare di un “gioco” usando il singolare.
Sta facendo, però a parere di Boehm, anche molto di più.
24 Ci sta invitando ad abbandonare la logica predicativa che si propone di
pensare e dire un concetto, per entrare in una dimensione immaginativa fatta di
osservazione e di sguardo, dimensione in cui il concetto di gioco si presenta come
un «concetto sfumato»24 al punto che possiamo giungere fino al limite e
domandarci: «ma un concetto sfumato è davvero un concetto?».25
Somiglianze. Parentele. Nel paragrafo successivo queste somiglianze
verranno radunate sotto l'espressione «somiglianze di famiglia»26 dove «le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e
s'incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi,
modo di camminare, temperamento».27
Come agiscono le somiglianze?
Le somiglianze ineriscono alla sfera visiva e fanno decisamente appello agli
occhi, evocano inoltre «risonanze e tracce che si possono vedere o leggere più che
dedurre».28
Per questo Wittgenstein ci invita a guardare e ad osservare, piuttosto che a
pensare.
I legami che uniscono le somiglianze non sono rigidi, ma neppure per
questo, sono da considerarsi meno solidi: «qui compaiono gli stessi tratti
fisionomici, lì dei gesti che ci ricordano qualcosa, gli individui si riconoscono
perché si presenta il colore dei capelli, della pelle, degli occhi, le attitudini o le
mentalità».29
24 Ludwig Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, Torino, Giulio Einaudi editore S.p.A., 1999, p. 46. 25 Ibidem.
26 Ivi, p. 47. 27 Ivi, p. 46.
28 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 40. 29 Ibidem.
25 Quale è stato dunque il merito di Wittgenstein?
Viene attribuita a Wittgenstein «la problematizzazione del linguaggio che
ha dato vigore alla potenza figurativa insita in esso ed ha condotto il linguistic
turn ad un iconic turn».30
Ha raggiunto questo scopo31 introducendo il concetto di “gioco” che ben si
presta al suggestivo intreccio di rapporti regolativi con il mantenimento di spazi di
libertà e creatività.
Possiamo cogliere i suggerimenti di Wittgenstein e utilizzare il suo modo di
procedere, allorquando tenta di determinare il concetto di gioco interrogandosi
sulle somiglianze tra giochi diversi? È possibile applicarlo ad una nostra ricerca
per un concetto di immagine?
3.1 Cosa hanno in comune le immagini: la differenza iconica come contrasto
Nel tentativo di definire un sentiero percorribile che includa l'eterogeneità e
la pluralità che si trova di fronte chi si interroghi sull'immagine e sulle immagini,
sembra che una premessa imprescindibile possa esser data dalla questione: che
cosa hanno in comune le immagini?
Una domanda così generalizzante e così formulata sembra comunque dar
luogo ad una fallacia logica in bilico tra una petitio principii e un ragionamento
30 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 41.
31 Lo scopo che qui si dice raggiunto da Wittgenstein non era dal filosofo minimamente preposto.
Stiamo riportando il punto di vista di Boehm che vede nel concetto di somiglianze e nell’invito a guardare, piuttosto che a pensare, l’anello di congiunzione tra linguistic turn ed iconic turn, forse a giustificare il fatto che tra i due sussistano sconfinamenti e a proporre una plausibile spiegazione da cui far scaturire il carattere di continuità tra svolta linguistica e svolta iconica.
26 circolare. Come poter dire che cosa hanno in comune immagini oniriche,
formulate dalla mente, pensate, dipinti, sculture, metafore, gesti, specchio o
mimetismo, senza fissarne preliminarmente una definizione? Come intraprendere
la via del cosa abbiano in comune senza battere il sentiero di cosa siano? E si può
arrivare in qualche modo al concetto tramite percorsi di inferenze induttive?
Una prima risposta ci viene fornita da Gottfried Boehm nell'accostare il
concetto di metafora a quello di immagine. Potrebbe sembrare a primo acchito un
passo indietro in parte connotato di incoerenza, nel senso di voler legittimare l’autonomia dell’immagine rispetto alla sfera linguistica, passando però da
quest’ultima per fissarne una definizione; ma entriamo nell’argomentazione da lui
proposta, prima di procedere con considerazioni ulteriori.
Si chiede: «è possibile chiarire la questione dell'immagine passando indirettamente attraverso il linguaggio?»32
La figura del linguaggio che sembra sostenere un «adeguato modello strutturale della figuratività (Bildlichkeit)»33 è la metafora.
Possiamo pensare questa figura retorica come una deduzione incompleta nelle sue parti, cui mancherebbero la premessa o la conclusione. Si tratterebbe quindi di un entimema, che a differenza della struttura finita e chiusa di un sillogismo, presenterebbe apertura, incompletezza e plurivocità.
Proprio queste caratteristiche con la loro assenza di esattezza puntuale garantirebbero alla metafora di esercitare il suo fascino di seduzione nell'ascoltatore dando luogo a risonanze affettive, corrispondences, stimolando allusioni ed evocando un senso, nel suo lasciare semplicemente orme.
32 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 53. 33 Ivi, p. 54.
27 Dove sta quindi così come l'abbiamo connotata il «carattere figurale (Bildhaftigkeit)»34 della metafora?
Esso risiede nel contrasto, che emerge nell'inatteso di parole accostate tra loro, in fratture, nell'indeterminatezza, nel non detto o in salti mentali non quantificabili o non prevedibili.
In questo senso la metafora rimanda a un qualcosa di tangibile e concreto che può essere visto e che è già per se stesso un'immagine.
Estendendo questo concetto di contrasto e trasportandolo alla questione delle immagini, con senso di continuità, vediamo come anche l'immagine si fondi sul contrasto tra la «totalità di una superficie chiaramente visibile e tutte le interazioni che essa include al suo interno».35
Così come avviene nella metafora, anche per le immagini quindi il luogo d'origine del loro senso, la forza in virtù della quale mostrano un quid e dicono qualcosa, risiede in questo contrasto.
Gottfried Boehm per riferirsi a questo contrasto parla di «differenza
iconica»36 e ne formula una definizione in questi termini:
[…] questa designa una potenza insieme visiva e logica, che caratterizza la peculiarità dell'immagine, la quale appartiene insopprimibilmente alla cultura materiale, è iscritta irrinunciabilmente nella materia, eppure vi lascia apparire un senso che allo stesso tempo supera ogni fatticità.37
34 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 55. 35 Ivi, p. 56.
36 Ivi, p. 57. 37 Ibidem.
28 Quella che viene proposta è una storia dell'immagine non dal punto di vista della genesi storica e a prescindere dalle variabili storicamente collocate o ai condizionamenti degli stili, dei generi, dei committenti e degli artisti. Ad essere proposta è una storia dell'immagine dal punto di vista del suo significato, senso e pretesa di valore.
In ultima istanza, questo significa parlare dell'immagine come qualcosa che nell'«ambito confinato della materia produce un'eccedenza di senso».38
Tuttavia riflettendo su come questo possa avvenire stiamo già sconfinando, stiamo già cominciando a pensare se l’immagine basti a sé stessa nella produzione di questa eccedenza di senso o se abbia invece bisogno del linguaggio per veicolare l’eccesso ed essere così compresa.
29 CAPITOLO II: SE SIA POSSIBILE DESCRIVERE UN’IMMAGINE
1. Al di là del linguaggio? Osservazioni sulla logica delle immagini
Logik der Bilder, è una nozione che merita di essere trattata con il dovuto riguardo. Boehm muove dalla premessa che le immagini abbiano una propria
logica e una logica che pertiene soltanto ad esse.
Quella che segue è la formulazione che viene fornita riguardo a quanto
viene definito logica delle immagini:
[…] con il termine logica intendiamo qui una coerente produzione di senso attraverso mezzi autenticamente figurativi (bildnerischen). E aggiungiamo subito a titolo esplicativo: questa logica è non – predicativa, vale a dire che non è strutturata sul modello proposizionale o di una qualche altra forma linguistica. Essa non si realizza nel linguaggio, ma nella percezione.39
L’assunzione indubbia è che chiunque è in grado di accorgersi che le
immagini possiedano una intrinseca forza e un proprio significato. Ad essere
motivo di indagine è in che modo funzioni questa produzione iconica di senso e in
che modo si leghi al problema del linguaggio. Dice Boehm:
Lo scopo di una tale indagine non riposa in una sorta di nostalgico recupero di una dimensione prelinguistica, nell’analfabetismo di una presunta innocenza delle immagini, ma al contrario, nella determinazione di un nuovo rapporto in cui l’immagine non sia più sottomessa al linguaggio, anzi innalzi
30
il Logos oltre l’ambito limitato della verbalità, alla potenza dell’iconico e con ciò lo trasformi.40
Da che cosa trae questa potenza l’iconico?
Abbiamo già detto citando la formula di differenza iconica che le immagini
non si risolvono nel loro supporto materiale, ma «attraverso la fatticità, si mostra
sempre qualcosa d’altro: una visione, una scena, un senso».41
Questo senso appare dalla materia e in un certo modo si mostra lasciando
emergere la possibilità di vedere qualcosa alla luce di qualcosa d’altro.
Il riuscire a penetrare l’immagine e scoprirla, cercando di individuare qualcosa “come” qualcosa d’altro è «un atto fondamentale di conferimento di
senso che non si realizza solo linguisticamente, ma anche tra l’occhio e il mondo
materiale»42
Il carattere singolare ed enigmatico dell’immagine fa sì che essa sia definita
in questi termini:
[…] l’immagine è una cosa e contemporaneamente una non- cosa, si trova a metà strada tra una pura realtà e l’immaterialità dei sogni: è il paradosso di una reale irrealtà.43
L’essere tra una realtà e una immaterialità fa sì che il contenuto provocato
ed evocato dalla differenza iconica emerga, pur rimandando a qualcosa di assente,
poiché «nessuna immagine può sussistere senza questa ineliminabile
40 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 106. 41 Ivi, p. 108.
42 Ivi, p. 109. 43 Ibidem.
31 distanziazione. Né alcuna presenza può affacciarsi senza l’ombra inevitabile dell’assenza»:44
Da questo dipende anche il potere vero e proprio delle immagini e quindi la loro capacità di dare accesso a qualcosa, a ciò che non è più o è altrove, un potente sovrano, un contenuto religioso, qualcosa di invisibile, ciò che non ha corpo né volto, qualcosa di immaginario, di sognato. Il potere dell’immagine significa: il fait voir, apre gli occhi, fa segno.45
Come avviene questo accesso a qualcosa che non è più o che è altrove?
Quando ci riferiamo alle immagini abbiamo in mente uno scarto in cui «uno
o più fuochi tematici che attraggono la nostra attenzione si dispongono in un
campo atematico»46, per cui quello che noi, in quanto osservatori, ci troviamo a
fare, è vedere gli uni negli altri, in un orizzonte invisibile in cui in uno sguardo se
ne profilano infiniti altri potenziali in infinite altre potenziali direzioni.
In questa relazione che è anche contaminazione di determinato con
indeterminato l’immagine trae la sua forza:
[…]con ciò si intende che ogni immagine trae la forza della sua determinazione dal legame con l’indeterminato.[…] È grazie alla contaminazione visiva di queste due realtà distinte che si avvia il processo per cui un oggetto materiale appare in quanto immagine e si produce quell’eccedenza di senso di cui abbiamo già parlato introduttivamente. La
44 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 110. 45 Ivi, p. 111.
32
differenza iconica rappresenta un principio di distinzione, di contrasto visivo, in cui al contempo si fonda un vedere- insieme.47
Questo vedere- insieme è la visione (Ansicht) che si offre al nostro sguardo
(Sicht) e che in un certo senso ci ri-guarda.
Per quanto sia possibile descrivere questo processo del vedere, esso risulta
comunque «pienamente accessibile soltanto nell’atto della visione»48, che coglie il
potenziale, l’indeterminato e l’assente.
1.1 La logica predicativa e la logica delle immagini
Boehm sostiene che la logica predicativa non può esprimersi né funzionare con l’assenza o con ciò che è predicativamente nullo:
La logica predicativa è inoltre bivalente: conosce solo il sì e il no. Con l’indeterminato, il potenziale, l’assente o ciò che è predicativamente nullo questa logica non funziona. Il “niente” non ha predicati. Tuttavia, non si può ragionare realmente sulle immagini senza ciò che è molteplice, ambiguo, sensibile e polisemico.49
Dopo aver enunciato questi passaggi dell’argomentazione, emerge più nitido
il titolo del saggio con cui abbiamo intitolato anche il nostro paragrafo. Jenseits
47 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 120. 48 Ivi, p. 123.
33
der Sprache? Al di là del linguaggio? Si apre come una formula interrogativa in cerca di risposte o comunque come una problematizzazione sul cosa ci sia al di là.
Perché andare al di là del linguaggio? E si tratta di un al di là del linguaggio
come un andare oltre esso o come un qualcosa che precede la sfera predicativa?
Cosa troviamo al di là del linguaggio? Boehm risponde così:
[…] di là dal linguaggio esistono enormi spazi di senso, in cui non sono necessari né un perfezionamento né una giustificazione a posteriori tramite la parola. Il logos non è affatto soltanto predicazione, verbalità, linguaggio.50
In un’altra sfera rispetto a quella del linguaggio ci sarebbe posto, a parere di
Boehm, non solo per la visualità ma anche per i gesti o la mimica.
Quello che importa a Boehm in questa sede è, però, di sottolineare che al di
là del linguaggio, possiamo notare che il campo delle immagini non è un dominio
isolato, ma un campo dove alle immagini è consentito:
[…] affermare la propria intrinseca estraneità, il proprio eloquente silenzio, la propria pienezza e densità visiva di contro al continuo mormorio dei discorsi, al rumore dei dibattiti e alla stretta predicazione.51
Questo senso non segue la linearità del linguaggio e nemmeno la logica
della frase. Ma si attualizza in modo totalmente differente52, sosterrà ancora
Boehm in Wie Bilder Sinn erzeugen.
50 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 124. 51 Ivi, p. 123.
52 Boehm Gottfried, Wie Bilder Sinn erzeugen, Berlin University Press, quarta ristampa Febbraio
2015, p. 239. Traduzione mia, dall’originale tedesco: “Und dieser Sinn folgt nicht der Linearitaet
34 Tuttavia pur trattandosi di un senso non- predicativo è indubbio che l’immagine si trovi da sempre ad essere legata a ekphrasis, descrizioni, discorsi,
interpretazioni verbali e iconologia.
Per cui prima di spingerci nel territorio della percezione dove entriamo in
contatto con il logos iconico, inoltriamoci nella trattazione di Boehm circa la
possibilità e il modo di descrivere un’immagine.
2. La descrizione dell’immagine
Il problema principale che gravita intorno alla descrizione di un’immagine è
domandarsi «se le descrizioni siano in generale capaci, e in che misura, di
penetrare l’essenza di una cosa»53
Boehm sostiene che fino al XX secolo immagine e parola potevano godere
di una relazione di reciprocità; nessuno avrebbe potuto ipotizzare una possibile
frattura o messa in crisi di questo rapporto.
A suo avviso la «lezione storica della modernità, consiste nella crescente
distanza che separa l’una dall’altra parola e immagine»54
Questo non significa che le immagini della modernità non si prestino in
nessun modo alla descrizione, ma che esse «favoriscono invece un altro tipo di
impegno linguistico, assai più consapevole dei propri limiti»55
Le descrizioni sono una comprensione linguistica del fenomeno- immagine?
Quale fine perseguono? Tentano di decifrare il visibile e di vincolarlo ad un
53 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 190. 54 Ivi, p. 191.
35 contesto linguistico? O si muovono in qualche altra direzione? E quando la parola
descrittiva è appropriata ed è quella adatta a prendersi carico dell’impresa di
testimoniare l’eccesso iconico di senso? Quali implicite assunzioni sottintendono
al termine appropriatezza?
Le immagini sono «rap-presentazioni (Darstellungen) e non constatazioni
(Fest- stellungen), esse fanno segno oltre la loro fatticità»56
I modi di rappresentazione di un’immagine, seguono regole diverse da
quelle che ineriscono alla lingua parlata o scritta e «si aprono primariamente al campo percettivo dell’occhio»
Quello che allora dovrebbe fare una descrizione non è un tentativo di
stabilire fedeli, lucide e oggettive equivalenze tra parola e immagine, dovrebbe
fare di più che «riverbalizzare i contenuti linguistici impliciti nell’immagine»57
La descrizione si trova davanti un campo visivo pieno di segni che devono
essere percepiti sia in successione sia in simultaneità e proprio in questo darsi istantaneo dell’immagine, così diverso dalla temporalità linguistica, risiede il
problema del poter essere detta in parola.
L’immagine stabilisce un contrasto percepibile tra la superficie e le proprietà che vi sono riconoscibili, tra una “successione” e una “simultaneità” che, a differenza dei testi linguistici o dei brani musicali, svela la propria presenza istantaneamente (per quanto ci possa anche immergere nello studio dei dettagli). La struttura dell’immagine si basa su una differenza iconica che si dà solo visivamente. Il mutamento storico della forma non può ingannarci
56 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 196. 57 Ivi, p. 196.
36
sul fatto che senso figurativo e senso linguistico si manifestano in modo diverso.58
2.1 Quali siano le descrizioni che possano dirsi riuscite
I segni devono essere percepiti e non decifrati, la differenza iconica si dà
solo visivamente.
Dunque quali sono le possibili descrizioni di immagini che tengano conto di
queste assunzioni?
Le descrizioni di un’immagine che possono dirsi riuscite sono quelle che
assolvono ad una duplice funzione:
[…] dicono ciò che è, ma dicono al tempo stesso anche come ciò agisce, ricorrendo al contenuto oggettuale dell’immagine e alla forma specifica della sua piena realizzazione. Senza riguardo per l’aspetto fattuale a rimetterci sarebbe il contenuto manifesto; senza riguardo per l’aspetto processuale si dissolverebbero le latenze dei gesti di ostensione iconica.59
58 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 197. 59 Ivi, p. 197.
37 2.2 La descrizione in Panofsky
Boehm si accorge di come la tendenza maggiormente diffusa relativamente all’immagine sia stata quella di non indagarla nella sua totalità, ma di interessarsi
più ai particolari semantici di essa. Non entreremo per il momento nel merito di cosa possa voler dire indagare un’immagine nella sua totalità e come possa essere
possibile, ma proponiamo adesso le osservazioni che Boehm fa all’approccio
ermeneutico di Panofsky, cui verrà riconosciuto il pericolo di essersi esposto,
attraverso un controllo del processo descrittivo, ad un razionalismo estraneo alla
vita.
Il saggio di Erwin Panofsky dal titolo Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, compare nel 1932 sulla rivista «Logos» ed illustra il progetto «più o meno consapevole dello storico dell’arte: letterarizzare il visivo, render parola ciò che è figura, trasformare in
segno l’immagine mediando razionalmente l’immediato». 60
L’approccio è quello iconologico, che si rivolge all’immagine come un testo
scritto e come qualcosa di perfettamente leggibile.
Panofsky nota come sia impossibile adottare per l’immagine una descrizione
puramente formale:
una descrizione che fosse davvero puramente formale non potrebbe nemmeno usare espressioni come “ sasso”, “uomo” o “ rocce”; si dovrebbe bensì limitare, di principio, a connettere tra loro i colori che si distinguono l’un l’altro attraverso svariate sfumature e che tuttalpiù possono essere messi
60 Carboni Massimo, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Milano, Jaca Book S.p.A.,
38
in relazione con complessi formali quasi ornamentali e quasi tettonici, dovrebbe limitarsi a descriverli quali elementi compositivi completamente privi di senso ed equivoci persino dal punto di vista spaziale.61
Cosa dovrà fare dunque a suo parere qualsiasi descrizione che voglia dirsi
efficace? Questa dovrà:
[…] trasformare i fattori puramente formali della raffigurazione in simboli di qualche cosa di raffigurato; già cosi essa si sposta, dalla sfera puramente formale, in una regione di senso più alta.62
In un certo senso ci sarebbe dunque uno slittamento da ciò che è visto a
simbolo. La procedura sarebbe quella di rivolgersi all’immagine come qualcosa
che può essere letta, ma non descritta in maniera oggettiva e formale, perché
questa darebbe luogo ad una sorta di rapsodia che non riuscirebbe a rendere niente della portata dell’immagine.
Boehm si serve del saggio di Panofsky per mostrare come la storia dell’arte
sia stata spinta ad adottare forme descrittive che non si ponevano come obiettivo quello di indagare l’immagine nella sua totalità, ma di interessarsi più ai
particolari semantici di essa.
Questo ha portato da un certo punto di vista ad escludere molte immagini
da un campo sterminato di significati potenzialmente afferrabili solo nel rapporto processuale con l’immagine stessa, dato un approccio che tenesse conto solo di
61 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.
Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 204.
39 alcune variabili, ad esempio quello del “senso del significato” o l’attribuzione di
simboli.
Di fronte alle “Pesche” di Renoir, che rientrano nel “tipo” della natura morta priva di significati, non ci metteremo certo alla ricerca di un testo capace di rivelarci il significato allegorico di questi frutti; lo cercheremo invece quando una figura femminile del “tipo” della personificazione della virtù ci porge ostentatamente una pesca, e infatti scopriremo che la pesca, per motivi che qui non occorre illustrare, può essere un attributo della “Veritas”.63
Il saggio di Panofsky qui citato e preso in esame da Boehm finirebbe quindi
per perseguire la «strategia di un’oggettivazione, di un controllo del processo
descrittivo»64 tramite l’interpretazione, per quanto Panofsky stesso cerchi di
risolvere questo potenziale pericolo di “violenza all’immagine”.
L’idea di parlare del processo interpretativo come di un controllo che in qualche modo fa violenza all’immagine deriva da quanto Heidegger in Kant und
das Problem der Metaphysik sostiene in merito all’interpretazione di testi filosofici, problema che riguarda comunque qualsiasi interpretazione:
[…] ciò che conta non è ciò che essa dice nella proposizione che enuncia, bensì ciò che di non detto essa propone attraverso ciò che dice…Certo per
63 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.
Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 211.
40
strappare a ciò che le parole dicono ciò che esse vogliono dire, qualsiasi interpretazione deve usare necessariamente la violenza.65
Panofsky trasla il problema di Heidegger su quello della descrizione dei
quadri perché anche questi «propongono in fondo qualcosa di non detto e hanno
bisogno, per parlare con Heidegger, della violenza»66.
Egli si pone però anche il problema dei limiti e confini di questo esercizio
della violenza, che non può essere un fuorviante arbitrio, inoltre «[…] la
soggettività come tale promuove l’uso della violenza»67 e dunque i limiti
dell’attività interpretativa devono essere posti dall’interno:
Il nostro compito è ora quello di comprendere come queste proposizioni concernano anche il campo limitato delle nostre descrizioni di quadri e delle interpretazioni del loro contenuto, appunto in quanto non siano semplici constatazioni, bensì interpretazioni. Anch’esse, come già il semplice rilievo, che apparentemente non comporta alcun problema, del mero senso fenomenico, propongono in fondo qualcosa di “non detto”, anch’esse hanno bisogno, per parlare con Heidegger, della “violenza”. Si pone così la difficile, fatale domanda: chi o che cosa porrà un limite a questa violenza? Naturalmente esiste innanzitutto un limite esterno, cioè la situazione puramente empirica: una descrizione di un quadro, o l’interpretazione di un contenuto diventa falsa se prende una macchia d’ombra per un frutto o un
65 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.
Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 212.
66 Ibidem. 67 Ivi, p. 213.
41
alce per un cervo. […] Ma oltre questo limite esterno devono esistere limiti all’attività interpretativa che si pongono dall’interno.68
L’immagine si scomporrebbe in diversi strati ordinati, colti dalle
descrizioni, in cui «ogni impostazione di un punto di vista da parte dello spettatore
corrisponde alla percezione e alla descrizione di un determinato strato
dell’immagine»69
Il merito di Panofsky è stato quello di «fondare la descrizione su una
relazione cognitiva, ossia su una specifica “ inquadratura” rispetto alla cosa»70 e di
essere riuscito nella sequenza di strati di “ senso del fenomeno”( acquisibile
attraverso l’immediata esperienza percettiva), “senso del significato” ( piano dell’iconografia poiché il significato sarebbe interpretabile secondo un sapere
tramandato per via letteraria) e “ senso dell’essenza” ( piano dell’iconologia in cui si manifesta lo spirito dell’opera) a far «parlare le immagini attraverso
anticipazioni linguistiche crescenti»71
Nel fare questo si è reso conto di esporsi al pericolo di un «razionalismo
estraneo alla vita»72:
Certo uno schema simile […] è sempre esposto al pericolo di venir frainteso nel senso di un “razionalismo estraneo alla vita”. Per finire teniamo perciò a sottolineare il fatto, del resto ovvio, che quei processi che la nostra analisi è stata costretta a presentare come movimenti apparentemente separati in tre
68 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.
Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 212.
69 Ivi, p. 198. 70 Ivi, p. 198. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 216.
42
strati di senso, e insieme come una lotta di confine tra la pratica soggettiva della violenza e una storicità obiettiva, sono in praxi intrecciati in un accadimento globale compiutamente unitario, che si dispiega organicamente attraverso tensioni e soluzioni; soltanto ex post e teoreticamente esso può essere suddiviso in singoli elementi e in azioni particolari.73
Ciò di cui non si è però resoconto è, a parere di Boehm, il fatto di esporsi ad un problema che non può essere risolto all’interno della sua teoria; cioè che
questo “accadimento globale compiutamente unitario” si coglierebbe nel gioco di
connessioni tra i tre sensi e necessiterebbe ancora di un’ulteriore descrizione, che
comunque non riuscirebbe a rendere giustizia alla maggior complessità dell’immagine; la sua prospettiva rimarrebbe pertanto sconfitta:
La sequenza dei tre livelli dell’immagine non può essere in nessun caso un vero equivalente della complessità delle immagini. Se si cercasse di connettere i tre strati l’uno con l’altro, ciò non potrebbe aver luogo di nuovo che grazie ad un ulteriore strato. Qui fallisce la concezione panofskyana. Anche l’interconnessione dei diversi strati così ricavati sarebbe a sua volta da descrivere. Solo allora agli ingredienti analitici rigidamente preparati verrebbe restituita quella qualità che l’osservatore aveva scoperto già al primo sguardo: “il senso del fenomeno” dell’immagine, la sua fisionomia vivente.74
73 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.
Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 217.
43 Alla critica di Boehm circa la teoria panofskyana potremmo aggiungere tra
le sue lacune argomentative anche quella che fa notare Pierre Francastel:
(Panofsky) non pone, né si pone il problema della natura peculiare, profonda, dell’opera artistica e delle modalità secondo le quali essa significa, ma si adegua ai tipi di interpretazione linguistica […]. Non si interroga mai sui mezzi adoperati dagli artisti per tradurre non in parole, ma in forme, le loro intuizioni.75
Quale posto allora rimane per la descrizione di un’immagine che sia
compatibile con essa nella sua totalità e nella sua precisa modalità espressiva? È
possibile descrivere l’immagine solo a costo di farle violenza?
2.3 Il contrasto della descrizione: la descrizione nella crisi del figurativo
Boehm non si prefigge di fare una genealogia dell’ekphrasis in quanto
genere letterario-retorico, che servendosi della capacità figurale della lingua abbia
il potere di mettere in parola e raccontare immagini, ma coerentemente con quanto
ha espresso riguardo al contrasto iconico, indaga la possibilità di descrizioni che si
facciano carico di questo.
Tra tutti gli esempi di ekphrasis prende a modello quelli proposti dal Vasari
e si serve di essi con una precisa finalità argomentativa che è quella di enunciare il
75 Pierre Francastel, Studi di sociologia dell’arte, trad. it. Andrea Zanzotto, Milano, Rizzoli, 1976,