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Quali siano le descrizioni che possano dirsi riuscite

2. La descrizione dell’immagine

2.1 Quali siano le descrizioni che possano dirsi riuscite

I segni devono essere percepiti e non decifrati, la differenza iconica si dà

solo visivamente.

Dunque quali sono le possibili descrizioni di immagini che tengano conto di

queste assunzioni?

Le descrizioni di un’immagine che possono dirsi riuscite sono quelle che

assolvono ad una duplice funzione:

[…] dicono ciò che è, ma dicono al tempo stesso anche come ciò agisce, ricorrendo al contenuto oggettuale dell’immagine e alla forma specifica della sua piena realizzazione. Senza riguardo per l’aspetto fattuale a rimetterci sarebbe il contenuto manifesto; senza riguardo per l’aspetto processuale si dissolverebbero le latenze dei gesti di ostensione iconica.59

58 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 197. 59 Ivi, p. 197.

37 2.2 La descrizione in Panofsky

Boehm si accorge di come la tendenza maggiormente diffusa relativamente all’immagine sia stata quella di non indagarla nella sua totalità, ma di interessarsi

più ai particolari semantici di essa. Non entreremo per il momento nel merito di cosa possa voler dire indagare un’immagine nella sua totalità e come possa essere

possibile, ma proponiamo adesso le osservazioni che Boehm fa all’approccio

ermeneutico di Panofsky, cui verrà riconosciuto il pericolo di essersi esposto,

attraverso un controllo del processo descrittivo, ad un razionalismo estraneo alla

vita.

Il saggio di Erwin Panofsky dal titolo Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, compare nel 1932 sulla rivista «Logos» ed illustra il progetto «più o meno consapevole dello storico dell’arte: letterarizzare il visivo, render parola ciò che è figura, trasformare in

segno l’immagine mediando razionalmente l’immediato». 60

L’approccio è quello iconologico, che si rivolge all’immagine come un testo

scritto e come qualcosa di perfettamente leggibile.

Panofsky nota come sia impossibile adottare per l’immagine una descrizione

puramente formale:

una descrizione che fosse davvero puramente formale non potrebbe nemmeno usare espressioni come “ sasso”, “uomo” o “ rocce”; si dovrebbe bensì limitare, di principio, a connettere tra loro i colori che si distinguono l’un l’altro attraverso svariate sfumature e che tuttalpiù possono essere messi

60 Carboni Massimo, L’occhio e la pagina. Tra immagine e parola, Milano, Jaca Book S.p.A.,

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in relazione con complessi formali quasi ornamentali e quasi tettonici, dovrebbe limitarsi a descriverli quali elementi compositivi completamente privi di senso ed equivoci persino dal punto di vista spaziale.61

Cosa dovrà fare dunque a suo parere qualsiasi descrizione che voglia dirsi

efficace? Questa dovrà:

[…] trasformare i fattori puramente formali della raffigurazione in simboli di qualche cosa di raffigurato; già cosi essa si sposta, dalla sfera puramente formale, in una regione di senso più alta.62

In un certo senso ci sarebbe dunque uno slittamento da ciò che è visto a

simbolo. La procedura sarebbe quella di rivolgersi all’immagine come qualcosa

che può essere letta, ma non descritta in maniera oggettiva e formale, perché

questa darebbe luogo ad una sorta di rapsodia che non riuscirebbe a rendere niente della portata dell’immagine.

Boehm si serve del saggio di Panofsky per mostrare come la storia dell’arte

sia stata spinta ad adottare forme descrittive che non si ponevano come obiettivo quello di indagare l’immagine nella sua totalità, ma di interessarsi più ai

particolari semantici di essa.

Questo ha portato da un certo punto di vista ad escludere molte immagini

da un campo sterminato di significati potenzialmente afferrabili solo nel rapporto processuale con l’immagine stessa, dato un approccio che tenesse conto solo di

61 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.

Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 204.

39 alcune variabili, ad esempio quello del “senso del significato” o l’attribuzione di

simboli.

Di fronte alle “Pesche” di Renoir, che rientrano nel “tipo” della natura morta priva di significati, non ci metteremo certo alla ricerca di un testo capace di rivelarci il significato allegorico di questi frutti; lo cercheremo invece quando una figura femminile del “tipo” della personificazione della virtù ci porge ostentatamente una pesca, e infatti scopriremo che la pesca, per motivi che qui non occorre illustrare, può essere un attributo della “Veritas”.63

Il saggio di Panofsky qui citato e preso in esame da Boehm finirebbe quindi

per perseguire la «strategia di un’oggettivazione, di un controllo del processo

descrittivo»64 tramite l’interpretazione, per quanto Panofsky stesso cerchi di

risolvere questo potenziale pericolo di “violenza all’immagine”.

L’idea di parlare del processo interpretativo come di un controllo che in qualche modo fa violenza all’immagine deriva da quanto Heidegger in Kant und

das Problem der Metaphysik sostiene in merito all’interpretazione di testi filosofici, problema che riguarda comunque qualsiasi interpretazione:

[…] ciò che conta non è ciò che essa dice nella proposizione che enuncia, bensì ciò che di non detto essa propone attraverso ciò che dice…Certo per

63 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.

Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 211.

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strappare a ciò che le parole dicono ciò che esse vogliono dire, qualsiasi interpretazione deve usare necessariamente la violenza.65

Panofsky trasla il problema di Heidegger su quello della descrizione dei

quadri perché anche questi «propongono in fondo qualcosa di non detto e hanno

bisogno, per parlare con Heidegger, della violenza»66.

Egli si pone però anche il problema dei limiti e confini di questo esercizio

della violenza, che non può essere un fuorviante arbitrio, inoltre «[…] la

soggettività come tale promuove l’uso della violenza»67 e dunque i limiti

dell’attività interpretativa devono essere posti dall’interno:

Il nostro compito è ora quello di comprendere come queste proposizioni concernano anche il campo limitato delle nostre descrizioni di quadri e delle interpretazioni del loro contenuto, appunto in quanto non siano semplici constatazioni, bensì interpretazioni. Anch’esse, come già il semplice rilievo, che apparentemente non comporta alcun problema, del mero senso fenomenico, propongono in fondo qualcosa di “non detto”, anch’esse hanno bisogno, per parlare con Heidegger, della “violenza”. Si pone così la difficile, fatale domanda: chi o che cosa porrà un limite a questa violenza? Naturalmente esiste innanzitutto un limite esterno, cioè la situazione puramente empirica: una descrizione di un quadro, o l’interpretazione di un contenuto diventa falsa se prende una macchia d’ombra per un frutto o un

65 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.

Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 212.

66 Ibidem. 67 Ivi, p. 213.

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alce per un cervo. […] Ma oltre questo limite esterno devono esistere limiti all’attività interpretativa che si pongono dall’interno.68

L’immagine si scomporrebbe in diversi strati ordinati, colti dalle

descrizioni, in cui «ogni impostazione di un punto di vista da parte dello spettatore

corrisponde alla percezione e alla descrizione di un determinato strato

dell’immagine»69

Il merito di Panofsky è stato quello di «fondare la descrizione su una

relazione cognitiva, ossia su una specifica “ inquadratura” rispetto alla cosa»70 e di

essere riuscito nella sequenza di strati di “ senso del fenomeno”( acquisibile

attraverso l’immediata esperienza percettiva), “senso del significato” ( piano dell’iconografia poiché il significato sarebbe interpretabile secondo un sapere

tramandato per via letteraria) e “ senso dell’essenza” ( piano dell’iconologia in cui si manifesta lo spirito dell’opera) a far «parlare le immagini attraverso

anticipazioni linguistiche crescenti»71

Nel fare questo si è reso conto di esporsi al pericolo di un «razionalismo

estraneo alla vita»72:

Certo uno schema simile […] è sempre esposto al pericolo di venir frainteso nel senso di un “razionalismo estraneo alla vita”. Per finire teniamo perciò a sottolineare il fatto, del resto ovvio, che quei processi che la nostra analisi è stata costretta a presentare come movimenti apparentemente separati in tre

68 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.

Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 212.

69 Ivi, p. 198. 70 Ivi, p. 198. 71 Ibidem. 72 Ivi, p. 216.

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strati di senso, e insieme come una lotta di confine tra la pratica soggettiva della violenza e una storicità obiettiva, sono in praxi intrecciati in un accadimento globale compiutamente unitario, che si dispiega organicamente attraverso tensioni e soluzioni; soltanto ex post e teoreticamente esso può essere suddiviso in singoli elementi e in azioni particolari.73

Ciò di cui non si è però resoconto è, a parere di Boehm, il fatto di esporsi ad un problema che non può essere risolto all’interno della sua teoria; cioè che

questo “accadimento globale compiutamente unitario” si coglierebbe nel gioco di

connessioni tra i tre sensi e necessiterebbe ancora di un’ulteriore descrizione, che

comunque non riuscirebbe a rendere giustizia alla maggior complessità dell’immagine; la sua prospettiva rimarrebbe pertanto sconfitta:

La sequenza dei tre livelli dell’immagine non può essere in nessun caso un vero equivalente della complessità delle immagini. Se si cercasse di connettere i tre strati l’uno con l’altro, ciò non potrebbe aver luogo di nuovo che grazie ad un ulteriore strato. Qui fallisce la concezione panofskyana. Anche l’interconnessione dei diversi strati così ricavati sarebbe a sua volta da descrivere. Solo allora agli ingredienti analitici rigidamente preparati verrebbe restituita quella qualità che l’osservatore aveva scoperto già al primo sguardo: “il senso del fenomeno” dell’immagine, la sua fisionomia vivente.74

73 Erwin Panofsky, Sul problema della descrizione e dell’interpretazione del contenuto di opere d’arte figurativa, in La Prospettiva come “forma simbolica” e altri scritti, a cura di Guido D.

Neri, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 217.

43 Alla critica di Boehm circa la teoria panofskyana potremmo aggiungere tra

le sue lacune argomentative anche quella che fa notare Pierre Francastel:

(Panofsky) non pone, né si pone il problema della natura peculiare, profonda, dell’opera artistica e delle modalità secondo le quali essa significa, ma si adegua ai tipi di interpretazione linguistica […]. Non si interroga mai sui mezzi adoperati dagli artisti per tradurre non in parole, ma in forme, le loro intuizioni.75

Quale posto allora rimane per la descrizione di un’immagine che sia

compatibile con essa nella sua totalità e nella sua precisa modalità espressiva? È

possibile descrivere l’immagine solo a costo di farle violenza?