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Presentiamo qui il punto di vista costruttivo e programmatico di Boehm

circa il modo di descrivere un'immagine. Dopo quanto detto sopra arriviamo alla

parte più propriamente positiva dell'autore, circa i requisiti di una descrizione adeguata all’immagine.

50 Boehm arriverà a concludere che le descrizioni efficaci sono quelle che

riescono a «mostrare».

Entriamo adesso nello specifico dell'argomentazione per valutare quali

siano i passaggi che conducano a questa conclusione, se questa sia una

conclusione definitiva o provvisoria e quali siano le conseguenze.

Boehm afferma che ci siano «presupposti comuni, che si possono cogliere

nel potere del mostrare, del quale partecipano tanto il discorso quanto la

produzione figurativa».88

La deissi, di cui sostiene un'importante funzione anche dal punto di vista

pedagogico, indica e mostra, ma cosa vuol dire esattamente mostrare?

«[…] il mostrare rende visibile, dischiude visuali, esibisce, pone davanti agli

occhi, chiarisce e possiede proprio nell'evidenza visiva il proprio criterio»89

E cosa avviene esattamente nell'atto del mostrare?

Colui che mostra interrompe la propria azione e si rivolge a un altro cui può essere mostrato qualcosa, ma interrompe anche l'orizzonte indeterminato di quella specifica situazione. Chi mostra mette in risalto qualcosa, lo rende visibile e lo isola nella sua dimensione visiva. Il gesto che mostra rappresenta un senso attivo a distanza, indica senza dover afferrare. Esso possiede una potenza e un orientamento teoretici, nel senso originario del termine, mira a qualcosa, crea un nuovo percorso per lo sguardo, e lo fa con un'attenzione singolarmente accentuata.90

88 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 209. 89 Ivi, p. 210.

51 Detto in altre parole l'azione del mostrare si scomporrebbe in due poli: colui

che mostra e colui al quale qualcosa viene mostrato. Tra i due poli si inserirebbe

un terzo elemento che è il qualcosa che viene mostrato, che è «l'oggetto che

mostrato si mostra».91

Questa azione processuale avverrebbe all'interno di uno «spazio di

conoscenza la cui caratteristica precipua è la distanza (intenzionalità)»92, in cui

non ci sarebbe violenza, quanto meno interpretativa nei confronti del quid

mostrato, perché il solo dire che non è mostrato ma si mostra implica la sua libertà

da vincoli interpretativi.

Indicare senza afferrare, mostrare senza possedere, sostengono questa aura

di libertà e indipendenza che sottostà all'immagine.

Quando dunque una descrizione può dirsi riuscita?

La descrizione riesce allorché guadagna ciò che contraddistingue il nucleo dell'immagine: rendere visibile l'invisibile, porlo davanti agli occhi, mostrarlo. Le descrizioni di immagini non perseguono l'ideale di una riproduzione verbale possibilmente perfetta. Come pure le buone traduzioni non riescono quando si sforzano di essere letterali e pedisseque (ciò che notoriamente porta a stravolgere lo spirito di un testo attraverso l'isolamento della sua letteralità).93

Nell'orizzonte situazionale in cui si innesca il mostrare e nella

rappresentazione schematica dei tre elementi in gioco nella relazione (colui che

mostra, la cosa mostrata e colui al quale viene mostrata) deve essere mantenuta

91 Gottfried Boehm, La Svolta iconica, Roma, Meltemi Editore, 2009, p. 209. 92 Ibidem.

52 una distanza, una distanza che si percepisce, a nostro avviso, sia tra colui che

mostra e colui al quale mostra, sia tra entrambi e il quid mostrato.

Questo starebbe a sostegno, ma è solo una nostra ipotesi, della parola che

Boehm pone tra parentesi vicino alla distanza: intenzionalità.

Ci sarebbe dunque l'obiettivo prefissato da parte di chi mostra di mantenere

una distanza intenzionale rispetto a colui al quale mostra, probabilmente per non

proporgli già una visione interpretata; una distanza intenzionale ci sarebbe anche

rispetto ad uno spazio di privacy dell'immagine.

Ecco perché:

Le descrizioni devono guardarsi tanto dall'avvicinarsi troppo al proprio oggetto quanto dall'allontanarsene eccessivamente. Solo nello spazio che l'immagine dischiude le descrizioni fanno valere la sua vitalità.94

Sembra che Boehm qui voglia evidenziare due potenziali pericoli del

rapporto descrizione-immagine, tendenzialmente opposti.

Avvicinarsi troppo all'immagine porta ad una descrizione letterale (un po'

come quanto prima enunciato circa le buone traduzioni che favoriscono alla lettera

il testo, con perdita però dello spirito e del valore dello stesso) che non

coglierebbe tutte le sue potenzialità espressive oppure si riferirebbe al dettaglio

senza allargarsi ad una visione d'insieme. Porta colui che mostra a incanalare colui

a cui è mostrato in uno stretto sentiero e ad indossare una sorta di paraocchi.

53 Allontanarsi troppo dall'immagine porta ad una descrizione che si

configurerebbe come un tradimento dell'immagine o come una perdita di vista del

suo nucleo principale.

Porta colui che mostra a disorientare colui a cui è mostrato e lasciarlo

distratto in un sentiero con infinite diramazioni e bivi, lasciandolo in balia degli

eventi e senza neppure una mappa.

Ma qual è dunque il punto di mezzo delle due opposte tendenze?

Ogni buona ekprasis possiede il momento dell'auto- trasparenza, non si compiace del proprio sfoggio linguistico, ma si fa trasparente in vista dell'immagine. Viene in soccorso allo sguardo, gli indica la strada, che solo esso può percorrere fino alla meta. La descrizione aiuta il vedere. Le descrizioni raggiungono l'eccellenza quando fanno vedere di più. Non devono solo descrivere ciò che è riconoscibile, ciò che sappiamo già. Conoscere significa conoscere di più, conoscere altro e altrimenti. Il conoscere rimane aperto, mentre l'alterità visiva dell'immagine che ci si mostra resta sempre nello sguardo.95

Riassumiamo brevemente le caratteristiche di una descrizione che possa

dirsi funzionale.

Le descrizioni che funzionano non devono essere riproduzioni verbali

perfette, ma devono mostrare un di più dell’immagine, cercando di cogliere l’invisibile.

54 Devono inoltre mantenere una distanza intenzionale nel rispetto di chi

guarda per non incorrere nel pericolo di consegnargli una visione già in parte

interpretata.

La stessa distanza intenzionale, e questo si collega direttamente al fatto che

le descrizioni non devono avere la pretesa di essere riproduzioni verbali perfette, deve tenersi anche nei riguardi dell’immagine che conserva una sorta di noumeno

e una sfera di polivocità nel senso che può sempre essere detta in molti modi, ma

mai essere tradita.

Le descrizioni inoltre non devono essere narcisistiche, intendo con questo

che non devono dare sfoggio della propria retorica, ma devono vivere il momento

di auto-trasparenza in vista dell’immagine.

Devono aiutare infine il vedere, non perché esso non sia autonomo, ma

perché hanno la facoltà di far vedere un di più.