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La lingua e lo stile.

Se si vuole analizzare la lingua e lo stile della Deledda non si può tralasciare l'importanza della sua provenienza e, di conseguenza, l'influsso esercitato dal sardo nella sua produzione. Come sostenne nel suo intervento, durante un convegno letterario di studi deleddiani tenutosi a Nuoro nel 1972, il professore Massimo Pittau, la scrittrice all'inizio della sua carriera si trovò di fronte ad un bivio: usare la lingua italiana come se le appartenesse da sempre, oppure tentare una mediazione tra l'italiano e il sardo, rinunciando però ad alcuni di quei valori a lei tanto cari che si sarebbero persi nella trasposizione.

All'inizio della carriera decise di portare nella pagina termini e procedimenti formali della conversazione orale sarda, alcuni dei quali non presentano un corrispettivo in italiano e vengono pertanto tradotti in nota. Nei dialoghi si nota principalmente il dinamismo e la vivacità tipiche della comunicazione orale, di cui riproduce l'intonazione e il ritmo. Nelle opere di esordio è evidente l'incontro ravvicinato tra l'italiano e il dialetto natio. Nella prima fase del suo apprendistato letterario la scrittrice non ottenne risultati convincenti. Spesso la scrittura fu segnata da fragilità formali e ingenuità contenutistiche, figlie del suo autodidattismo. Ciò nonostante le sue continue letture di opere di autori italiani e stranieri, il caparbio tirocinio narrativo e linguistico, l'affinamento estetico e stilistico e il continuo aggiornamento di modalità tecniche-compositive, la condussero gradatamente a livelli di maturità artistica sempre più spiccati fino ad arrivare a romanzi di valenza estetico letteraria.

Nella seconda fase della sua produzione spicca un italiano più puro e omogeneo, probabilmente in linea con il progetto di omogeneizzazione culturale promosso dallo Stato. Nella fermentazione della sua scrittura sono percepibili le influenze derivanti da una intertestualità ampia e stratificata che, a partire dal sistema segnico

e culturale nuorese, fu tutta volta ad estendere sempre più il respiro narrativo e ad accrescere, aumentando e affinando la sua versatilità, le possibilità di opzione stilistica. La compresenza di differenti tipologie formali e di strutture superficiali di genere fecero della sua produzione un esempio di sostrato letterario ricco di istanze genetiche.

Per la Deledda l’italiano fu e restò, per tutta la vita, una lingua non appresa naturalmente dalla bocca dei vicini e dei familiari, ma una lingua imparata artificialmente, per atto di volontà e soprattutto per mezzo di occasionali e non sempre scelte letture.

Non è erroneo affermare che la scrittrice nuorese divenne realmente bilingue solo dopo i trenta anni di età quando, trasferitasi a Roma con un marito “ continentale”, le sue occasioni di parlare il sardo andavano diminuendo mentre aumentavano, e divennero frequenti, quelle in cui era necessario esprimersi in italiano e nelle quali dal commercio con altri italiani, intellettuali e no, il suo lessico si arricchì e la sua sintassi divenne più naturalmente agile.

Questa sua scarsa dimestichezza con la lingua italiana è da attribuire anche a quella tradizione che esigeva che le donne barbaricine non accedessero a studi e professioni riservati ai membri maschili, provenienti dalle classi benestanti della comunità. La lingua italiana fu quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che dovette conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà di apprendimento. I principali obiettivi che Grazia perseguì nelle sue opere furono la ricerca: 1) di semplicità e di chiarezza espositiva (quindi la scelta di prendere le distanza da una lingua “dalle iniziali tentazioni di eleganza dannunziana” e da una narrazione

esageratamente articolata da un punto di vista sintattico), 2) di precisione e proprietà lessicale ( cioè l’utilizzo di termini specifici), 3) di un’essenzialità espositiva tramite una vera e propria “potatura” del discorso. Al fine di rendere il microcosmo sardo più naturale e autentico sono frequenti nell'opera deleddiana i calchi, i sardismi sintattici- con inversione dell'ordine, Avverbio- Verbo, Oggetto-Verbo, Predicato- Verbo, Participio-Ausiliare- e lessicali, le traduzioni dal nuorese, i modi di dire, le imprecazioni, le antifrasi e le risposte in rima, i proverbi, gli intercalari; spesso cerca di “intonare” moduli linguistici legati all'oralità. Risulta essere assai scandagliato anche l'ambito dell'onomastica e della toponomastica. Ci sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi ed esclusivamente sardi che la Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: i più frequenti sono la tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi),

socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula

(bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), cumbessias o

muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi

dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri

e letteralmente “case-delle-fate”)

O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu

bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello

grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e

mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca

più: è un’imprecazione).

Disponendo di un'ampia gamma di soluzioni narrative, la scrittrice cercò di avvalersi di possibilità combinatorie diverse, per creare architetture e tessiture capaci di attirare il lettore: doppio racconto con doppia fonte di emittenza narrativa, intreccio a incastro oppure concentrico, a spirale, circolare; infine, le tecniche del

racconto nel racconto. La struttura della sua comunicazione narrativa ben presto si rinnova e diventa originale. Stimola nel lettore un flusso di emozioni elementari e intense. La visione del mondo viene destrutturata rispetto agli schemi percettivi tradizionali.

La sua prosa asciutta e nervosa, eppure densa di emozioni primordiali, è in grado di suscitare echi nella coscienza del lettore.

Alcuni studiosi asseriscono che la Deledda, benché sardofona, abbia deciso di scrivere in lingua italiana, in risposta al clima di italianizzazione e omogeneizzazione culturale, per raggiungere un più ampio mercato.

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Afferma a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis, durante il convegno di studi deleddiani tenutosi a Nuoro nel 1972, nel suo intervento:

“Visione del mondo e tecniche narrative nell'opera di Grazia Deledda”:

”L’uso dei sardismi linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della

maturità, è il caso di Elias Portolu, è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere bilingue”. E aggiunge: “La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile: deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale… ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana”.

La Deledda, fin dai primi interventi, accentua l'interesse per le tradizioni popolari. Compie, in un certo senso, il tentativo di stabilire una comunicazione e un dialogo tra due sistemi letterari, del sardo da una parte e dell'italiano dall'altra. Quei termini

dialettali, quei calchi dal sardo, sono note di colore, macchie, a ricondurre il lettore a una particolare atmosfera, a un certo sfondo di paesaggio, a un certo modo particolare di sentire e pensare. Della poetica deleddiana, del passaggio dal naturalismo al decadentismo, occorre studiare la sua lingua e intendere il rapporto particolare che assume in lei l'incontro fra lingua e dialetto.