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Lettura di Cenere di Grazia Deledda. Il romanzo e l'opera.

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Academic year: 2021

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DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA, LETTERATURA E

LINGUISTICA

Corso di laurea magistrale in Lingua e Letteratura Italiana

TESI DI LAUREA

Lettura di Cenere di Grazia Deledda.

Il romanzo e l'opera.

CANDIDATA:

RELATORE:

Prof. Luca Curti

Alessandra Tagliasacchi

CONTRORELATORE:

Prof.Vinicio Pacca

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Indice

Capitolo 1:

1.1 Vita e opere pp. 2-7

1.2 Un Nobel inaspettato pp. 8-12

1.3L'indipendenza letteraria pp. 13-16

1.4 La Sardegna tra mito e realtà pp. 17-25

1.5 Alla ricerca di un pubblico più vasto pp. 26 -29

Capitolo 2:

2.1 I temi della narrativa deleddiana pp. 30-37

2.2 Romanzi sardi e no pp. 38-39

2.3 La lingua e lo stile pp. 40-43

2.4 Grazia Deledda e la candidatura in Parlamento pp. 44-45

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Capitolo 3

3.1 Introduzione a Cenere pp. 46-49

3.2 La trama pp. 50-53

3.3 L'importanza del titolo pp. 54-55

3.4 I temi principali pp. 55-65

3.5 I personaggi principali pp. 66-75

3.6 L'ambiente pp. 76-80

3.7 Cenere: romanzo dell'espiazione e della tentazione pp. 81-86

3.8 La Deledda e la critica pp. 87-93

Capitolo 4:

4.1 Il romanzo del Novecento pp. 94-98

4.2 La struttura del romanzo deleddiano pp. 99-109

4.3 La funzione educativa dei romanzi deleddiani pp. 110-115

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Capitolo 1:

Grazia Deledda, 1871-1936.

Fonte: articolo sul web di Caterina Solag, da: https://caterinasolang.wordpress.com/2013/12/12/premi-nobel-grazia-deledda-la-straniera/

1.1 Vita e opere:

Grazia Deledda nacque a Nuoro, una tra le periferie culturali più remote d'Italia, il 28 settembre 1871, quinta di sette tra figli e figlie, in una famiglia benestante.

Il padre, Giovanni Antonio Deledda, aveva studiato legge, ma non esercitava la professione. Era un imprenditore e agiato possidente, si occupava di commercio di carbone e di agricoltura; si interessava di poesia e lui stesso componeva versi in sardo, aveva fondato una tipografia e stampava una rivista. L'orientamento religioso di cattolico intransigente gravò profondamente sulla educazione impartita ai figli. Fu sindaco di Nuoro nel 1892. La madre, Francesca Cambosu, era di vent'anni più giovane del marito e di lei la figlia non ricorda atti di trasporto affettivo; era chiusa e taciturna, probabilmente sposata senza amore. Dopo aver

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frequentato le scuole elementari fino alla classe quarta, Grazia Deledda venne seguita privatamente da un professore, ospite di una parente della famiglia Deledda, che le impartì lezioni di base di italiano, latino e francese .

L'ambiente sardo, come il resto d'Italia, non consentiva alle ragazze un'istruzione oltre quella primaria e, in generale, degli studi regolari. Contrariamente a un'altra scrittrice sua contemporanea, quella Sibilla Aleramo che già nel 1906 pubblicava Una donna, libro di rivolta e di rinascita coscienziale, la Deledda non fu mai impegnata sul piano del femminismo, anzi è lecito supporre una sua istintiva avversione agli stessi termini.

Entrambe furono accomunate dalla medesima insufficienza scolastica, oltre che dall'ostilità intellettuale, palese o sottaciuta, da cui era circondata una donna che si dedicava alla vita dell'arte. Per le donne gli unici momenti di socializzazione erano il faticoso compito di preparare e cuocere pane e le feste rituali celebrate nelle chiese di paese.

Proseguì la sua formazione totalmente da autodidatta. Importante per la formazione letteraria di Grazia, nei primi anni della sua carriera di scrittrice, fu l'amicizia con lo scrittore, archivista e storico dilettante, sassarese Enrico Costa che per primo ne comprese il talento. La famiglia venne colpita da una serie di disgrazie: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi, divenne alcolizzato e affetto da delirium tremens, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca il 5 novembre 1892 e la famiglia dovette affrontare difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì anche la sorella Vincenza.

La sua adolescenza fu contraddistinta da gravi problemi familiari e fu forse in seguito a queste difficoltà che si accentuò in lei il carattere contemplativo che la fece rifugiare nella letteratura. La scrittrice ebbe un ripiegamento interiore che le

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facilitò lo svilupparsi di una fantastica, sognante e protratta adolescenza, ricca di vagheggiamenti fantastici.

Accanto alle situazioni obiettive che giorno per giorno colpivano l'animo della giovane osservatrice, non mancavano di essere fonti preziose le espressioni della cultura nuorese del periodo, che in un clima di protesta sociale esprimeva l'amore per una terra che non sapeva e non voleva essere una semplice tessera di un mosaico troppo diverso.

Nel 1888 inviò a Roma alcuni racconti, Sangue sardo e Remigia Helder, che furono pubblicati dall'editore Edoardo Perino sulla rivista "L'ultima moda", diretta da Epaminonda Provaglio. Sulla stessa rivista venne pubblicato a puntate il romanzo Memorie di Fernanda.

Nel 1890 uscì a puntate sul quotidiano di Cagliari L'avvenire della Sardegna, con lo pseudonimo Ilia de Saint Ismail, il romanzo Stella d'Oriente, e a Milano, presso l'editore Trevisini, Nell'azzurro, un libro di novelle per l'infanzia.

Deledda ebbe l'approvazione di letterati come Angelo de Gubernatis e Ruggero Bonghi, che nel 1895 accompagnò con una sua prefazione l'uscita del romanzo Anime oneste.

Collabora con riviste sarde e continentali: "La Sardegna", "Piccola rivista" e "Nuova Antologia".

Fra il 1891 e il 1896 sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane, diretta da Angelo de Gubernatis venne pubblicato a puntate il saggio Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna, introdotto da una citazione di Tolstoi, prima espressione documentata dell'interesse della scrittrice per la letteratura russa. Seguirono romanzi e racconti di argomento isolano. Cominciano gli anni dell’apprendistato in cui sperimenta varie scritture come novelle e poesie, poi si occupa anche di etnologia:

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collaborando, come detto in precedenza, alla “Rivista di Tradizioni Popolari Italiane”, in particolare scrive 11 puntate delle “Tradizioni popolari di Nuoro in

Sardegna”. Questa profonda attenzione per la sua terra e per il suo popolo, apparirà

poi in tutti suoi romanzi maggiori. Nel 1896 il romanzo La via del male fu recensito in modo favorevole da Luigi Capuana.

Nel 1897 uscì una raccolta di poesie, Paesaggi sardi edito da Speirani sulla rivista Nuova Antologia.

Nell'ottobre del 1899 la scrittrice si trasferì a Roma. Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, conosciuto a Cagliari. A Roma condusse una vita appartata. Ebbe due figli, Franz e Sardus.

Nel 1903 la pubblicazione di Elias Portolu la confermò come scrittrice e l'avviò ad una fortunata serie di romanzi ed opere teatrali: Cenere (1904), L'edera (1908), Sino al confine (1910), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L'incendio nell'oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922).

Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.

La sua opera fu apprezzata da Giovanni Verga oltre che da scrittori più giovani come Emilio Cecchi, Enrico Thovez, Antonio Baldini. Fu riconosciuta e stimata anche all'estero: D.H. Lawrence scrive la prefazione della traduzione in inglese de La madre. Grazia Deledda fu anche traduttrice, è sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.

A seguito di una lunga malattia, Grazia morirà il 15 agosto 1936. Sebbene piuttosto scarna di avvenimenti, la vita di Grazia Deledda fu particolarmente feconda da un punto vista letterario, nonostante la perplessità di parte della critica italiana. La biografia, certamente parziale e non esaustiva, di questa donna-scrittrice è una concreta testimonianza di come sia stato possibile costruire una maniera specifica di

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“essere donna” ed essere un esempio positivo e da seguire per le nuove generazioni. La sua fu una caparbia ricerca di gloria letteraria e il desidero di ottenerla ad ogni costo si intuisce chiaramente nella lettera che scrisse a Stanis Manca, suo primo amore:

«Ho il sogno continuo e tormentoso della celebrità. Perciò mi attacco quasi inconsapevolmente, a chi mi promette di aiutarmi a farmi un nome».

Grazia Deledda, che ha dovuto attendere una vita per vedere pienamente riconosciuto il proprio genio artistico, si è fatta portatrice di un disagio femminile in gran parte ancora celato dal silenzio. La sua costanza, lo spirito di sacrificio, la perseveranza, il proprio talento letterario la condussero a smentire il pregiudizio dei suoi tempi: “una donna scrittrice non può essere onesta”.

Romanzi principali:

Anime Oneste, 1895 La via del male,1896

Il vecchio della montagna, 1900 Dopo il divorzio, 1902 Elias Portolu, 1903 Cenere, 1904 Amori moderni,1907 L'edera, 1908 Colombi e sparvieri, 1912

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Canne al vento, 1913

L'incendio nell'uliveto, 1917 La madre, 1920

Il paese del vento, 1931 Cosima, 1936

Racconti:

Racconti sardi, 1894.

Accanto a questi, considerati i romanzi maggiori e che sembrano far parte di un unico progetto letterario, c’è una vastissima produzione di novelle e di altri romanzi. Nei trent’anni trascorsi a Roma, la Deledda condusse una vita ritirata e semplice col marito e i due figli, suoi devoti collaboratori; non teneva conferenze, non partecipava quasi mai a ricevimenti o feste mondane e le rare volte che era costretta ad apparire in pubblico manteneva sempre un atteggiamento modesto e dimesso. Soddisfatto il sogno di gloria ben oltre ogni desiderio e aspettativa,Grazia non aveva più voglia di apparire e quando un giornalista de “Il Giornale d’Italia” bussò alla villa di via Imperia per conoscerla e complimentarsi con lei, vide arrivare sul viale del giardino una donna di bassa statura con i capelli bianchi e l’aria dimessa, molto umile e non desiderosa di rilasciare nuove interviste

Grazia Deledda morì in una Roma deserta il giorno di Ferragosto del 1936 per lo stesso male con cui, in una sciagurata precognizione, fece morire la protagonista de “La chiesa della solitudine” (la protagonista del romanzo muore a causa delle metastasi di un cancro precedentemente asportato) e oggi, in quella stessa chiesa nuorese è conservato il suo corpo.

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1.2 Un Nobel inaspettato:

Grazia Deledda, la grande scrittrice nuorese, durante la cerimonia di premiazione per il Nobel, Stoccolma, 10 dicembre 1927. Fonte: rivista sul web,Vistanet.it, da: http://www.vistanet.it/cagliari/blog/2016/12/10/accadde-oggi-10-dicembre-1927-grazia-deledda-riceve-premio-nobel-la-letteratura/

Grazia Deledda fu insignita del Premio Nobel per la letteratura nel 1926, e il suo fu un premio che creò molto scalpore per diversi motivi come la sua formazione culturale, quasi esclusivamente autodidatta, la tematica, grandiosa e profonda della sua opera, il fatto che fosse una donna e non ultimo l'atteggiamento della scrittrice schivo e riservato, estremamente distante dall'ambiente letterario italiano di quegli anni.

La sua tempestosa vena creativa le fruttò cinquantasei romanzi e il successo crescente fu in parte dovuto a un' ambizione femminile che la spinse a non arrendersi di fronte ai limiti imposti dall'ambiente sardo, nel quale visse e operò.

Canne al vento è il romanzo- simbolo di una vittoria così prestigiosa, che la rese

famosa in tutto il mondo. La commissione svedese non fu unanime nella decisione di conferirle tale premio e per alcuni questa scelta risultò affrettata e inaspettata.

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Schuck, membro dell'Accademia di Svezia, seppe apprezzare il valore della scrittrice sarda e così nel 1924 si espresse nei suoi confronti :

“Sulla maggior parte dei punti sono d'accordo con quanto è stato espresso dal

presidente Hallström. Anch'io metto molto in alto il romanzo di Reymont e ritengo che lo scrittore sia premiabile con il Nobel. Ma, a mio giudizio, dovrebbe essere preceduto da Grazia Deledda […]. Reymont e la Deledda sono certamente due scrittori di tipo diverso. Tuttavia hanno parecchi punti di contatto. La descrizione della natura è per entrambi la cosa principale. L'uno descrive la natura polacca, l'altra- nei suoi e migliori romanzi- quella sarda. Entrambi lo fanno, a mio giudizio, in modo superbo. Ma per Reymont ci vogliono quattro volumi, egli descrive il paesaggio polacco in tutte e quattro le stagioni, si ripete spesso e diviene non di rado troppo pedante e tedioso. Grazia Deledda esprime altrettanto in un solo volume, non si ripete ed è di una semplicità classica. Posso aggiungere ancora un punto sebbene forse abbia importanza solo per me. Reymont dipinge, come ho detto,il paesaggio polacco in modo superbo. E' come se si sentisse l'odore della terra. Ma non si riceve l'impressione della bellezza, e non è intenzione dello scrittore comunicarla. Al contrario si viene schiacciati dalla natura nuda e brulla. Si ha una sensazione di oppressione, quasi di sconforto. Sul paesaggio della Deledda splendono invece sole e bellezza. Questo dipende certamente dal carattere diverso dei due personaggi, ma anche in qualche misura dall'occhio che li ha contemplati. L'uno è e vuole essere un naturalista, che rappresenta soprattutto il brutto; ma l'altra è internamente un'idealista che non può fare a meno di scoprire il bello. A chi si debba dare la precedenza è una questione di temperamento. Io preferisco la Deledda.

Voglio aggiungere ancora un punto di contatto fra entrambi. La carenza compositiva è stata spesso evidenziata come un punto debole di Grazia Deledda. I

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romanzi spesso non hanno una vera conclusione. La critica, a mio giudizio, è fondata. Ma la stessa critica si può rivolgere anche contro Reymont e, mi sembra, con motivi ancora più forti. Nonostante i quattro volumi il suo romanzo rimane completamente inconcluso. Viene spezzato a metà di un'azione e non si viene a sapere come i conflitti si dovranno risolvere. In risposta a questo è stato addotto che Reymont vuole soltanto offrire un quadro della vita contadina durante le quattro stagioni dell'anno. Ma sebbene io certamente creda che questo fosse lo scopo di Reymont, non riesco a capire perché questo lo esima dalle leggi che valgono per tutti i romanzi. E se si accetta per buona questa salsa a favore di Reymont, perché allora non farlo anche per la Deledda? Anche per lei la rappresentazione della vita sarda è la cosa principale mentre la trama è una cosa secondaria.”1

Inoltre Shuck tendeva ad esaltare le qualità della scrittura deleddiana in questa importante affermazione:

“ Voglio sottolineare prima di tutto che Grazia Deledda ha un merito indiscutibile che nella storia della letteratura italiana le assicurerà sempre un posto speciale; ha scoperto e presentato una terra nuova nella letteratura. Ha scoperto la Sardegna. E come pittrice della sua natura ella è del tutto insuperabile. Questa natura, il gioco delle luci durante le diverse ore del giorno, il mutare delle stagioni, tutto questo è reso con una concretezza, di cui ho trovato pochi eguali. Altrettanto poetiche sono le sue immagini della popolazione, le descrizioni delle processioni religiose, dei mercati, delle funzioni nelle chiese dei villaggi e sulle alture, e così via. E i tipi che ci vengono incontro nei suoi romanzi sono vivi e ci danno l'impressione di una verità incontrovertibile.

Mi spingo a ritenere ch'ella sia anche una buona psicologa e le sue pagine si

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distinguono per la loro mancanza di ostentazione, l'assenza di ogni posa letteraria, e sono quasi omericamente semplici. La lingua ha spesso qualcosa della bellezza pura e casta del marmo. E' vero che parecchi dei suoi romanzi soffrono di un difetto compositivo perché non hanno una vera conclusione. Questo riguarda anche un romanzo eccellente come “Il vecchio della montagna”, il cui protagonista appartiene alle somme creazioni della letteratura moderna. Ma non riguarda invece i due romanzi che intendo proporre per il premio Nobel, “La via del male e Elias Portalu”, che mi appaiono perfetti anche sotto quell'aspetto. E una cosa rimane sempre incrollabile. Su tutto quello che Grazia Deledda ha scritto si stende largo il velo della poesia, della nobiltà, dell'umanità malinconica e della compassione per gli esseri umani. Più di alcuni altri scritti proposti per il premio i suoi romanzi di ambiente sardo rispondono alla richiesta, da parte di Nobel, di una direzione “ideale” e non ho quindi dubbi nel proporla per il premio Nobel per la letteratura di quest'anno in forza delle opere: La via del male e Elias Portalu.”2

La commissione la scelse in base a questa motivazione:

“Per la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme

plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di genere e interesse umano.”

Anche in occasione del Premio Nobel le parole della scrittrice furono semplici e stringate: “Io non so fare i discorsi, mi contenterò di ringraziare l'Accademia

svedese, per l'altissimo onore che nel mio modesto nome, ha concesso all'Italia e di ripetere l’augurio che i vecchi pastori di Sardegna, rivolgevano ai loro amici e parenti: Salute!... Salute al Re di Svezia, salute al Re d’Italia, salute a voi tutti Signore e Signori ! ...

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Viva la Svezia, Viva l’Italia!”3

Grazia Deledda, la grande scrittrice sarda, è scomparsa dalla maggior parte delle antologie scolastiche e pare dimenticata da buona parte della critica.

Secondo l'opinione di Enrico Tiozzo, nel volume “il Nobel svelato”, il caso della Deledda dimostra inequivocabilmente come, nel giudizio dei posteri, l'aver conseguito il premio Nobel non basti da solo a garantire, a chi lo ha vinto, un posto di assoluta preminenza nella storia della letteratura italiana. La sua opera è ritenuta importante, dalla maggior parte dei critici, per la capacità di descrivere, con efficacia narrativa e coerenza stilistica, vicende legate sia alla contemporaneità sia alle peculiarità della Sardegna, senza concessioni al verismo di maniera.

La sua fama, dovuta principalmente alle sincere e colorite descrizioni della vita in Sardegna, si diffuse non solo in Italia ma anche all’estero. Sono trascorsi molti anni da quel Nobel, ma la sua opera appare più che mai attuale, i suoi romanzi, che per la accurata regia dei drammi psicologici possono essere considerati tra i più grandi del patrimonio letterario italiano, vengono purtroppo sistematicamente dimenticati. Si tratta, a mio parere, di un grave caso di sottovalutazione letteraria. Sarebbe doveroso, quanto meno, ricordare che Grazia Deledda è stata finora l’unica donna italiana ad essere premiata dall’Accademia di Svezia per la sua straordinaria attività letteraria.

Nel suo discorso durante la consegna del Premio Nobel, raccontò: «quando

cominciai a scrivere, a tredici anni, fui contrariata dai miei». Ma non si scoraggiò

mai. Neanche quando la critica letteraria definì la sua scrittura rozza, illetterata, piena di esitazioni espressive, sull’orlo del difetto stilistico, grammaticale e linguistico. «Uno mi innalza alle stelle, un altro mi tratta da mezza cretina», scrive in Fiera Letteraria il 28 marzo 1926, spiegando che il giudizio dei critici non le

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interessava granché perché semplicemente la disorientava . Lei sicuramente la direzione l’aveva ben chiara.

1.3 L'indipendenza letteraria.

Grazia Deledda frequentò esclusivamente le scuole elementari, ripetendo per passione due volte la quarta. I due fratelli, dopo il ginnasio inferiore, furono mandati a Cagliari e Sassari per proseguire gli studi presso il liceo statale, ma per una femmina non risultava conveniente uscire fuori di casa.

Il fratello Andrea, accortosi che la sorella si distingueva dal resto della famiglia per le sue capacità intellettive, volle che le fossero impartite lezioni di italiano e latino da un professore, pensionante presso una loro parente.

Le letture che non poté fare a scuola le fece disorganicamente con tutto quello che riusciva a reperire nella propria abitazione.

Nell'educazione letteraria della giovane ebbe una certa importanza anche uno zio materno, il canonico Sebastiano Cambosu, la cui biblioteca fu a disposizione della scrittrice autodidatta. Fino al 1899 Grazia rimase relegata all'ambito sardo, senza potersi confrontare con i più famosi letterati del tempo e questo inciderà profondamente sulla sua scrittura.

I titoli con cui la Deledda arricchì la propria fantasia furono: il poeta e commediografo irlandese Thomas Moore, Byron, Hugo, Dumas, Balzac, Manzoni, Pellico, Grossi, Goldoni. Tra gli scrittori contemporanei: Fogazzaro, Verga, D'Annunzio. Poi ancora secondo alcuni studiosi avrebbe letto da giovane : i russi Tolstoj, Dostoevskij, Gogol, Turgenev. Quindi molte letture di autori di moda all'epoca e come la sorte le permetteva.

Ovviamente un'analisi che legga la Deledda attraverso un confronto con Dostoevskij, oltre a rivelare un punto di partenza fortemente unilaterale, ha un facile

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gioco nel contrapporre la centralità europea dell'esperienza dello scrittore russo alla eccentricità periferica di Grazia. Non solo le tristi vicende familiari avevano avvicinato lo spirito di Grazia Deledda alla scuola positivista italiana, bensì anche le letture di Dostoevskij. I romanzi russi avevano accostato lo spirito della scrittrice a questa tesi, e cioè che al centro dell'indagine penalogica c'è l'uomo e non il delitto. Nell'ideale deleddiano l'uomo, quindi anche colui che delinque, non ha libero arbitrio, non ha “libertà di indifferenza” nel senso che non possiede la libertà e l'autonomia di scelta, perché porta con sé il suo destino.

I critici sono concordi nell'affermare che l'arte deleddiana si sviluppò in un completo isolamento rispetto alle esperienze letterarie, e culturali in genere, dei contemporanei. Delle diverse svolte del gusto e contrasti di poetiche, che si svolsero intorno a lei, non si avverte alcuna traccia almeno nei suoi primi romanzi. Rimarrà costantemente estranea e refrattaria, chiusa in un'ispirazione che, con il passare del tempo finì con il risultare sempre più appartata, remota ed arcaica.

Nei primi mesi del 1995 il vecchio manzoniano Ruggero Bonghi, nell'introduzione ad Anime Oneste, si impegnò a sottolineare l'indipendenza della maniera di Grazia, dissociandola dai molti ismi allora correnti:<<romanticismo, realismo,

psicologismo, naturalismo, idealismo, simbolismo>>.4

Era naturale che, i primi lettori dei romanzi della Deledda inquadrassero la sua attività narrativa nell'ambito della scuola verista, o meglio della letteratura documentaria regionalista, che da quella aveva presso l'avvio, e che nei ritratti delle cose di Sardegna pareva trovare una delle manifestazioni più evidenti sia dal punto di vista pittoresco che da quello folcloristico.

In questo ambito la Deledda riceveva la benedizione del teorico, Luigi Capuana, il quale la sollecitava, nella sua opera “Gli ismi contemporanei”, a proseguire

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nell'esplorazione del mondo sardo, dove a lui sembrava che ella avesse già reperito un forte elemento di originalità.

Capuana fu il primo ad avvertire fin da allora anche i limiti e le deficienze di quei racconti in rapporto a un'ideale poetica verista: il difetto di oggettività, la fragilità costruttiva, la debolezza o addirittura l'inconsistenza dell'analisi psicologica, la insignificanza assoluta dei personaggi.

Giovanni Verga, in alcuni suoi discorsi, lodando il romanzo Cenere, affermava di averne ritratto un'impressione analoga a quella di un racconto di Berthold Auerbach. Verga, con questa opinione, poneva un distacco ben netto fra la sua concezione amara e tragica del vero e il mondo della Deledda, collocandola con non poca ingiustizia, nella diversa famiglia degli illustratori idealizzanti della società rurale e pastorale.

La Deledda tende fortemente a idealizzare la sua materia e a liricizzarla, riducendola in forme elementari ed emblematiche. Alla narrativa naturalistica ella si riallaccia sia per la fedeltà a una tematica regionale, sia per l'atteggiamento anti-letterario, per il completo rifiuto della tradizione illustre. Ma da una vera e propria adesione ai modelli del verismo troppi altri elementi la distolgono, a partire dalla natura intimamente lirica e autobiografica dell'ispirazione, per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazione di un' assorta memoria e le vicende e i personaggi proiezioni di una vita sognata.

Persiste, nelle sue pagine, una vera e propria rinuncia a capire l'oggettività dei processi che hanno luogo nella dimensione sociale.

Le manca quell'atteggiamento di distacco iniziale che ritroviamo in Verga, in Capuana e nel De Roberto e che permette di conferire alle persone e agli oggetti un risalto fermo e lucido. Le sue fragili radici culturali e gli scarsi appigli con le

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ideologie contemporanee le impediscono di accettare la concezione positiva, i presupposti filosofici e scientifici, l'interesse ai contrasti sociali e il criterio economico, che costituiscono la base della poetica verista.

Emilo Cecchi nel 1941, nell'Introduzione a Grazia Deledda, Romanzi e Novelle, scrive: “Ciò che la Deledda poté trarre dalla vita della provincia sarda, non si improntò in lei di naturalismo e di verismo...Sia i motivi e gli intrecci, sia il materiale linguistico, in lei presero subito di lirico e di fiabesco...”5

La migliore narrativa della Deledda ha per oggetto la crisi dell'esistenza. Tale crisi risulta dalla fine dell'unità culturale ottocentesca, con la sua fiducia nel progresso storico, nelle scienze laiche, nelle garanzie giuridiche poste a difesa delle libertà civili. Vittorio Spinazzola ci permette di comprendere come questi aspetti ( la sfiducia nella nuova classe borghese sarda, la caduta del sistema feudale, la nuova società italiana che non teneva conto della situazione meridionale e dei diritti dell'uomo ecc..) rendano la scrittrice pienamente partecipe del clima decadentistico. Così ella visse la crisi del naturalismo verista con spontanea pienezza, in spirito di adesione alle istanze del decadentismo, conservando il legame con il movimento da cui aveva preso le mosse, (il naturalismo verista) , ed al quale in qualche modo non cessò mai di rifarsi, anche quando ormai era giunto al tramonto.

Così ella si esprime riguardo alla sua originalità di scrittrice, durante un' intervista :

Han detto che io imitavo in qualche modo il Verga, del quale conosco solo due o

tre cose, tanto diverse dalle mie, e han tirato fuori autori tedeschi, francesi, inglesi, che io non conosco affatto. Dei russi non si parli! Io ho letto i romanzi russi solo dopo l’insistente paragone che i critici ne facevano.” Dietro il successo mondiale di

Grazia Deledda non c’è solo la sua grande abilità letteraria. La scrittrice nuorese con la quarta elementare che ottenne il Premio Nobel per la letteratura del 1926, lo

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raggiunse perché lo desiderava fortemente e lo conquistò con metodo, costanza e ostinazione, oltre che col talento, poiché molti furono gli ostacoli e le critiche che dovette affrontare per la sua condizione di scrittrice-donna.

1.4 La Sardegna tra mito e realtà.

Grazia Deledda non è fra gli scrittori dei quali è possibile ignorare il luogo di nascita. Non solo perché la particolarità della zona, in cui essa nacque, ebbe un influsso determinante sulla sua stessa peculiarità di scrittrice, ma anche perché quel paese e quella regione furono, con poche eccezioni, i più veri e sofferti protagonisti dei suoi racconti: dai primi che pubblicò a diciassette anni, al suo ultimo libro autobiografico, Cosima, uscito poco dopo la sua morte, avvenuta a Roma il 15 agosto 1930.

In queste poche righe seguenti ci viene presentata l'importanza che il rapporto tra la scrittrice e l'ambiente natio ebbe nella sua formazione culturale, leggiamo l'introduzione in “Grazia Deledda nella cultura sarda contemporanea”5bis:

“La Deledda potrebbe vivere senza la Sardegna ma non potrebbe essere senza gli

anni della sua formazione in Sardegna, nel mondo chiuso di Nuoro. É a Nuoro che ha cominciato a sentire e in maniera così forte la sua educazione, è a Nuoro che è nata Cosima, forse l'immagine più felice di quella natura che aveva accettato e prima cercato di vivere in un altro mondo. Ecco perché si sbaglia quando la si considera una scrittrice regionale, ecco perché si sta nel vero quando la si coglie nel suo segreto più intimo del grande sogno”

Nuoro, sede di sottoprefettura, di corte d'Assise, di vescovado, tuttavia restava nella sua più intima essenza quella che da sempre era stata, una roccaforte di quella antica

5bis Grazia Deledda nella cultura contemporanea / atti del Seminario di studi "Grazia Deledda e la cultura sarda fra '800 e '900" ; a cura di Ugo Collu.

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civiltà pastorale tipica della zona più montuosa dell'isola ed estranea agli sviluppi moderni della società europea ed italiana. Le tecniche agricole e dell'allevamento erano assai arretrate rispetto al resto dello stato italiano.

Nella popolazione locale ad un minuscolo gruppo borghese si contrapponeva una grande maggioranza di piccoli contadini e di pastori nomadi o seminomadi. Borghesia e pastori incarnavano, più che due diverse condizioni sociali, due diverse mentalità, due civiltà che spesso si opponevano anche con le armi in pugno.

A esasperare e cambiare le cose, proprio in quegli anni “la civiltà moderna” si affacciava anche nella realtà nuorese.

La sua figura era quella non amabile della cosiddetta “ industria delle foreste” che era incarnata dalla persona dei boscaioli continentali, dai loro caposquadra e imprenditori poco rispettosi dei beni altrui, che ritroviamo spesso ritratti in diversi personaggi deleddiani.

Così vistosi ed arroganti e, in primis, diversi dalla popolazione locale, arrivavano di là dal mare per trasformare gli antichi boschi della Barbagia in traversine per le costruende ferrovie europee, o in carbone vegetale e cenere che venivano adoperati per alimentare le floride fabbriche italiane di soda.

Ciò infliggeva un duro colpo al patrimonio boschivo di quella regione e, impoverendo questo, incideva irrimediabilmente sull'economia già povera di tutta l'Isola.

Aumentò il numero dei contadini senza terra perennemente affamati, nelle campagne una pesante fiscalità falcidiò i redditi esigui dei contadini coltivatori, nelle città crebbe il numero dei disoccupati.

Nei primi anni dell'Ottocento con l'abolizione del feudalesimo, con la privatizzazione della terra, con la soppressione di usanze comunitarie, lo stato

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sabaudo e quello italiano, attuando riforme, comunque irrinunciabili, minacciarono la sopravvivenza di quella civiltà.

Da qui, tra l'altro, il fenomeno del banditismo. Il ruolo del bandito diventò quello di colui che combatteva i soprusi attuati dai potenti, uccideva e poi si dava alla latitanza. I banditi si impossessavano di proprietà altrui, ricorrendo a minacce e violenza; agivano spesso in bande, composte perlopiù da individui giovani e di sesso maschile.

Consapevole di ciò la popolazione concedeva il proprio aiuto al bandito rispettando quelli che erano i canoni del “codice barbaricino”. Per i barbaricini, le leggi dello stato erano regole non comprese e non giuste, e pertanto non rispettate di una altrettanto non compresa nazione.

La vendetta era considerata un atto di giustizia, di generale riparazione e di riscatto collettivo.

La questione meridionale non poteva esaurirsi nel constatare l'arretratezza del Sud e delle Isole, ma era da individuare nelle incapacità della classe dirigente nazionale ad utilizzare le risorse che aveva a disposizione nella vasta area del Mezzogiorno. Ovviamente la storia della Sardegna è da sempre la storia della povertà, dell'arretratezza e delle crisi delle sue campagne. La crisi era ormai la diretta conseguenza dell'espansione del capitalismo agrario, che si era sviluppato nelle regioni più avanzate della penisola, della progressiva differenziazione tra lavoro agricolo e lavoro industriale e, infine, dalla politica nazionale imposta al paese dal blocco politico dominante. La questione sarda era la conseguenza di un rapporto abnorme tra la regione e lo Stato unitario.

Le uniche esperienze di bellezza che la Nuoro di allora obiettivamente poteva offrire erano tutte e solo nelle sue campagne. Quelle artistiche erano limitate alle

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espressioni tradizionali, popolari, della regione.

I ricchi e raffinati ornati dei costumi; le piccole primitive sculture in pasta di pane o di mandorle e miele, o di formaggio dolce, da consumarsi in occasione delle grandi feste, anch'esse come oggetti di culto o come amuleti dei quali si era scordato il significato. E poi vi erano i canti e la ricca poesia dialettale.

La povertà architettonica all'interno della città, e il fatto che le due costruzioni notevoli fossero le carceri e la cattedrale, acquistano un significato quasi simbolico nell'immagine della Nuoro in cui Grazia Deledda nacque e si formò.

Non vi era una biblioteca aperta al pubblico, il quale d'altronde era per la maggior parte analfabeta, né un teatro.

Gli unici locali pubblici non interdetti alle donne erano le chiese. Di mettersi in contatto con altre culture o dell'utilizzo della parola scritta, solo i pochi borghesi potevano sentire la necessità e l'utilità.

Solo pochi pastori sapevano leggere e scrivere, e si trattava per la maggior parte di ex carcerati che avevano appreso l'alfabeto da adulti.

Il sardo era la lingua che si parlava anche dal pulpito, nell'ambiente clericale, e spesso dagli avvocati nelle aule dove si celebrava la giustizia. La scuola tentava di insegnare e diffondere quella lingua straniera che era l'italiano.

La donna poteva essere paragonata ad una vestale, il cui destino indiscutibile era quello di mantenere accesa la fiamma delle tradizioni remotissime, che erano la maggior forza coesiva del gruppo, di conservare e tramandare le antiche leggi non scritte che gli uomini, nel contatto con le leggi nuove, potevano anche rischiare di scordare e non rispettare.

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dall'adottare ritmi di vita e costumi che non erano suoi. Dopo esperienze di questo genere, ritornando in seno al villaggio, egli riscopriva l'incontaminata validità delle vecchie regole e norme che lì, nel mondo oltre il mare, erano apparse stranezza ed eccezione.

Poteva capitare che la “sortita” del giovane sardo diventasse persino determinante e definitiva perché volontaria e tesa a un tipo di conquista che ha sempre implicato anche una resa totale da parte del conquistatore.

I figli maschi delle famiglie più facoltose, studiando all'interno delle università italiane, assimilavano la cultura ufficiale prevalente.

La fuoriuscita dai canoni tradizionali della società barbaricina era considerata un gesto di alto tradimento nei confronti della comunità pastorale e arcaica, che non si sentiva parte della nuova Italia unita.

Grazia Deledda con spavalderia inaudita, ancora giovane, digiuna di studi , decise di rompere il cerchio del silenzio, al quale era destinata la donna del suo paese, e cominciò a “lanciare” nel mondo i suoi scritti, inizialmente sotto pseudonimo, poi, man mano, firmati con il suo nome. Nell'atto di scrivere essa assumeva sfrontatamente poteri che non le competevano, con arroganza usurpava un ruolo contrastante con la condizione femminile di quel tempo.

Tradiva in questo modo il destino di donna barbaricina. La condanna che le riservò il paese di Nuoro significò molto nella problematica e nella filosofia esistenziale implicita nei suoi racconti, e influì profondamente sulla sua vita la quale, quanto la sua opera, si svolse tutta sotto il segno del duplice sentimento di odio-amore, di rancore e di acceso rimorso nei riguardi di quel paese di cui fu la più innamorata interprete e dal quale, contemporaneamente, fu respinta.

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ruolo, che per millenni le donne della sua comunità avevano accettato, denunciava un cedimento che riguardava tutto il gruppo etnico che, con il consolidarsi dello Stato italiano, sosteneva uno degli attacchi più ardui della sua lunga storia.

Una storia basata sulla fedeltà alle vecchie leggi, sul silenzio, e sulla chiusura verso l'esterno e la novità.

Quando la Deledda, rompendo coraggiosamente con le convenzioni del proprio villaggio e della patriarcale civiltà sarda, che voleva la donna relegata nell'ambito delle pareti domestiche, docile, remissiva, intenta al fuso e alla spola, a procreare ed allevare figli, pubblicò i primi racconti, ingenui e sinceri, ambientati nella vita della sua piccola cerchia, (essendo una giovane scrittrice), fu presa come bersaglio dalle malelingue dei compaesani. Si fece portavoce dell'ambiente sardo, fu abile osservatrice di ciò che avveniva intorno a lei.

Nella sua creazione artistica si esprime la coscienza che ella aveva della società e della civiltà, della sua terra e del suo tempo, di quella civiltà agro-pastorale barbaricina e sarda, di cui lei non poteva che essere la più naturale espressione. Grazia, come già osservato, proveniva da una famiglia patriarcale, chiusa all'innovazione e fortemente conservatrice.

Il padre-padrone era colui che stabiliva il destino dei figli, i quali a lui dovevano più rispetto che amore, e ciò valeva soprattutto per la moglie.

La figura del padre-padrone è anche frutto, in una società arcaico- pastorale come quella nuorese, delle condizioni e del sistema economico che vuole il padre o marito come unica fonte valido di lavoro, mentre la madre è procreatrice e allevatrice dei figli ma anche saggia amministratrice del reddito del marito.

La nostra scrittrice studiava il suo popolo, ne conosceva il dolore, ne imparava il linguaggio, le superstizioni, la natura ingrata. Da qui attingerà lo spunto per dar vita

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ad un'epopea sui diseredati.

Le esperienze autobiografiche assumeranno nella sua scrittura un valore preminente. Esse si allargano dilatandosi fino a comprendere, con lucida e critica coscienza, gli aspetti più drammatici e dolorosi della crisi che stava investendo, in quegli anni, tutte le classi sociali che erano riuscite a mantenere salda la conservazione della civiltà sarda.

Nei romanzi deleddiani le azioni si svolgono, prevalentemente in Sardegna ma non solo, tra le brughiere aspre e solitarie, le macchie e le forre, tra i boschi di sugheri e i ciuffi di fichi d'India, di ginepri e di lentischi, tra i pascoli deserti e le tancas selvagge, tra le capanne di pastori e le misere case di contadini o di rustici signorotti con usanze remote e patriarcali. I villaggi sono sprofondati in un clima di civiltà primitiva fuori del tempo e le piccole città, imprigionate in una vita irta di passioni soffocate e di crudele curiosità, risultano chiuse nelle loro tradizioni e non disposte al cambiamento.

La Deledda illustra quel principio che regge una società caratterizzata dalla staticità e in lotta per la propria conservazione in un mondo oppressivamente vitale e in rapida evoluzione: nella fedeltà alle vecchie leggi sta la salvezza della società nel suo complesso, la pace dell'anima individuale. Nel volere scegliere nuove vie sta la radice del male, il peccato che avvelena le sorgenti dell'amore. Ella pone al centro della sua narrazione il travaglio della nazione, tra l'arcaismo di una civiltà contadina e la modernità del nuovo ceto borghese incapace di compiere una funzione liberatoria nei confronti dell'individuo.

Questi ambienti sono intrisi di nostalgia e di lirismo autobiografico, sfumati e trasfigurati nel ricordo. Spesso sono il frutto di una fantasia sovreccitatata che fa apparire il tutto più indistinto. Non per nulla i sardi furono restii a riconoscersi nei

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racconti sardi della scrittrice.

In questi paesaggi s'immedesimano, con la loro naturalezza, le creature della terra: puledri selvatici, greggi candide, cerbiatte e cani.

Vi si confondono le figure umane composte da servi, banditi, pastori, contadini e donne impegnate nelle faccende domestiche, dei quali viene posto in risalto il gesto pittoresco, la determinatezza delle azioni e l'atteggiamento burbero e le violente passioni represse.

La scrittrice ci lascia un quadro della realtà sarda dove la povertà e la decadenza esistono da sempre.

Non tutti i romanzi e i racconti hanno come sfondo la terra barbaricina, per alcuni di questi la Deledda ha preferito scegliere luoghi che sono il prodotto della sua accesa inquietudine, causata da una adolescenza solitaria. Con la Deledda, e tramite la sua operazione artistica, la Sardegna entra a far parte dell'immaginario europeo. Nei principali romanzi della scrittrice la realtà geografica e antropologica sarda si trasforma nella “terra del mito”, diventa la metafora di una condizione esistenziale, quella del “primitivo” recuperata dalla cultura novecentesca come unica risposta al disagio esistenziale creato dalla società industriale e luogo in cui rappresentare le angosce dell'uomo contemporaneo di fronte al progresso scientifico. L'Isola, luogo per eccellenza del mito, costituisce uno dei temi fondamentali della letteratura novecentesca, spesso come memoria dell'infanzia e dell'innocenza, e si lega alla cultura letteraria ed artistica dell'avanguardia. Nella Deledda essa assume soprattutto la forma concreta di spazio primordiale, luogo del mito, un ambiente privo di tempo che risponde meglio al suo progetto di romanzo.

La Sardegna sembra essere una terra sconosciuta: lo scenario indistinto per un dramma umano che potrebbe avere per patria l'intero mondo.

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Il sistema culturale sardo è fondato principalmente sulla lingua sarda e dispone di un enorme patrimonio letterario che proviene dalla tradizione orale, ancora non adeguatamente raccolto e sistemato. La Deledda ha in questo senso non pochi meriti, collaborò con le sue raccolte di poesie e con gli sforzi per costituire un'Associazione sarda di tradizioni popolari mentre perdurava l'indifferenza degli studiosi locali. Il patrimonio letterario sardo comprende i primi documenti giudicali, redatti in sardo per comunicare con i paesi interni dell'isola e in latino con quelli esterni e la produzione letteraria successiva.

Il dilemma insolubile dei suoi romanzi sta tra la completa sfiducia nei confronti dell'azione organizzata che prepara al futuro e la riluttanza ad adagiarsi nell'immobilismo passatista.

Grazia Deledda è stata abile nell'attrarre il pubblico di lettori mediante la descrizione di un ambiente sardo ancora sconosciuto a quel tempo, ma ricco di tradizioni e peculiarità e sapeva bene di poter riscuotere successo in questo modo. Così la Deledda scrive, nelle lettere giovanili, a Epanimonda Provaglio:

“ E' per merito di quest' isola diversa dal resto dell' Italia, dei suoi costumi, dei

suoi caratteri, dei suoi personaggi che i miei lavori interessano il pubblico (…). Il popolo è ancora primitivo, ma possiede tradizioni bellissime , impeti di passioni profonde ed è generoso come nessun altro popolo d'Europa(...)... cerco dapprima l'idea fondamentale, dirò così del romanzo o della novella che voglio svolgere, appoggiandomi spesso a fatti che ho sentito narrare nella mia patria e ricordandomi intensamente personaggi sconosciuti nella realtà”.

Al caro amico Epanimonda Provaglio la Deledda inviò numerose lettere che sono state raccolte da Eurialo De Michelis nel 1964.

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1.5 Alla ricerca di un pubblico più vasto.

La Deledda cercò di attribuire alla sua personalità un dinamismo energico, sorretto dalla convinzione di detenere in dono il possesso della verità morale. Il suo obiettivo fu offrire al pubblico nazionale l'immagine di un'umanità che, pur partecipando al destino di un' Italia unita, era in grado di resistere al disfacimento morale attivo nell'ambito borghese. Questo scopo divenne una vera e propria missione umana e letteraria, che la scrittrice svolse per l'intera esistenza.

Proprio la sua formazione di autodidatta, nel chiuso della provincia nuorese, lontano dai centri maggiori di vita intellettuale, tra disordinate letture di scrittori, la spinse ad entrare in contatto con una cerchia sempre più vasta di interlocutori resi disponibili dall'industria del tempo. L'arretratezza culturale sarda consisteva anche nella mancanza di un insieme omogeneo di consumatori di romanzi.

Grazia Deledda non ebbe altro modo di sfuggire all'isolamento di Nuoro che con il matrimonio. Manifestò esplicitamente questo pensiero fin da giovanissima.

Nuoro non l'aveva quasi mai amata né apprezzata, la gente sarda non riusciva a perdonarle di vivere al di fuori dei canoni della divisione dei ruoli, rigorosamente sessisti, della cultura barbaricina: Grazia, infatti, non si dedicava esclusivamente ai lavori donneschi, non ambiva al matrimonio e si dilettava a scrivere storie d'amore e di vendetta, con tinte troppo accese per una signorina considerata perbene. La sua vita e la sua opera testimoniano una visione chiara e inequivocabile del suo destino di donna, segnato dalla scrittura.

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pregiudizi che pesavano sulla sua persona, in una società maschilista e chiusa come era quella barbaricina di Nuoro.

In una lettera a Giovanni De Nava la scrittrice si presentava in questi termini: “Molti mi credono una creatura fantastica, strana e aristocratica, altri invece mi

prendono per una maestrina in una scuola comunale di montagna. Non sono nulla di tutto questo. Sono semplicemente una signorina qualunque piena di buon senso comune, una piccola signorina bruna, con begli occhi neri, così piccola e sottile e lieta da sembrare una bambina. Appartengo ad una famiglia di quei principali sardi che io metto spesso nei miei racconti, gente bizzarra, tra il patriarcale e il selvaggio che non appartiene né alla borghesia né al popolo né alla nobiltà...Io studio e sempre molto: aspiro alla celebrità, non lo nascondo, e spero di riuscirvi.”6

Nonostante siano noti e molti i giovani artisti e scrittori che in questo periodo abitavano a Nuoro, alla Deledda non fu concesso frequentare liberamente la loro compagnia per la rigida e patriarcale cultura barbaricina, anche se si conoscono alcune sue corrispondenze e contatti con singoli artisti e scrittori, come Sebastiano Satta6 bis.

Le piaceva utilizzare la biblioteca paterna per arricchire la sua cultura ancora scarna.

Una simile vivacità intellettuale, concentrata negli anni nuoresi della sua formazione, dovette segnare la scrittrice e sollecitarla verso quello che sarà il suo unico sogno: creare da sola una grande letteratura sarda.

Ella compose poesie nei suoi anni giovanili, quasi tutte in italiano e soprattutto

6 Grazia Deledda, Lettere a Giovanni De Nava, a cura di Ludovica De Nava, in «Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina», II, 1984.

6 bis, Sebastiano Satta: poeta, scrittore, avvocato e giornalista italiano. Nacque a Nuoro nel 1867. Cfr. Neria De Giovanni “Grazia Deledda”, Maria Pacini Fazzi editore .

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concepite per essere pubblicate.

Cercò di impadronirsi della lingua italiana che per lei, donna sarda, era come una lingua straniera e difficile da apprendere. Le costò molta fatica entrare nel mondo letterario italiano, ma voleva impossessarsi delle strutture linguistiche comuni nel nuovo Stato Unitario perché la sua unica vocazione, il suo grande sogno, era quello di farsi conoscere da tutti, far conoscere a tutti la sua Sardegna.

Questo obiettivo non avrebbe potuto raggiungerlo se avesse scritto in sardo: la circolazione sarebbe stata limitata e chiusa in quell'isolamento, dal quale desiderava evadere. Durante il periodo nuorese la giovane Grazia indirizzò i suoi scritti verso un universo lontano. Come ci spiega Dino Manca, nei suoi numerosi saggi sulla scrittrice, era il <<vago immaginar>>, erano i primi frutti di letture assai di moda in quei tempi, che rappresentavano i tentativi di una “ ragazza di provincia”di presentarsi a un pubblico d'oltremare: il variegato pubblico delle Italie da poco unificate. La sua è l'opera di trasfigurazione in finzione letteraria di un mondo peculiare e complesso, di una terra ancorata alle antiche tradizioni che, all'interno dei suoi “monti-protezione”, era stata garanzia di continuità ma, in una certa fase, anche una limitazione.

I primi voli incerti divennero ben presto il tentativo di oltrepassare la soglia e proiettarsi nel mondo. Interessante leggere un frammento della lettera di Grazia Deledda all'amico Epanimonda Provaglio :

“Figurati tu una ragazza che rimane mesi interi senza uscire di casa; settimane e settimane senza parlare ad anima che non sia della famiglia; rinchiusa in una casa gaia e tranquilla si, ma nella cui via non passa nessuno, il cui orizzonte è chiuso da tristi montagne: una fanciulla che non ama, non soffre, non ha pensieri per l'avvenire, non ha sogni né buoni né cattivi, non amiche, non passatempi,nulla

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infine, nulla, e dimmi come può essa fare a non annoiarsi. I libri... i giornali... il lavoro... la famiglia! I libri e i giornali sono i miei amici e guai a me senza loro.”

In una lettera giovanile scrive: “Adoro l'arte e il mio ideale è di sollevare in alto il

nome del mio paese, così mal conosciuto e denigrato aldilà dei nostri melanconici mari, ne le terre civili. E lavoro, lavoro tanto, come un uomo, per la mia Idea, e riuscirò, benché sia una piccola persona pallida e umile, che ha però lo spirito grande ardente come gli oscuri occhi andalusi”.7

Sempre a Epanimonda Provaglio rivela l'amore per la scrittura:

«Nelle ore in cui non scrivo mi annoio a morte, tanto che divento persino smorta in viso. Lo scrivere è la mia vita, il solo raggio che interrompa la monotonia della mia troppo tranquilla esistenza»

Il primo racconto Sangue sardo le fu pubblicato dall'editore Perino sulla rivista romana “L'ultima moda”. La giovane Grazia imparò a scrivere in italiano soprattutto con la sua stessa produzione; infatti dopo Sangue Sardo non si fermò

più, si impegnò a riempire letteralmente i giornali e le riviste sarde prima e quelle romane poi con novelle e recensioni.

Già all'età di vent'anni, scrivendo di Sardegna, regione e popolo quasi sconosciuti al resto d'Italia, attirò su di sé curiosità ed interesse.

Il conte Angelo De Gubernatis cercò di aiutarla, tramite le sue numerose amicizie fra gli editori romani e milanesi. Benché la Deledda avesse sempre dimostrato quasi una frenesia per gli spostamenti, arrivò all'età di ventinove anni senza quasi mai uscire dai confini della provincia natale. Solo una volta, probabilmente all'età di venticinque anni, si recò a Cagliari, città dove sarebbe stata più libera di esprimere la propria attività letteraria.

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Finalmente nel 1899 si trasferì a Roma con il marito Palmiro Madesani. Partì per Roma con sollievo, certa di andare verso il suo destino di gloria letteraria, portandosi la Sardegna nel cuore.

Ella ricercò e trovò proprio nell'ambiente romano, mediante il distacco dello studioso che analizza le mitologie riguardanti l'ambiente sardo, le occasioni e gli strumenti per aggiornare e migliorare da ogni possibile punto di vista, estetico e di linguaggio, il proprio programma da scrittrice. Una volta a Roma, liberatasi dal controllo possessivo del proprio ambiente, Grazia Deledda diventò una accorta e distaccata osservatrice delle complesse dinamiche della psiche e della vita interiore, alla ricerca del senso, ancora arcano, della vita di città, intrisa di una profonda solitudine metafisica. Grazia, mediante la sua scrittura e la sua visibilità, si ribellò in modo rivoluzionario a una radicata tradizione secondo la quale le donne potevano accostarsi alla letteratura solo nel ruolo privato di tramandare oralmente fiabe e leggende ai bambini, come possiamo apprendere dal libro7 bis di Maria

Giacobbe Harder.

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Capitolo 2 :

2.1 Temi della narrativa deleddiana.

Grazia Deledda è stata sempre un'anticonformista anche nella vita quotidiana ( non rispecchia il prototipo di donna esclusivamente dedito alle mansioni domestiche e alla cura dei figli) , volta ad un'acuta osservazione della natura e della gente sarda per trasporre tutto in pagina letteraria. Nei suoi romanzi e nei racconti, i costumi e le forme di una società arcaica non sono tanto descritti quanto percepiti nella loro evidenza sensibile.

La Sardegna che ella riuscì a “far conoscere al mondo” fu quella barbarica ma retta da rigide norme morali, feroce talvolta ma non rozza o volgare, povera ma mai mediocre, incatenata a un lontano passato di nobiltà e condannata a un presente di miseria dovuta all'ascesa del ceto borghese.

L'impegno che la Deledda assunse, mediante la scrittura, riguardò il potenziamento di una fantasia nativa, applicata a trasfigurare leggendariamente una materia di vita quotidiana, vissuta fra realtà e surrealtà.

Tra i diversi elementi che confluiscono nella sua rappresentazione, quello che colpisce, in primo luogo, l'attenzione del lettore è il motivo di fondo dell'ambiente o del paesaggio: pascoli deserti, montagne che rinverdiscono a primavera e durante l'inverno si ricoprono di neve, tancas selvagge, eremi e santuari, ovili alpestri, capanne di pastori, notti pallide e solitarie, tramonti immersi in una calda luminosità, lunghe distese di verde. Ne emerge l'immagine di una natura castamente primigenia e incontaminata.

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In questo scenario si muovono i personaggi animati da passioni violente e irrigidite, da chiusi odi, da cupi rovelli, da ingorghi sensuali e da saggezza proverbiale e solenne.

Essi non quasi mai caratteri dotati di un'energica e coerente vita interiore, ma risultano più simili a figure abbozzate con rapide notazioni impressionistiche su uno sfondo mobile di piccoli paesi, privi di una psicologia ben definita.

Su tutti i personaggi vinti, umili e padroni, si distende la civiltà arcaica con i suoi miti remotissimi, della forza e del prestigio, dell'onore, della reputazione, della considerazione, della fedeltà, della vendetta. Questo mondo è presente nella Deledda, ma la scrittrice lo interpreta attraverso la sua fantasia e la sua personalità, attraverso il romanticismo che le fa esaltare i caratteri epici e primitivi, la grandezza dei protagonisti, il loro muoversi, spinti da forti impulsi e da lontane ragioni religiose e magiche. Si tratta di figure umane quasi sempre in crisi morale, per la primitività del luogo in cui si trovano, e ne consegue una psicologia spesso sommaria e lacunosa.

Altro elemento fondamentale dei romanzi deleddiani è l'insistito tema morale, la rappresentazione della colpa e della passione, con la conseguente dialettica del rimorso e del castigo, della disperazione e della redenzione.

Attilio Momigliano definì la scrittrice: “Un grande poeta del travaglio morale”8.

Momigliano riconosce nella sua arte un'austera e tragica coscienza del destino umano. L'individuo, impegnato in una lotta disperata con il fondo più oscuro dei suoi istinti, tentato e sconvolto da passioni violente, non è in grado di trovare una risoluzione definitiva per dominare il travaglio interiore, che lo lacera e lo disorienta.

8 Attilio Momigliano, Storia della Letteratura Italiana dalle origini ai nostri giorni, Principato, Milano-Messina 1948.

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Da qui l'inevitabilità del male, di cui si colora la vita quotidiana degli uomini a cui consegue il rimorso e la pena da scontare con castighi che colpiscono il peccatore e gli innocenti legati a lui, per ragioni affettive o di sangue.

Nel buio dell'errore cui essi sono destinati, non rimane altra possibilità che espiare la realtà, patendo sino in fondo il dolore da cui è costituita, ed evitare di indagare sulle cause più nascoste che la riguardano.

Ciò che induce l'uomo nell'errore è l'eros inteso come esperienza totale, in cui si liberano e bruciano tutte le esperienze del singolo, che viene a scontro frontale con la società. Eros come forza cieca che allontana l'io dalla comunità, della quale è parte integrante. La forza naturale più trasgressiva è certamente l'Eros, spesso unica ragione di vita del protagonista o della protagonista deleddiana. La donna è il primo motore della fascinazione mediante gli occhi. Gli sguardi femminili possono essere considerati veri e propri dardi, attraverso cui Eros colpisce a morte il prescelto. Nella maggior parte dei casi i protagonisti della passione amorosa sono inconsapevoli di quello che sta per succedere e di come questo sentimento stravolgerà le loro vite.

Anche le ambientazioni campestri sono complici dell'epifania erotica, soprattutto la solitudine e la selvaggia bellezza del territorio sardo. Le vittime di Eros sono insofferenti alle leggi dell'ordine sociale, opposte a quelle istintuali dell'accoppiamento.

L'amore erotico, come impulso primario e individualista, poteva ben simboleggiare nella tematica deleddiana il peccato di ribellione alla legge comunitaria, o alla legge morale ma la scrittrice è più volte esplicita nel dimostrare come non sempre la convenzione, la consuetudine, fondamenti necessari alla coesistenza sociale, corrispondano alla “volontà di Dio”.

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Il male è non è un problema ma una realtà: l'unica realtà in cui gli uomini vivono e da cui sono costituiti. Non ci è modo di uscirne se non reprimendo l'amore in sè stessi per ritrovarlo negli altri. L'individuo, dedicando al prossimo l'amor sui8 bis,

ritrova dentro di sé quel Dio da cui è sempre stato abitato.

La scrittrice non concede nulla alla carnalità, ciò che la preoccupa e la interessa è sempre seguire l'itinerario dell'anima. L'amore ha in sé un aspetto di feralità autodistruttiva. L'effetto traumatico della libera pulsione erotica dell'animo di questi personaggi sardi è tale da minacciare le strutture della personalità.

L'unica via di fuga dal male esistenziale sta nel contenere i nostri istinti, sacrificando il libero desiderio di felicità individuale, e nel ritrovarsi cogli altri mediante il riconoscimento di fratellanza nel dolore.

Il Dio deleddiano è quel Dio biblico, fiero e vendicativo, nel senso di un duro e primitivo fatalismo. La religione non offre alcuna risposta ai quesiti dell'uomo, ma contribuisce ad accrescerne l'angustia. Non esiste alcun soccorso soprannaturale che possa placare le sofferenze umane o per lo meno indicare la giusta via da seguire. Dio si è ritirato dal mondo, ma gli uomini non si rassegnano a sentirsi abbandonati. Per affermare questa etica cristiana- stoica, Grazia Deledda utilizza come protagonista il popolo di Sardegna, che dal contatto con le tentazioni della nuova civiltà borghese, sa trarre uno stimolo per un ripensamento sui propri usi e costumi e sa aprirsi a un nuovo sentimento di umiltà fraterna.

La Deledda si rende conto della decadenza inevitabile della civiltà contadino-feudale sarda, ma non è disposta a riconoscere il progresso negli istituti dell'urbanesimo borghese.

Dal punto di vista contenutistico i romanzi della scrittrice offrono un resoconto

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oggettivo della crisi di una società imprigionata in una stasi secolare, entro cui si sono sviluppati fermenti visibili di una insoddisfazione che cerca sbocco. Con l'ascesa della classe borghese, gli esponenti delle giovani generazioni appartenenti alle famiglie feudali, non volendo soffocare nell'inerzia, cercano di evadere per mettersi in contatto con la civiltà moderna. Il contatto con la nuova società, contravvenendo alle norme comuni, fa sorgere nel personaggio deleddiano il senso di colpa per il peccato commesso: peccato che consiste nella persuasione di potersi esaltare sopra i propri simili, estraniandosi sia dall'ordine sociale che da quello cosmico. Tutto questo produce in lui dolore e pentimento e contemporaneamente si rafforza la convinzione che la soluzione migliore sia il ritorno nella comunità di appartenenza.

In un'epoca di grandi rivolgimenti, come i primi decenni del secolo ventesimo, la Deledda risulta scettica riguardo alle possibilità dell'azione di riscatto intraprese dalle nuove classi, che il regime di democrazia politica portava ad assumere un ruolo protagonistico sulla scena storica.

L'eroe tipico dei suoi romanzi fuoriesce dai ceti popolari per potersi auto-elevare. La scrittrice mira sempre a persuaderlo dei pericoli derivanti dal tralasciare il suo patrimonio etico, sino allora custodito gelosamente.

Il peccato originale è in definitiva il desiderio di sperimentazione e di ricerca, l'evasione dai canoni tradizionali. Questo fu il peccato anche di una artista, come la Deledda, che non riuscì a rinnegare l'appartenenza a una società arcaica conservativa, ma allo stesso tempo si distinse per la componente ribelle, innovatrice del suo carattere. Cioè quel bisogno irriducibile, fatale, di infrangere una regola fissata da secoli, di uscire da uno schema imposto dall'esterno, di seguire la propria legge interiore, creativa, vitale, tradendo senza rinnegarla la legge “del suo popolo”.

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Ella delega al popolo sardo una missione di rinuncia e sacrificio individuali, mentre alle classi alte continua ad essere affidato il compito di amministrare l'ordine sociale. La piena accettazione della condizione servile è considerata la migliore garanzia e soluzione per il riscatto della loro umanità comune. Grazia Deledda mette spesso in luce un urto tra il vecchio e il nuovo, lo stimolo a trasgredire le regole deriva da un cambiamento che può essere sociale, morale o frutto di un' esperienza che porta il protagonista a vedere con occhi diversi il mondo. La forza drammatica della narrativa deleddiana nasce dagli episodi in cui la crisi delle coscienze esplode, portando alla luce l’unico principio etico positivo: il sacrificio di sé.

In alcuni dei suoi romanzi giungiamo alla soglia del tabù supremo, l'incesto, fra consanguinei o congiunti; come esempio cito Cenere, opera complessivamente discontinua ma che ha pagine memorabili nel descrivere la visceralità del rapporto che unisce i due protagonisti.

I vinti deleddiani sono tali perché non possono smettere d'essere parte integrante del corpo sociale dal quale, pur sognando un'affermazione di sé contro le regole stabilite, non riescono ad allontanarsi perché superiore è il terrore del discredito e della ripulsa sociale. Si rimane cristallizzati nell'immobilità tragica del conflitto interiore, di una condizione statica e paralizzante.

A differenza dei vinti verghiani i cui tentativi di miglioramento sociale si traducono in fallimenti per l'impotenza a scardinare i rapporti di subordinazione, i vinti deleddiani traducono il desiderio di ribellione in passioni impossibili, in un conflitto di coscienza tra regole costituite, tradizione e voglia di trasgressione.

E ciò perché in una società non progressiva, come quella barbaricina descritta da Grazia Deledda, le uniche soluzioni per la sua conservazione sono sia l'accettazione

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della propria condizione, sia la legge che questa ha determinato per una pace dell'anima e per la libertà vera, anche di amare. Ella cerca di porre in guardia il suo popolo dal rischio di perdere, imborghesendosi, l'autenticità dell'anima popolare. Come afferma Geno Pampaloni durante alcune sue conferenze: “Raramente, e forse

mai, come nella sua opera noi troviamo il coincidere di società e coscienza”.

Questo coincidere di società e coscienza o questo calarsi dei problemi morali nel contesto sociale, caratteristico di tutta l'opera deleddiana, è l' effetto di quel conflitto sofferto dalla scrittrice e già descritto.

Ogni suo libro, ogni sua pagina, sono le tessere di un grande e incompiuto mosaico di autobiografia interiore. Una lettura più attenta della Deledda ci porta probabilmente a vedere una coscienza più chiara della scrittrice sulla situazione storica dell'isola. É vero che Grazia non ha mai dato una sistemazione ideologica e teoretica al suo pensiero, e che pertanto non può essere, sull'esempio di un Gramsci, definita scrittore rivoluzionario e impegnato. Sta tuttavia il fatto che, accanto all'umanità dei personaggi borghesi e popolari che entrano in scena nelle trame dei suoi romanzi, personaggi dei quali l'autrice osserva svolgersi la vita e la storia senza interferire dall'esterno, una naturale e cosciente predilezione sembra portare la Deledda verso i vinti, verso i più umili, verso coloro che hanno vissuto un'esistenza più avara e che aspirano ad un cambiamento, ad un miglioramento. Ella assegna ai servi, alle serve, agli umili, agli studenti, un ruolo nell'ambito della società sarda in crisi; la sua simpatia è rivolta a questi personaggi che portano fermenti nuovi e che, pagando di persona, testimoniano la necessità di una vita individuale e collettiva più giusta.

Importante ricordare che il suo modo di prospettare la concorrenza degli istinti ha una attendibilità che trova conferma nel pensiero scientifico successivo. Anna Dolfi, nei suoi saggi, propone un interessante confronto tra la psicologia deleddiana e il

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pensiero di Freud, notando che, per certi aspetti, le due concezioni, riguardo alla psiche umana, sono molto simili.

2.2 Romanzi sardi e no.

I principali romanzi sardi sono:

- Elias Portolu, 1900.

- Il vecchio della montagna, 1900. - Cenere, 1904. - L'edera, 1908. - Colombi e sparvieri, 1912. - Canne al vento, 1913. - Marianna Sirca, 1915. - La madre, 1920.

- Il paese del vento, 1931. - Cosima, 1936.

Tra quelli considerati non sardi abbiamo:

- La giustizia, 1899. - Dopo il divorzio, 1902. - Nostalgie, 1905.

- Sino al confine, 1910. - Il dio dei viventi, 1922.

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- Annalena Bilsini, 1927

- La chiesa della solitudine, 1936.

Nei romanzi sardi le vicende e le azioni dei personaggi si svolgono all'interno di una Sardegna arcaica e tradizionalista, mentre negli altri tutto avviene in diverse città italiane e no.

La scrittrice, nei primi, tende a porre in risalto un ambiente chiuso alla novità e all'eccezione, che non permette al protagonista di evolversi. La società barbaricina, come già osservato, non accetta l'evasione da canoni prestabiliti. I protagonisti sono desiderosi di confrontarsi con la novità, ma ben presto nasce in loro il senso di colpa per aver tradito la propria terra. L’isola diventa così un territorio mitico e senza tempo dove si svolgono le grandi tragedie umane.

I temi di entrambi i tipi di romanzi sono comunque quelli caratteristici della scrittura deleddiana: il fato, il peccato e la colpa, il bene e il male, il sentimento religioso, le atmosfere fatte di affetti intensi e selvaggi, il desiderio di evasione, il rimorso e il pentimento.

L'autobiografia è lo spunto principale che spinse la Deledda ad una produzione cosi cospicua. Anche il romanzo Cenere offre una serie di spunti della biografia deleddiana, un esempio: Anania prova il medesimo senso di colpa nell'abbandonare il paese di Fonni come Grazia quando si sposta da Nuoro con il marito a Roma.

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