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Temi della narrativa deleddiana.

Grazia Deledda è stata sempre un'anticonformista anche nella vita quotidiana ( non rispecchia il prototipo di donna esclusivamente dedito alle mansioni domestiche e alla cura dei figli) , volta ad un'acuta osservazione della natura e della gente sarda per trasporre tutto in pagina letteraria. Nei suoi romanzi e nei racconti, i costumi e le forme di una società arcaica non sono tanto descritti quanto percepiti nella loro evidenza sensibile.

La Sardegna che ella riuscì a “far conoscere al mondo” fu quella barbarica ma retta da rigide norme morali, feroce talvolta ma non rozza o volgare, povera ma mai mediocre, incatenata a un lontano passato di nobiltà e condannata a un presente di miseria dovuta all'ascesa del ceto borghese.

L'impegno che la Deledda assunse, mediante la scrittura, riguardò il potenziamento di una fantasia nativa, applicata a trasfigurare leggendariamente una materia di vita quotidiana, vissuta fra realtà e surrealtà.

Tra i diversi elementi che confluiscono nella sua rappresentazione, quello che colpisce, in primo luogo, l'attenzione del lettore è il motivo di fondo dell'ambiente o del paesaggio: pascoli deserti, montagne che rinverdiscono a primavera e durante l'inverno si ricoprono di neve, tancas selvagge, eremi e santuari, ovili alpestri, capanne di pastori, notti pallide e solitarie, tramonti immersi in una calda luminosità, lunghe distese di verde. Ne emerge l'immagine di una natura castamente primigenia e incontaminata.

In questo scenario si muovono i personaggi animati da passioni violente e irrigidite, da chiusi odi, da cupi rovelli, da ingorghi sensuali e da saggezza proverbiale e solenne.

Essi non quasi mai caratteri dotati di un'energica e coerente vita interiore, ma risultano più simili a figure abbozzate con rapide notazioni impressionistiche su uno sfondo mobile di piccoli paesi, privi di una psicologia ben definita.

Su tutti i personaggi vinti, umili e padroni, si distende la civiltà arcaica con i suoi miti remotissimi, della forza e del prestigio, dell'onore, della reputazione, della considerazione, della fedeltà, della vendetta. Questo mondo è presente nella Deledda, ma la scrittrice lo interpreta attraverso la sua fantasia e la sua personalità, attraverso il romanticismo che le fa esaltare i caratteri epici e primitivi, la grandezza dei protagonisti, il loro muoversi, spinti da forti impulsi e da lontane ragioni religiose e magiche. Si tratta di figure umane quasi sempre in crisi morale, per la primitività del luogo in cui si trovano, e ne consegue una psicologia spesso sommaria e lacunosa.

Altro elemento fondamentale dei romanzi deleddiani è l'insistito tema morale, la rappresentazione della colpa e della passione, con la conseguente dialettica del rimorso e del castigo, della disperazione e della redenzione.

Attilio Momigliano definì la scrittrice: “Un grande poeta del travaglio morale”8.

Momigliano riconosce nella sua arte un'austera e tragica coscienza del destino umano. L'individuo, impegnato in una lotta disperata con il fondo più oscuro dei suoi istinti, tentato e sconvolto da passioni violente, non è in grado di trovare una risoluzione definitiva per dominare il travaglio interiore, che lo lacera e lo disorienta.

8 Attilio Momigliano, Storia della Letteratura Italiana dalle origini ai nostri giorni, Principato, Milano- Messina 1948.

Da qui l'inevitabilità del male, di cui si colora la vita quotidiana degli uomini a cui consegue il rimorso e la pena da scontare con castighi che colpiscono il peccatore e gli innocenti legati a lui, per ragioni affettive o di sangue.

Nel buio dell'errore cui essi sono destinati, non rimane altra possibilità che espiare la realtà, patendo sino in fondo il dolore da cui è costituita, ed evitare di indagare sulle cause più nascoste che la riguardano.

Ciò che induce l'uomo nell'errore è l'eros inteso come esperienza totale, in cui si liberano e bruciano tutte le esperienze del singolo, che viene a scontro frontale con la società. Eros come forza cieca che allontana l'io dalla comunità, della quale è parte integrante. La forza naturale più trasgressiva è certamente l'Eros, spesso unica ragione di vita del protagonista o della protagonista deleddiana. La donna è il primo motore della fascinazione mediante gli occhi. Gli sguardi femminili possono essere considerati veri e propri dardi, attraverso cui Eros colpisce a morte il prescelto. Nella maggior parte dei casi i protagonisti della passione amorosa sono inconsapevoli di quello che sta per succedere e di come questo sentimento stravolgerà le loro vite.

Anche le ambientazioni campestri sono complici dell'epifania erotica, soprattutto la solitudine e la selvaggia bellezza del territorio sardo. Le vittime di Eros sono insofferenti alle leggi dell'ordine sociale, opposte a quelle istintuali dell'accoppiamento.

L'amore erotico, come impulso primario e individualista, poteva ben simboleggiare nella tematica deleddiana il peccato di ribellione alla legge comunitaria, o alla legge morale ma la scrittrice è più volte esplicita nel dimostrare come non sempre la convenzione, la consuetudine, fondamenti necessari alla coesistenza sociale, corrispondano alla “volontà di Dio”.

Il male è non è un problema ma una realtà: l'unica realtà in cui gli uomini vivono e da cui sono costituiti. Non ci è modo di uscirne se non reprimendo l'amore in sè stessi per ritrovarlo negli altri. L'individuo, dedicando al prossimo l'amor sui8 bis,

ritrova dentro di sé quel Dio da cui è sempre stato abitato.

La scrittrice non concede nulla alla carnalità, ciò che la preoccupa e la interessa è sempre seguire l'itinerario dell'anima. L'amore ha in sé un aspetto di feralità autodistruttiva. L'effetto traumatico della libera pulsione erotica dell'animo di questi personaggi sardi è tale da minacciare le strutture della personalità.

L'unica via di fuga dal male esistenziale sta nel contenere i nostri istinti, sacrificando il libero desiderio di felicità individuale, e nel ritrovarsi cogli altri mediante il riconoscimento di fratellanza nel dolore.

Il Dio deleddiano è quel Dio biblico, fiero e vendicativo, nel senso di un duro e primitivo fatalismo. La religione non offre alcuna risposta ai quesiti dell'uomo, ma contribuisce ad accrescerne l'angustia. Non esiste alcun soccorso soprannaturale che possa placare le sofferenze umane o per lo meno indicare la giusta via da seguire. Dio si è ritirato dal mondo, ma gli uomini non si rassegnano a sentirsi abbandonati. Per affermare questa etica cristiana- stoica, Grazia Deledda utilizza come protagonista il popolo di Sardegna, che dal contatto con le tentazioni della nuova civiltà borghese, sa trarre uno stimolo per un ripensamento sui propri usi e costumi e sa aprirsi a un nuovo sentimento di umiltà fraterna.

La Deledda si rende conto della decadenza inevitabile della civiltà contadino- feudale sarda, ma non è disposta a riconoscere il progresso negli istituti dell'urbanesimo borghese.

Dal punto di vista contenutistico i romanzi della scrittrice offrono un resoconto

oggettivo della crisi di una società imprigionata in una stasi secolare, entro cui si sono sviluppati fermenti visibili di una insoddisfazione che cerca sbocco. Con l'ascesa della classe borghese, gli esponenti delle giovani generazioni appartenenti alle famiglie feudali, non volendo soffocare nell'inerzia, cercano di evadere per mettersi in contatto con la civiltà moderna. Il contatto con la nuova società, contravvenendo alle norme comuni, fa sorgere nel personaggio deleddiano il senso di colpa per il peccato commesso: peccato che consiste nella persuasione di potersi esaltare sopra i propri simili, estraniandosi sia dall'ordine sociale che da quello cosmico. Tutto questo produce in lui dolore e pentimento e contemporaneamente si rafforza la convinzione che la soluzione migliore sia il ritorno nella comunità di appartenenza.

In un'epoca di grandi rivolgimenti, come i primi decenni del secolo ventesimo, la Deledda risulta scettica riguardo alle possibilità dell'azione di riscatto intraprese dalle nuove classi, che il regime di democrazia politica portava ad assumere un ruolo protagonistico sulla scena storica.

L'eroe tipico dei suoi romanzi fuoriesce dai ceti popolari per potersi auto-elevare. La scrittrice mira sempre a persuaderlo dei pericoli derivanti dal tralasciare il suo patrimonio etico, sino allora custodito gelosamente.

Il peccato originale è in definitiva il desiderio di sperimentazione e di ricerca, l'evasione dai canoni tradizionali. Questo fu il peccato anche di una artista, come la Deledda, che non riuscì a rinnegare l'appartenenza a una società arcaica conservativa, ma allo stesso tempo si distinse per la componente ribelle, innovatrice del suo carattere. Cioè quel bisogno irriducibile, fatale, di infrangere una regola fissata da secoli, di uscire da uno schema imposto dall'esterno, di seguire la propria legge interiore, creativa, vitale, tradendo senza rinnegarla la legge “del suo popolo”.

Ella delega al popolo sardo una missione di rinuncia e sacrificio individuali, mentre alle classi alte continua ad essere affidato il compito di amministrare l'ordine sociale. La piena accettazione della condizione servile è considerata la migliore garanzia e soluzione per il riscatto della loro umanità comune. Grazia Deledda mette spesso in luce un urto tra il vecchio e il nuovo, lo stimolo a trasgredire le regole deriva da un cambiamento che può essere sociale, morale o frutto di un' esperienza che porta il protagonista a vedere con occhi diversi il mondo. La forza drammatica della narrativa deleddiana nasce dagli episodi in cui la crisi delle coscienze esplode, portando alla luce l’unico principio etico positivo: il sacrificio di sé.

In alcuni dei suoi romanzi giungiamo alla soglia del tabù supremo, l'incesto, fra consanguinei o congiunti; come esempio cito Cenere, opera complessivamente discontinua ma che ha pagine memorabili nel descrivere la visceralità del rapporto che unisce i due protagonisti.

I vinti deleddiani sono tali perché non possono smettere d'essere parte integrante del corpo sociale dal quale, pur sognando un'affermazione di sé contro le regole stabilite, non riescono ad allontanarsi perché superiore è il terrore del discredito e della ripulsa sociale. Si rimane cristallizzati nell'immobilità tragica del conflitto interiore, di una condizione statica e paralizzante.

A differenza dei vinti verghiani i cui tentativi di miglioramento sociale si traducono in fallimenti per l'impotenza a scardinare i rapporti di subordinazione, i vinti deleddiani traducono il desiderio di ribellione in passioni impossibili, in un conflitto di coscienza tra regole costituite, tradizione e voglia di trasgressione.

E ciò perché in una società non progressiva, come quella barbaricina descritta da Grazia Deledda, le uniche soluzioni per la sua conservazione sono sia l'accettazione

della propria condizione, sia la legge che questa ha determinato per una pace dell'anima e per la libertà vera, anche di amare. Ella cerca di porre in guardia il suo popolo dal rischio di perdere, imborghesendosi, l'autenticità dell'anima popolare. Come afferma Geno Pampaloni durante alcune sue conferenze: “Raramente, e forse

mai, come nella sua opera noi troviamo il coincidere di società e coscienza”.

Questo coincidere di società e coscienza o questo calarsi dei problemi morali nel contesto sociale, caratteristico di tutta l'opera deleddiana, è l' effetto di quel conflitto sofferto dalla scrittrice e già descritto.

Ogni suo libro, ogni sua pagina, sono le tessere di un grande e incompiuto mosaico di autobiografia interiore. Una lettura più attenta della Deledda ci porta probabilmente a vedere una coscienza più chiara della scrittrice sulla situazione storica dell'isola. É vero che Grazia non ha mai dato una sistemazione ideologica e teoretica al suo pensiero, e che pertanto non può essere, sull'esempio di un Gramsci, definita scrittore rivoluzionario e impegnato. Sta tuttavia il fatto che, accanto all'umanità dei personaggi borghesi e popolari che entrano in scena nelle trame dei suoi romanzi, personaggi dei quali l'autrice osserva svolgersi la vita e la storia senza interferire dall'esterno, una naturale e cosciente predilezione sembra portare la Deledda verso i vinti, verso i più umili, verso coloro che hanno vissuto un'esistenza più avara e che aspirano ad un cambiamento, ad un miglioramento. Ella assegna ai servi, alle serve, agli umili, agli studenti, un ruolo nell'ambito della società sarda in crisi; la sua simpatia è rivolta a questi personaggi che portano fermenti nuovi e che, pagando di persona, testimoniano la necessità di una vita individuale e collettiva più giusta.

Importante ricordare che il suo modo di prospettare la concorrenza degli istinti ha una attendibilità che trova conferma nel pensiero scientifico successivo. Anna Dolfi, nei suoi saggi, propone un interessante confronto tra la psicologia deleddiana e il

pensiero di Freud, notando che, per certi aspetti, le due concezioni, riguardo alla psiche umana, sono molto simili.

2.2 Romanzi sardi e no.