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L’amore è uno dei temi principali che caratterizza questo romanzo. Già dal primo capitolo viene descritta minuziosamente la passione che travolge Olì e il mezzadro Anania. La giovane rimane immediatamente colpita dalla dolcezza del rozzo contadino e dal tipo di vita che egli conduce:

" Il servo prese Olì per la vita, la sollevò, chiuse gli occhi e la baciò; e da quel giorno i due giovani s’ amarono selvaggiamente, diffondendo il segreto della loro passione alle macchie più silenziose, ai cespugli della riva, ai neri nascondigli dei nuraghes solitari. Oppressa dalla solitudine e dalla miseria Olì amava il giovine per ciò che egli rappresentava, per le cose e le terre meravigliose che egli aveva vedute, per la città dalla quale veniva, per il ricco padrone che serviva, per i fantastici disegni che egli tracciava nell’avvenire;ed egli amava Olì perché era bella e ardente:entrambi incoscienti, primitivi, impulsivi ed egoisti,si amavano per esuberanza di vita e per bisogno di godimento." 10

Rosalia, costretta ad una vita di miseria e ristrettezze, è attratta da Anania e da ciò che egli pare offrirle e si abbandona tra le sue braccia, ignara delle menzogne del giovane.

Anania le ha mentito sulla sua vera identità, su un benessere economico che non esiste e soprattutto non le ha rivelato il proprio matrimonio con una donna più anziana di lui. Rosalia continua ad amarlo e a dargli fiducia nonostante le continue bugie di un uomo pronto ad ingannarla. Ella disubbidisce al padre continuando la relazione amorosa con Anania. Egli abbandona Olì, con il bambino in grembo, presso una vedova di Fonni.

La relazione tra i due non è ammessa dalle leggi che regolano il mondo sardo, il padre di Rosalia non è disposto a perdonare il disonore che la figlia ha recato all’intera famiglia.

Anche Anania (figlio) a Nuoro conosce Margherita Carboni, figlia di un ricco proprietario terriero che offre lavoro a suo padre, e se ne innamora perdutamente. Il rapporto tra i due diventerà ben presto una storia solida, fatta di passione e di incontri segreti. Anania nutre il desiderio di poterla sposare nonostante il divario sociale che li separa, mentre Margherita si rivela una donna arida ed egoista.

Per questo motivo il giovane Anania, seppure invaghito della bella Margherita, interrompe la loro relazione nella convinzione che, avendo ideali differenti, essa comunque sarebbe terminata.

I personaggi deleddiani sono costretti a vivere amori fallimentari, queste forti passioni che li sconvolgono risultano essere dolorose eppure difficili da evitare. Amori proibiti, che non rispettando i canoni della società sarda non hanno mai un lieto fine per colui che li vive e li affronta.

L’ abbandono è il motivo centrale di tutto il romanzo e condiziona le vite dei singoli personaggi.

accetta il mancato rispetto delle norme comuni. Tutto ciò la fa apparire una donna fredda, che nella sua disperazione non è in grado di amare il piccolo Anania e si lascia andare a uomini che non la rispettano e la umiliano.

Ella non riuscirà a perdonare al mezzadro di averla ingannata e non aiutata a crescere il frutto del loro amore.

Anania (figlio) è costretto a trascorrere l’ infanzia con il padre, poiché Rosalia lo lascia a Nuoro senza più tornare a cercarlo. Per il bambino la ricerca della madre diventa un’ossessione che non smette mai di tormentarlo. Sappiamo come egli si trasferirà prima a Cagliari poi a Roma, desideroso di rincontrarla.

Anania non accetta di essere stato abbandonato e ciò suscita in lui sentimenti contrastanti; da un lato si sente in dovere di ritrovarla per salvarla dalla perdizione e per capire le motivazioni che l’hanno spinta a lasciarlo con il padre facendo perdere le sue tracce; dall’altro le serba rancore per tutti gli errori che ha commesso e arriva addirittura a sperare che sia morta, in modo da potersi emancipare definitivamente dalla vita precedente di cui avverte costantemente il peso.

Anania spesso risulta confuso, in balia di stati d’animo opposti; sente la necessità di rivederla e portarla con sè, contemporaneamente teme che un ricongiungimento con la madre possa ledere la relazione con Margherita. Alla fine scoprendo l’egoismo della ragazza scopre la forza del sentimento autentico e sceglie - inutilmente ormai - di restare con la povera Rosalia.

Oltre l’abbandono, la colpa e l’espiazione sono le altre tematiche fondamentali sviluppate in quest’opera, riprese dalla scrittrice anche nei lavori successivi, dove il senso di colpa viene vissuto in modo tragico dai personaggi che riescono a liberarsene soltanto a prezzo di un lungo cammino di pentimento e sofferenze. La colpa più evidente è quella che grava su Rosalia la quale risulta profondamente

segnata dalla vita e pentita di aver abbandonato Anania, nonostante questa sia stata una scelta fatta per amore.

Nel capitolo conclusivo si nota il rimorso della donna, mediante le parole che pronuncia durante il confronto con il figlio: " - Ascoltami- disse Olì animandosi,-

non adirarti, tanto ormai la tua collera è inutile. Il male è fatto e nulla più lo può rimediare:tu puoi uccidermi, ma non ne ritrarrai alcun benefizio. L’unica cosa che tu possa fare è di non occuparti di me. Io non posso restare qui: me ne andrò e tu non udrai più mie notizie. Figurati di non avermi mai incontrata…"11

Rosalia non riesce a perdonarsi l’aver abbandonato il figlio tanti anni prima, il dolore per tale scelta continua a perseguitarla, anche se essa è stata dettata dal voler riservare un futuro migliore al piccolo Anania. Quando lo ritrova ella percepisce il rancore che il giovane uomo nutre verso la propria madre e ciò riaccende nella donna un forte senso di colpa. Olì prega Anania di lasciarla tornare alla propria vita, consapevole di non poter ottenere il perdono.

Anania viene sopraffatto dal senso di colpa quando vede la madre priva di vita, in quel momento ripensa all’aggressività con cui l’ha umiliata nei giorni precedenti e si sente in parte responsabile per il gesto compiuto dalla povera donna:

“ Ella è morta disperata, disse poi, ed io non le ho detto una sola parola di

conforto. Dopo tutto ella era mia madre, ed ha sofferto nel mettermi al mondo. Ed io… l’ho uccisa… ed io vivo!”12

Anania è turbato per la scena che è costretto a vedere. Osservando il corpo di Olì, deturpato dalla ferita, il giovane ripensa alla durezza delle parole rivolte alla madre e non può trovare pace.

I personaggi deleddiani avvertono il bisogno di espiare i peccati commessi cercando

11 Grazia Deledda, Cenere, pp. 219-220. 12 Grazia Deledda, Cenere, p. 245.

di infliggersi delle punizioni severe.

Rosalia non vuole ostacolare la felicità del figlio, ferendolo per la seconda volta, spera che possa dimenticarla e vivere spensieratamente. Così implora il figlio di abbandonarla per sempre: “ Io andrò lontano, cambierò nome, sparirò portata via

dal vento. Basta il male che ti feci involontariamente...sì… involontariamente; figlio mio, io non voglio farti più del male, no. Ah, come una madre può fare il male a suo figlio? Lasciami andare.”13

Olì compie un gesto disperato sperando che Anania possa proseguire i propri studi e avere un futuro migliore rispetto a quello che avrebbe potuto avere con lei accanto. La figura di Dio caratterizza gran parte dei romanzi deleddiani assieme all’esistenza di forze che condizionano prepotentemente la vita dei singoli individui.

E’ interessante notare come i personaggi si rapportino alla sfera religiosa e, in particolar modo, come vivano la presenza di Cristo durante la loro esistenza.

In quest’opera, a differenza di altre, Dio e il Fato corrispondono pienamente e non si mantengono su due piani distinti. Scorrendo alcune pagine del testo si individuano punti nei quali le due identità prendono consistenza: "Ma quando la vedova sollevò

un dito e disse solennemente :- Tutto sta nelle mani di Dio! Figlio, c’è un filo terribile che ci tira e ci tira. Forse mio marito non avrebbe voluto lavorare,e morire nel suo letto, benedetto dal Signore? Eppure!... Così di tua madre! Ella certo avrebbe voluto lavorare e vivere onestamente...Ma il filo l’ha turata...[…]

Ella seguì la sua fatale via. Mi disse,- e piangeva, poveretta, piangeva da commuovere le pietre,- che cercò sempre del lavoro, ma che non poté trovarne mai. E’ il destino, te lo dissi! Il destino che priva del lavoro certi esseri disgraziati, come ne priva altri della ragione, della salute, della bontà. L’uomo e la donna

inutilmente si ribellano. No avanti, morite, crepate, ma seguite il filo che vi tira." 14

La vedova narra al giovane tutti i sacrifici che Rosalia ha affrontato, per amore del figlio. Una donna in balia degli eventi, alla quale il destino non ha riservato nessun privilegio.

Di seguito Anania, dopo aver lasciato Margherita, si sfoga sapendo che le condizioni della madre si sono aggravate:

“ Ah, io sono ben più vile; cento volte più vile di lei. Ma posso io sentire altrimenti?

Qual turbine di contraddizioni spaventevoli, qual forza malvagia trascina e contorce l’anima umana? E perché, anche comprendendo e aborrendo questa forza, non possiamo vincerla? Il Dio che governa l’ universo è il Male, un Dio mostruoso che vive entro di noi come fulmine nell’aria. E chissà, forse, mentre io mi rallegro per la probabile morte di quella disgraziata, questa potenza infernale che ci opprime e ci deride fa migliorare l’infelice, e la farà guarire per mio castigo.”15

Questo Dio deleddiano muove, tramite un filo, gli individui a suo piacimento, essi non hanno alcun potere di opporsi al volere divino e sono costretti ad accontentarlo. Il Signore diventa l’unico regista dei destini umani, per questo Anania lo definisce un Dio mostruoso, una forza infernale.

Giorgio Bàrberi Squarotti ha dimostrato come il tema del viaggio sia ricorrente nella narrativa deleddiana, inteso sia come spostamento fisico vero e proprio, sia come movimento del pensiero da un luogo all’altro. Tra le parti fondamentali della struttura romanzesca deleddiana abbiamo l’espiazione, come tappa indispensabile per ristabilire l’ordine sociale. L’espiazione, secondo Giorgio Squarotti, “si attua

per lo più attraverso i modi del viaggio ( reale o interiore e svolto nella

14 Grazia Deledda, Cenere, pp. 201-202. 15 Grazia Deledda, Cenere, pp. 240-241.

coscienza).16

Il viaggio in Cenere, secondo Giorgio Squarotti, è rappresentato sia dalla ricerca, tra le campagne sarde, del figlio Anania da parte di Olì, che lo ha abbandonato per miseria, sia dal trasferimento del giovane a Roma per ritrovare la madre.

Il viaggio diventa il percorso- pellegrinaggio che permette al protagonista di compiere l’espiazione delle proprie colpe. La maggior parte di questi personaggi vive l’espiazione come un tragitto alla ricerca di una guarigione per la coscienza malata.

Il viaggio è vissuto come una fuga, come necessità di spostamento da un luogo di costrizione a uno spazio di libertà, di novità. Esso è una necessità fisica e psicologica di distacco dall’ambiente fanciullesco. Con il trascorrere degli anni il bisogno di evasione e di ricongiungimento con Rosalia si fa sempre più forte. Anania è desideroso di scoprire sia il proprio io che la propria origine, rappresentata dalla madre impura.

L’addio, ricalcato sul celebre congedo manzoniano nel capitolo ottavo dei promessi sposi, sembra essere un distacco finale dal luogo che fino a quel momento lo ha protetto e amato. Anania, rispetto a Lucia, fugge per una spinta interiore e non a causa di forze esterne. Leggiamo il passo: “ Addio, addio, orti guardanti la valle;

addio scroscio lontano del torrente che annunzia il tornar dell’inverno; addio canto del cuculo che annunzia il tornar della primavera; addio grigio e selvaggio Orthobene dagli elci disegnati sulle nuvole come capelli ribelli d’un gigante dormente; addio rosee e cerule montagne lontane; addio focolare tranquillo e ospitale, cameretta odorosa di miele, di frutta e di sogni! Addio umili creature inconsce della propria sventura, vecchio zio Pera vizioso […] gente tutta infelice o

16 Giorgio Bàrberi Squarotti “ La tecnica e la struttura del romanzo...” in atti del Convegno nazionale di studi deleddiani, Nuoro 1972, Editrice Sarda Fossataro.Cagliari, pp. 129-154.

spregevole che Anania non ama ma sente attaccata alla sua esistenza come il musco alla pietra, gente tutta che egli abbandona con gioia e dolore! E addio dolcezza e luce sopra tanti oscuri dolori, arcobaleno incurvato come vernice di perle sul quadro screpolato di una miseria antica ed eterna,- Margherita, addio! Addio, addio […] Addio dunque, terra natia, isola triste, antica madre amata ma non abbastanza perché una voce potente d’oltre mare non strappi i tuoi figli migliori dal tuo grembo, incitandoli a disertare, come aquilotti, il nido materno, la roccia solitaria.

Addio, addio, terra d’esilio e di sogni!”16 bis

Nel giovane protagonista permane un sogno di redenzione della donna, che accompagna il suo ossessivo vagare verso l’esterno. Per riscattarsi dal peccato materno, Anania tenta perfino un matrimonio endogamico con Margherita, figlia del suo padre spirituale, al quale rinuncerà per amore di Olì.

La morte della madre, respinta a livello cosciente, e desiderata e sperata dall’inconscio, sarà la conferma di un impossibile ritorno alle origini. Il giovane proverà un forte rimorso e senso di colpa per questo gesto estremo.

La nostalgia per il ritorno alle origini nasconde il desiderio del recupero della comunione biologica con la madre e la pulsione amorosa viene sublimata nell’espiazione della morte, eterno connubio di Eros e Thanatos.

Il figlio nutre per la madre un sentimento duplice di odio e amore; odio per essere stato abbandonato e per la vita che la donna conduce, amore perché egli è consapevole che Olì lo ha abbandonato per garantirgli un futuro migliore.

Il tentativo di salvezza è divenuto, per la donna, motivo di dannazione; ed è su questo punto che agisce il rimorso di Anania, anche se contestato a livello cosciente.

Il suicidio di Rosalia, secondo Anna Dolfi17, è l’ ultima salvezza concessa a liberare

il figlio dalla colpa di un omicidio pensato come cancellazione auto-responsabile di un ostacolo che urgeva spostare.

Anna Dolfi vede in Cenere anche il tema del tesoro da reperire. Anania ( figlio) cerca disperatamente qualcosa per tutto il romanzo (la madre), come qualcosa cerca anche il padre ( denaro e pietre preziose), entrambi ossessionati dalla ricerca. In ambedue essa è motivata dal distacco e dalla lontananza di Olì.

In Cenere è presente una sorta di incesto, come tendenza a ritornare all’infanzia, come dilatazione junghiana di un primitivo meccanismo freudiano, nel desiderio simbolico di una ricongiunzione possibile col principio generatore iniziale.

Margherita non può più essere amata, perché una nuova e riscoperta tensione preferisce un oggetto interno che riappare, riemergendo dal fondo oscuro degli anni trascorsi, dalle profondità dell’inconscio: la figura della madre diventa l’unico obiettivo da ritrovare e salvare dalla perdizione.

L'opera deleddiana testimonia di un interesse sistematico della scrittrice per la ricerca demologica. La miserevole condizione dell' uomo “essere destinato alla morte”, e la sua insondabile natura che agisce, lacerata tra bene e male, predestinazione e libero arbitrio, entro la limitata scacchiera della vita, segnano la pagina deleddiana. Una vita considerata come affanno e dolore, ma anche provvidenza e mistero. Leggiamo gli atti del Seminario di studi "Grazia Deledda e la cultura sarda fra '800 e '900"

in

Grazia Deledda nella cultura sarda contemporanea :

“La Deledda aveva compreso quale fosse il motore della vita e quale la condizione

dell'uomo, per cui gli spazi della libertà sono minimi, quelli della giusta verità

enormi, seppure difficilmente calcolabili o prevedibili. Che equivale a mettere subito nel conto un altro dato, quello del mistero, quello della religione naturale che direttamente o no, prima o dopo finisce per fondersi con il sentimento della vita, con l'amore della vita. Tutto questo le ha consentito di sfuggire alle tagliole delle mode e delle leggi stesse della letteratura allora vincente”

La coscienza del peccato e dell'amore si accompagna al senso di colpa, alla necessità di espiazione e del castigo, la pulsione incontrollata delle passioni segna l'esistenza di un'umanità primitiva gettata in un mondo incontaminato e di grande bellezza. La scrittrice è consapevole che la natura umana è una manifestazione dell'universo psichico abitato da pulsioni e rimozioni. Ciò che per altri iniziava ad essere la psiche per la Deledda era semplicemente l'anima. L'anima diviene un luogo di esperienza interiore dalla quale riaffiorano ansie e inquietudini profonde, impulsi proibiti che recano angoscia e dolore. Da una parte abbiamo i divieti sociali, gli impedimenti, le costrizioni e le resistenze della comunità d'appartenenza, dall'altra maturano nell'intimo altri pensieri, altri ricordi, altre visioni. Per la Deledda la tentazione non è esclusivamente la provocazione dei sensi, ma la prova dell'anima, il fatto decisivo della vita. Questo è il tema che ci permette di dimostrare la attenzione della scrittrice verso il tema morale.

Durante l'esistenza, insieme allo slancio vitale si accompagna la prostrazione della sofferenza provocata dal male e spesso dall'immagine incombente della morte. Eros e Thànatos sono sempre in contrapposizione dialettica. L'io narrante, che media tra bisogni istintuali dei personaggi e contro tendenze oppressive e censorie della realtà esterna, si impegna a rivestire il ruolo del demiurgo onnisciente, arbitro osservatore neutrale delle complesse dinamiche di relazione che intercorrono tra i protagonisti del dramma esistenziale. Spesso l'adesione o la ripulsione della autrice rispetto a questo o a quel personaggio è ben visibile.

La pietas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, come comprensione delle fragilità e delle debolezze umane, come sentimento misericordioso che induce comunque al perdono e alla riabilitazione di una comunità di peccatori con un proprio destino «sulle spalle» rende la Deledda una donna di grande sensibilità ancora prima che una grande scrittrice. In una lettera del gennaio 1905 a Monsieur L.De Laigne, console generale di Francia, ella afferma: “Ho una grande pietà, una infinita misericordia per tutti gli errori e le

debolezze umane […]. Per me non esiste il peccato, esiste solo il peccatore, degno di pietà perché nato con il suo destino sulle spalle. La mia pietà, però, non mi impedisce di essere pessimista, e da questo miscuglio di sentimenti io credo nascano i personaggi poco allegri dei miei racconti, e la mia...pretesa semplicità di vita intima.”17 bis.

In realtà la scrittrice a nessun personaggio nega interamente comprensione.

Altro motivo centrale della concezione deleddiana è certamente la donna sia essa madre, sposa, figlia, sorella, amante… Donne, quelle narrate da Grazia Deledda, istintive e solitarie per il loro carattere, arrendevoli e deluse per i loro comportamenti, colpevoli e cambattive per le loro delusioni d’amore, ma anche ambiziose, coraggiose, determinate nel portare avanti i loro progetti e i loro sogni, che popolano il mondo rappresentato dai racconti brevi e dai romanzi più famosi come Cenere.