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La struttura del romanzo deleddiano.

Per descrivere le strutture del romanzo deleddiano è doveroso rifarsi al saggio di Giorgio Bàrberi Squarotti, Strutture e tecniche del romanzo deleddiano64, nel quale

si spiegano dettagliatamente tutti i vari aspetti che caratterizzano la scrittura della Deledda.

Le strutture narrative ed espressive della Deledda sono semplici e compatte, con punte liriche che evidenziano i momenti di tensione morale ed esistenziale. L'ideazione procede per accumulazione di scene, di antefatti, di tradizioni: l'accumulazione si distende in episodi di più alta solennità, si alleggerisce musicalmente nella psicologica di un sentimento, di una passione, nello scontro di passioni e dà luogo al momento centrale in cui il personaggio è travolto da una forza fatale o da una potenza misteriosa.

Il romanzo deleddiano rientra a buon diritto, ed è fin troppo facile dirlo, nella struttura monologica del romanzo anteriore alla grande esperienza europea di Proust, Joyce, a quella italiana di Svevo e Pirandello. Secondo l'opinione di Giorgio Bàrberi Squarotti, nel saggio Strutture del romanzo deleddiano (saggio che espone tutte le principali caratteristiche del romanzo deleddiano a cui io faccio riferimento), gli elementi principali da analizzare al suo interno sono: la descrizione dell'oggetto naturale presenta, nel romanzo deleddiano, una serie di modalità che sembrano tutte giungere a una straniazione rispetto al movimento narrativo. Paesaggio e personaggi spesso sono contrapposti, senza che si formi una stretta relazione tra la descrizione esterna e quella interna. Il linguaggio della descrizione tende verso il sublime che lo distacca dal resto della narrazione. La descrizione diventa una celebrazione lirica, che tende all'assoluta autonomia. Ciò che è narrato è pensato dall'indugio sul

64 Giorgio Bàrberi Squarotti, Strutture e tecniche del romanzo deleddiano, in atti del Convegno nazionale di studi deleddiani, Nuoro 1972, Editrice Sarda Fossataro.Cagliari.

paesaggio, che si risolve nella composizione verbale, astratta dai riferimenti con il movimento fattuale o psicologico. La lirica avvalora le vicende narrate. In questo modo ogni responsabilità ideologica non viene attribuita all'ambiente che fa da sfondo alle azioni. La descrizione di Grazia Deledda è un fatto di stile, non una presa di posizione di idee: non vuole suggerire l'esemplarità e l'autenticità riservate alla natura di fronte ai personaggi intesi alle loro vicende, immersi nella società, nei rapporti, resi concreti in qualche modo nella storia. Anche nella più semplificata presentazione di una scena o di una situazione, la descrizione assume un carattere contemplativo, simile ad un idillio, che la strania dal narrato più che situare quest'ultimo in un tempo e in uno spazio determinati, precisi e conclusi.

Il tempo e lo spazio non sono affidati all' incardinamento descrittivo delle vicende narrate in un paesaggio sardo preciso, in un mondo determinato, in una storia: Spazio e tempo sono separati dalla sequenza degli eventi e non si integrano mai. La contemplazione e la descrizione si volgono verso il lirismo puro, l'edonismo , l'idillio, anche durante le situazioni di più accesa tensione e di fatti obiettivi.

Grazia Deledda prende spunto dai moduli della pastorale letteraria, poiché la descrizione idilliaca, che si distacca dal rapporto con i personaggi, cerca spesso di assumere l'immobile fermezza del disegno tradizionale della lirica pastorale.

Nella maggior parte delle sue opere la realtà è sublimata nell'idillio, a definire ancora una volta la voluta straniazione dell'azione dallo spazio effettivo di natura concreta, lo stacco del momento contemplativo da quello narrativo, le indicazioni della civiltà pastorale sarda vengono così trasferite al livello della letteratura pastorale di pura tradizione arcadica.

In Canne al vento il paesaggio è definito nei termini lirici che la Deledda gli assegna: non si tratta esclusivamente del lirismo autonomo, in cui si esercita una

sapienza della letteratura che tenta di rendere più bella la pagina, ma la descrizione del luogo si sfuma e si confonde con le caratteristiche del protagonista, Efix, si arricchisce degli elementi che lui stesso vede intorno a sé, Efix gestisce il paesaggio come proprio spazio di vita ed esperienza.

La contrapposizione meccanica ed esterna tra azione e contemplazione, l'applicazione del paesaggio alla dimensione della “letteratura pura”, la lettura dell'ambiente come animazione dei fantasmi interiori, sono i tre livelli d'uso della descrizione nel romanzo deleddiano: anche in Canne al vento, il luogo non svolge mai una funzione ideologica, non definisce uno spazio inconfondibile, una cornice dalla quale non è possibile distaccare l'azione.

L'unica differenza tra Canne al vento e gli altri romanzi consiste nella diversa direzione che è attribuita dalla scrittrice al lirismo descrittivo: nel primo testo prevale un lirismo d'anima, di invenzione fantastica di sogno che si contrappone al più diffuso lirismo descrittivo. Nel discorso narrativo della Deledda la descrizione paesaggistica rimane soprattutto un fatto d'ornamentazione.

Il dialogo deleddiano si scontra con l'impasse di un discorso narrativo che, da un lato, prova a recuperare per ogni momento o intenzione o situazione il livello della comunicazione civile, borghese: dall'altro, evita gli elementi del dialetto, delle specificità locali. Non accoglie in nessun caso la sublimazione linguistica di D'Annunzio né la misura uniforme della lezione manzoniana.

Molto significativo è il momento del commento intorno ai personaggi rispetto al dialogo, poiché tale commento pausa in lunghi indugi le battute e le separa per togliere loro rilevanza e intensità. Spesso l'azione, che pare occupare uno spazio notevole per la presenza ingente di verbi, in realtà è tradotta nei termini delle reazioni dei personaggi. Può accadere che il dialogo si risolva in una serie di parole

astratte, insignificanti, a cui invano si cerchi di dare forza mediante la forma interrogativa, esclamativa o nominale. Non si tratta di un dialogo realista né di un dialogo che contenga significati profondi, allusioni, intenzioni, ragioni ulteriori, al di là del detto, verso l'inespresso: è quasi sempre una didascalia, la risposta a un canone narrativo, che si esplica nella forma più generica. Ciò che ha valore è il discorso riguardo alle reazioni dei personaggi al reciproco contatto, dove si trova l'effettiva sapienza demiurgica della scrittrice; é il commento della coscienza nella quale si risolve la stessa azione. In alcuni casi il dialogo ha esclusivamente funzione informativa, cioè deve render noti certi avvenimenti che sono accaduti al di fuori del personaggio che racconta. Nasce di qui il carattere puramente espositivo delle battute, a botta e risposta, come in un interrogatorio. Il dialogo non rappresenta il punto di interesse della scrittrice, poiché è legato alla pura convenzione narrativa che lo impone, non alla scelta. Esso presenta il consueto carattere di distacco dalla situazione narrata e dalla condizione dei personaggi, ma anche da ogni sublimazione verbale, da ogni esasperazione di forme o di immagini. In altri casi il dialogo è una rivelazione oracolare, che si stacca dal vero e proprio dialogato per apparire come sentenza assoluta, giudizio definitivo, illuminazione aspra e violenta di situazioni morali. Questo acquista incisività là dove, in un certo modo, si potrebbe dire che cessa d'essere scambio effettivo e serrato di battute, e diventa serie di affermazioni relative, ciascuna in sé rilevata e , anche, scandita e separata.

Per concludere, il dialogo come parlato, come scambio drammatico, come necessaria oggettivazione dei personaggi da parte di un narratore che affida la propria potenza di demiurgo alla registrazione di ciò che è detto, e all'ascolto di ciò che è significato ed esposto al di fuori, piuttosto che all'esposizione della coscienza e del pensato, rimane estraneo alla Deledda: se la scrittrice vuole affidare a singole

battute o a serie di battute una funzione particolare e rilevata, tale operazione è compiuta in qualche modo estraendo le battute stesse dal dialogo, ovvero dissolvendo il dialogo in ciò che ha di specifico, nello scambio e nella comunicazione reciproca dei personaggi che vi parlano. Contemporaneamente, la Deledda non giunge mai a risolvere il dialogo in orazione, come in D'Annnunzio, o in autogiustificazione continuata, come accade in Pirandello. Da qui deriva la scelta di modi neutri, conservativi allo stato borghese, che la scrittrice sceglie per le parti dialogiche dei suoi romanzi, rilevandoli poi con le forme extragrammaticali, che devono simularne l'effettiva pronunciabilità, delle interrogazioni, delle sospensioni, delle esclamazioni. Questo ci permette di constatare che il romanzo non si svolge nell'estrinsecazione dei personaggi, non nel parlato né nel realismo obiettivo delle situazioni. Ciò che esprimono i personaggi proviene dalla loro interiorità.

I fatti sono destituiti di valore effettivo, con uno stacco nettissimo non solo dalle forme realiste e veriste, ma anche dal gusto esortativo del D'Annunzio delle novelle, dove gli eventi sono celebrati nei più piccoli dettagli.

Ciò che interessa alla Deledda non è l'irripetibilità della situazione, da cogliere ed indicare nella sua specificità, ma al tempo stesso da definire nel ritmo di una lunga preparazione di cause e premesse che lo hanno condizionato, e neppure è l'azione in sé, come estrinsecazione esemplare, clamorosa, di impulsi, ragioni esistenziali, morali, sociali o psicologiche: è bensì l'alone che avvolge l'evento, che lo circonda di valutazione etica oppure il ritmo dell'itinerario di coscienza nel quale è inserito. Le azioni perdono di rilievo, rimane piuttosto indicata la loro continuità che ha significato nell'accumulo di iterazioni. Quasi tutte rappresentano l'azione ripetuta, la consuetudine del gesto che si ripropone sempre uguale.

di una determinazione storica dell'evento, che è respinto come su un fondale.

Nella conclusione tragica di Cenere l'evento atroce (la madre di Anania, Olì, che si taglia la gola per liberare dalla propria presenza ingombrante il figlio amato) è affidato nella parte d'azione, al racconto di zia Grathia, la vecchia che ha assistito al susseguirsi degli ultimi tragici gesti della donna. Il modo indiretto con cui l'azione è presentata ne evidenzia la crudeltà, l'inumanità, la violenza, e, al tempo stesso, offre la possibilità di determinare come effettivo punto nodale della narrazione la crisi di Anania: il quale non assiste all'evento, ma alle conseguenze di esso

(“ Anania si avvicinò subito al letto, e cautamente, quasi temendo di svegliarlo,

scoprì il cadavere. Una benda coperta di macchie già secche di sangue nerastro fasciava il collo,passava sotto il mento e sulle orecchie e si annodava fra i folti capelli neri della morta; in questo cerchio tragico il viso di lei si disegnava grigiastro, con la bocca ancora contorta per lo spasimo: attraverso le grandi palpebre socchiuse si scorgeva a linea vitrea degli occhi. Anania capì subito che Olì s'era recisa la carotide...”), anche in questo modo rendendo più immediata la

crisi morale, che costituisce così la sigla del romanzo, il centro dell'interesse della Deledda.

Il fatto è rappresentato come iterazione o come già accaduto, nel racconto del testimone o del messaggero oppure nelle estreme conseguenze: l'attenzione è allontanata dalle circostanze e dalla rilevanza attuale del fatto, e può essere spostata agevolmente sulle conseguenze, che rappresentano la crisi della coscienza, recitano la conclusione dell'itinerario morale, significano l'autentica sentenza, il giudizio definitivo che stabilisce le ragioni dell'operazione narrativa.

L'evento clamoroso è un grido che è subito soffocato mediante una serie di strumenti diversivi: per questo motivo anche i fatti più atroci, come il suicidio di

Olì, appaiono come destituiti d'orrore in quanto non possiedono una verità autonoma, e rappresentano richiami violenti e brutali per determinare quella crisi della coscienza o l'itinerario dell'anima che è il vero interesse della scrittrice.

In alcuni romanzi assistiamo a un tipo di narrato più semplice: una sequenza di gesti, di situazioni semplificate, quotidiane, con una punta di cronaca familiare, di un eccessivo patetico gusto degli umili e dell'umiltà delle vicende di ogni giorno. La Deledda vi indugia spesso: ma per una necessità di riempire la struttura narrativa, che si rivela una ricerca appassionata dei significati della coscienza, delle possibili manifestazioni dell'itinerario morale dei personaggi, ai quali soli è ordinato l'intero impianto romanzesco.

Il narrato minuto e lineare rappresenta per la Deledda la trama entro cui ella ricerca lo scatto in luce dei significati di coscienza, dei moti morali, delle avventure dell'anima. Le interessano le rotture in questa trama continua di vita e di azioni, da cui possono nascere rivelazioni, spie, annunci: le rotture sono continuamente sollecitate, ogni minimo gesto è sottoposto a una sorta di inchiesta perché riveli quello che significa, al di là del fenomeno, non tanto riguardo alla psicologia dei personaggi ( che è spesso elementare), quanto a una serie di esemplari schemi o funzioni del comportamento morale.

Il romanzo deleddiano tende ad una conclusione ad effetto, ovvero finisce in climax abbastanza costantemente. La Deledda sceglie di concentrare nella conclusione il nodo tragico delle vicende, il fatto clamoroso, l'evento sconvolgente. Il romanzo deleddiano non è ordinato secondo un effettivo movimento di esasperazione e di aggravamento delle situazioni: l'evento conclusivo ha, quasi sempre, il sapore di un colpo di scena. L'assenza di una vera e propria trama di eventi esteriori durante il romanzo fa sì che la conclusione appaia, nella sua violenza, quasi gratuita. La

scrittrice priva l'evento finale di ciò che può avere di troppo aspro e immediato con il riferirlo mediante un messaggero o un informatore, oppure con il riportarlo immediatamente al problema della coscienza dei personaggi.

Grazia Deledda opera in un tempo in cui la struttura romanzesca, pur essendo in crisi, non è completamente esplosa: il fenomeno clamoroso e tragico, chiamato a concludere la vicenda, rappresenta la risposta ad una concezione chiusa della struttura del romanzo, che deve appuntarsi a una crisi decisiva, capace di definire la sorte dei personaggi, cioè di portare a termine l'itinerario spirituale e morale che ne costituisce l'effettivo divenire. Le morti finali servono per informare che il viaggio della coscienza è concluso.

La Deledda non può ancora concepire il romanzo come un continuum, che non ha la necessità di cercare nell'evento esterno alla narrazione un'indicazione di lettura, un segno conclusivo. L'evento tragico, la morte di un personaggio, rappresentano la volontà di concludere la vicenda. Per la scrittrice non è sufficiente la semplice indicazione della direzione dell'itinerario dell'anima, ma chiede aiuto alla metafora esterna dell'evento di rottura per rendere più persuasiva la crisi decisiva del personaggio. Le ultime parole dei romanzi deleddiani hanno costantemente un carattere parenetico, di ammonimento e dimostrazione che ritorna esatta, dopo la crisi decisiva dell'evento funebre. Esse possiedono i termini più generali della vita e della morte, dell'orrore e della speranza, del dolore e della purificazione, del bene e del male, in una trama che li intreccia come nella sublimazione della sentenza finale che raccoglie il senso morale dell'intera esposizione narrativa. Si tratta di una catarsi che nasce da un epilogo che si fonda sui termini estremi dell'etica e del sentimento, della coscienza e dell'esperienza morale e presenta i caratteri di un'elevazione forzata di modi, di toni e forme.

regolare della forma dell'apologo, che prevede l'infrazione, autentica o supposta, l'espiazione, che si attua per lo più attraverso i modi del viaggio ( reale o interamente interiore o svolto nella coscienza), e la redenzione che giunge, in modo gratuito, nel senso che purifica soltanto chi è toccato dalla grazia della comprensione di ciò che è accaduto, delle colpe e del dolore. Nasce di qui ciò che è non realistico nella narrativa deleddiana: già, significativamente, avvertito nell'estraneità al grado reale del narrato della descrizione e del dialogo. L'ambientazione regionale dei suoi romanzi non va sopravvalutata. La Sardegna serve anche per rendere, in qualche modo, credibili situazioni morali e conflitti di coscienza: nella sua lontananza quasi planetaria di regione alla quale può essere attribuita la definizione di “primitivo”.

La Deledda ebbe ambizioni ben più alte rispetto al verismo di ambientazione regionalista, ella cercò di costituirsi una specie di romanzo-fiaba, capace di manifestare il carattere dimostrativo da lei attribuito alla letteratura, di porlo in evidenza, tanto più rendendo fissa e rigida la struttura quanto sempre meno gli eventi esteriori ma anche i luoghi, il parlato, le apparvero significanti rispetto a l'obiettivo propostosi. La chiarezza della struttura fiabesca le viene meno per l'impossibilità di definire il primo termine della sequenza di funzioni narrative in termini che non siano quelli proposti dalla concezione della coscienza intesa dai contemporanei: l'infrazione le diviene malattia morale, un' inquieta morbosità, che coinvolge tutti i personaggi romanzeschi, sia quelli che sono determinati al compimento dell'esperienza di espiazione e purificazione, sia quelli che svolgono la funzione di aiutanti o di avversari. Il male morale diviene conscio mediante le indagini sul profondo, malattia: da qui deriva il carattere traumatico che essa ha per il personaggio e anche il carattere improvviso e fatale. La linearità dello schema fiabesco non ne viene profondamente turbato, il carattere gratuito della malattia

morale si accorda benissimo con il carattere involontario dell'infrazione dell'eroe nella fiaba: la conseguenza si avverte piuttosto nel punto della soluzione, che è ormai complicata per la scrittrice: la malattia morale contagia indifferentemente servi e padroni, poiché è un trauma sofferto, non distingue per classi o condizioni sociali. Il viaggio è un giro attorno alla propria malattia che il personaggio compie in maniera ossessiva. Questo è il punto inventivo del romanzo deleddiano. In una tradizione narrativa, come quella italiana, nella quale i personaggi compiono pochi “ viaggi” fuori della propria provincia fisica o spirituale oppure dove i “viaggi” sono rappresentati esclusivamente per dimostrare l'orrore, l'ispirazione diabolica che li detta, per sottolineare l'impraticabilità del mondo e la sua malvagità, la Deledda non ha timore di mostrare come il viaggio dei suoi personaggi sia un necessario itinerario d'esperienza; quello di Anania che compie una lunga ricerca della madre fuori del “nido” in cui è stato accolto da bambino, a Roma, fino a ritrovarla e costringerla quasi al suicidio; il viaggio di Olì dopo che ha abbandonato per miseria, il figlio, lungo una Sardegna selvaggia di campi e boschi e lavoro lontano dove sa che si trova il figlio. Sia che essi escano da se stessi in uno spazio oggettivo, sia che compiano il viaggio nella coscienza, i personaggi deleddiani svolgono tutti l'espiazione come esperienza di sé che si traduce nel momento e nell'allontanamento dalla famiglia verso il chiarimento della coscienza malata, che conduce sempre ad una crisi o ad una rottura radicale. Il viaggio è centrale e fondamentale nella narrativa deleddiana e assorbe l'intera struttura del romanzo. L'infrazione, come malattia morale sorta all'improvviso, ha sempre un alone di mistero e consente alla scrittrice la suggestione oscura e inquietante di un orrore interiore, che sta sempre dietro anche all'uomo più sicuro e tranquillo. La purificazione e la salvezza dell'eroe hanno bisogno del richiamo aspro e crudele del dolore e della malattia che il protagonista si porta con sé. É necessario alla struttura di apologo o fiaba che l'eroe riconosca come si è arricchito di nuove

esperienze e conoscenze attraverso il viaggio, lo esprima, ne faccia la ragione del “lieto fine”, inevitabile della struttura fiabesca e morale, dove il percorso dal male al bene, dalla malattia alla sanità deve essere ben segnato. Il protagonista si rende conto del frutto del viaggio, in seguito ad un evento che lo scuote violentemente, mentre dalla parte del lettore la scrittrice pensa di dover attrarre con intensità estrema, con un evento clamoroso, l'attenzione. Lo schematismo del romanzo deleddiano conduce, fra la fine dell'ottocento e gli inizi del Novecento, un poco più in là del naturalismo con strumenti diversi da quelli di Svevo e Pirandello.

All'interno di una costruzione d'apologo-fiaba la Deledda esercita quello che è il