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Carissimi Zoopper,

grazie al fenomeno del web 2.0 e – con somma immodestia – anche grazie a Zooppa sta avvenendo una rivoluzione. Forse non ce ne ren- diamo conto. Siamo qui per ricordarlo, innanzitutto a noi stessi. Siamo qui per ricordare che la creatività è entrata nell’era del mash- up, degli user generated contents, delle reti sociali, della rielaborazi- one infinita, dove internet non è un luogo a sè, è dovunque. E non potremo più tornare indietro.

Siamo qui per ricordare che è in atto un cambiamento epocale nelle relazioni fra le persone, le cose e le idee, in cui tutti i vecchi modelli vengono scardinati e riscritti, e quello che succederà ancora non lo sappiamo. Ma sappiamo che è già successo, mentre lo diciamo. Siamo qui per ricordare che incontrare altri appassionati di advertis- ing, far conoscere le proprie idee a chiunque, condividerle, confron- tarsi, migliorare, sperimentare, divertirsi e promuoversi come creati- vi, prima era impossibile. Oggi non solo è possibile, ma è solo l’inizio. Siamo qui per ricordare che Zooppa e quello che su Zooppa accade

non è assimilabile a nulla di quello che c’era prima di Zooppa: gare creative, ruoli, mestieri, idee… il modello non è ancora stato scritto. Siamo qui per ricordare che la questione dei diritti d’autore è

in evoluzione continua a livello globale, planetario, e che se qualcuno crede di avere la verità in tasca su questo tema si sbaglia.

Siamo qui per ricordare che Zooppa non è una fabbrica di prodotti finiti e nemmeno un laboratorio di idee. E’ entrambe queste cose e nessuna delle due. E’ a tutti gli effetti qualcosa di mai visto prima. Siamo qui per ricordare che prima di Zooppa il mondo della pubblic- ità era diviso in due: le grandi agenzie da una parte, i grandi marchi dall’altra. Oggi c’è un terzo attore, siete voi. E noi siamo con voi, sem- pre, nel percorrere questa avventura.

In Zooppa we trust. Zooppa Staff

4. Crowdcreativity e design della comunicazione

Quello che risulta spontaneo chiedersi è quale risulti essere il ruolo dei professioni- sti, dei grafici, dei creativi e delle agenzia di comunicazione tradizionali al sorgere di questi modelli e come possano questi com- petere con degli strumenti che sembrano offrire un valore aggiunto semplificando un processo che per sua natura deve affrontare dei passaggi non possono certamente essere sviluppati in crowdsourcing. Le questione che è necessario far sorgere sono sia di natura tecnica e riferite al metodo sia di tipo etico. Su daily.wired.it è stato chiesto a Luca Messaggi, ex Managing Deirector Europe di Zooppa, quale sia nello scenario “here comes everybody” del crowdsourcing, il ruolo dei comunicatori professionisti e delle agenzie. La sua risposta è stata:

“Le agenzie andranno avanti: banalmente perché hanno una funzione diversa. Il crowd- sourcing dovrebbe essere la reinterpretazione di un brief, non il ricorrere a gente che si fa pagare meno per produrre uno storyboard già pensato. Una strategia la fai in agenzia: poi si può aprire alla gente, e produrre o anche solo testare tale strategia.”

Questa affermazione però non ha sempre riscontro nella realtà. A tal riguardo, An- tonio Marazza, general manager di Landor Italia, azienda specializzata nella consul- tazione e nell’ideazione di brand si esprime

sul nuovo logo Upim nato da un concorso indetto su Zooppa.it al quale hanno parte- cipato 4.740 utenti e che ha premiato il vincitore Gianni Zardini, grafico freelancer di Verona, con ben 12.000 euro

“L’idea del nuovo logo di Upim non è molto originale: graficamente, il segno che caratter- izza il logo è uguale a quello di Accenture, il cui rebranding su scala globale è stato gestito da Landor nel 2001. Anche la motivazione alla base della scelta è poco convincente: nel caso di Accenture invece c’è un chiaro legame tra posizionamento di marca, nome e identità: il concetto di ‘accento sul futuro’, che riassume la visione di una azienda che mette in pratica l’innovazione per cambiare e migliorare il modo in cui il mondo vive e la- vora. Il caso Upim – ha continuato Marazza - dimostra ancora una volta che non ci sono scorciatoie: la creazione di una identità di marca è una attività strategica, che deve es- sere gestita attraverso un processo collaudato e guidata da professionisti“.

La questione quindi sembra essere da una parte l’approccio corretto ad un progetto di comunicazione e dall’altra il riconoscimento di una professione seria che ha alla base dei processi creativi consolidati per la genera- zione di artefatti comunicativi funzionali, che si scontra con un nuovo modello, più semplificato ma indubbiamente di successo. Secondo molti, questo nuovo modello in realtà non sostituisce completamente quelli precedenti ma vi si affianca aiutando lo svi- luppo di alcune fasi, quelle più creative, che comunque devono partire da una strate- gia aziendale che non può essere gene-rata in crowdsourcing. Spesso però l’intero processo creativo viene affidato ai nuovi modelli di crowdsourcing facendo sorgere alcune criticità che è necessario prendere in considerazione. Quando lo sviluppo di un logo, di una brand identity è guidata da una community libera di professionisti e non, che porta ad un azzeramento dei livelli e che mette tutti i talenti sullo stesso piano si ha una dispersione, piuttosto che una con- centrazione di creatività. Allo stesso modo i gestori della community e delle piattaforme privilegiano spesso la partecipazione rispet- to alla qualità: Alessandro Cappellotto (ai tempi comunity manager di Zooppa Italia) nel video in cui annunciava il vincitore del contest per il logo Upim infatti dice “siamo

contenti della grande partecipazione che c’è stata, sappiamo che c’è stata molta attesa e ci sono state tante aspettative, ci dispiace che solo una persona potrà vincere”. In questo

senso i gestori dei siti di crowdsourcing devono preoccuparsi sia della loro commu- nity e del suo umore, sia dell’effettivo valore realizzato.

Queste piattaforme si sviluppano dunque su due binari paralleli. Da un lato ci sono le agenzie e il cliente e dall’altra parte gli uten- ti e coloro che si iscrivono e partecipano e che danno il loro contributo. Il gestire e mantenere alto l’umore della community è un’attività centrale affidata al community manager in quanto gli utenti sono effettiva- mente la fonte primaria del modello.

In un intervista svolta dal blog Onicedesign, lo stesso Alessandro Cappellotto chiarisce quello che per Zooppa è il rapporto tra aziende, agenzie di comunicazione.

Riportiamo alcuni passaggi come spunti per una riflessione su quale possa essere il rap- porto tra questi nuovi mezzi e la professione del designer:

4. Crowdcreativity e design della comunicazione

E’ presumibile che, dietro ai grandi brand che si rivolgono al crowdsourcing, ci siano grandi agenzie che li seguono da molto tempo. Quale interesse può avere l’agenzia a non gestire interamente il processo creativo e lanciare invece un contest ad una folla di sconosciuti? I motivi secondo me sono almeno due, e sono imprescindibili. Il primo è la strategia. Noi non proponiamo strategie ai nostri clienti; anzi, ai brand che ci interpellano diciamo sempre che per trarre il massimo poten- ziale da Zooppa, la campagna va inserita all’interno di una strategia più ampia, che preveda magari l’uso dei social media, della viralità del web. Ti faccio notare una cosa: i nostri contest, noi preferiamo chiamarli campagne perché l’azione di interrogare una community, di lanciare input in un contesto di spiccata relazionalità e viralità, è già parte di una campagna di sviluppo del brand: e lo sviluppo del brand non può farlo la folla, deve farlo l’agenzia. Il secondo fattore sono i servizi. Quando all’azienda arriva un output creativo da Zooppa va declinato, va adat- tato ai media e ai supporti, va magari rifinito meglio. Può dunque esistere sovrapposizione tra Zooppa e agenzia per l’aspetto stretta- mente creativo, di generazione delle idee: ma tutto ciò che riguarda i servizi e la strategia, assolutamente no....

Ok, la strategia, ma è la fine dei creativi professionisti nelle agenzie?

Certo che no. Intendiamoci: molta creatività potrebbe essere assegnata alla folla. Ma al- cune creatività di alto livello non possono co- munque emergere da una crowd. Ad esempio, per girare uno spot che richiede una execution complessa, l’azienda ha bisogno di profes- sionalità elevate: videomaker, set, produzi- one costosa, modelli e chissà che altro. Una creatività di alto livello, con un’alta compo- nente organizzativa di servizi non potrà che restare in agenzia, ed essere gestita secondo i processi di lavoro che ben conosciamo. Una polemica che sento spesso sollevare riguarda il pricing delle campagna. In- somma, diciamoci la verità: investendo un budget ridotto, alla fine all’azienda restano in mano decine o centinaia di idee e input...

(...) L’obiettivo di Zooppa è il coinvolgimento, prima ancora della generazione di conte- nuti per le aziende. Per questo è importante avere un forum, un blog, la possibilità per gli utenti di commentare i lavori l’un l’altro. Ogni nostro contest diventa così un’occasione di conversazione di massa: chi genera le idee apprezza soprattutto la possibilità di con- frontarsi, di vedere cosa fanno gli altri, di imparare e migliorare se stessi. L’utile per un

utente su Zooppa non è solo il denaro vinto dai premi: è anche la community stessa. Quindi cosa succederà? Le aziende con- tinueranno a speculare su una folla che si fa pagare meno rispetto a un professioni- sta?

Tutt’altro: sono profondamente convinto che, con il crowdsourcing in rapida espansione, i budget delle singola campagna si alzeranno sempre di più. (...) Sta quindi emergendo una concorrenza tra brand... una concorrenza tutta interna al pianeta crowdsourcing, una concorrenza trasversale ai brand, che cercano di contendersi e corteggiare gli utenti della community proponendo campagne sempre più interessanti e con un alto rewarding rispetto ai concorrenti: pena la scarsa parte- cipazione. Le aziende stanno cominciando a rendersi conto che se speculano tenendo i premi bassi, l’engagement della community sarà scarsissimo.

L’iscrizione a queste piattaforme è libera e qualsiasi utente può accedervi e parteci- pare ai contest liberi. In alcuni casi i clienti hanno la possibilità di sviluppare delle call to action chiuse e rivlte solo ad alcuni utenti selezionati, i milgiori, i più premiati o i più selezionati. Inoltre non è obbligatorio fornire le proprie referenze, curriculum o portfolio ed è possibile partecipare ai con- test in forma totalmente anonima.

UserFarm è un progetto di TheBlogTV, fon- data da Bruno Pellegrini in Italia ma attiva anche in Spagna, Francia e Regno Unito. I contest offerti da UserFarm riguardano perlopiù il crowdsourcing audiovisivo. L’azienda ha oggi sede a Londra e conta circa 45.000 filmakers iscritti online da 150 diversi paesi. Il modello seguito da UserFarm non si discosta molto da quello di Zooppa se non in alcuni dettagli:

Intervista a

Alessandro Cappellotto da Masse Creative, Stefano Terragrossa, 2011

4. Crowdcreativity e design della comunicazione

L’azienda (o l’agenzia di comunicazione) ha un’esigenza di comunicazione da soddisfare, stabilisce un budget e si rivolge a UserFarm. L’azienda firma un contratto con UserFarm e interpella pubblicando il contest e il premio finale una community. Seguendo il brief. ciascun utente pubblica la sua propos- ta. La visibilità delle proposte e la qualità della community interpellata vengono de- cise dall’azienda (Si possono quindi attivare call private invitando solo alcuni creativi). Al termine del bando, l’azienda stessa o una giuria per lei (a sua discrezione) valuta la proposta migliore e il vincitore viene premiato.

Logotipo di Userfarm

Quando le piattaforme di condivisione, e crowdsourcing sono legate al design della comunicazione e alla professione del design- er della comunicazione presentano diverse criticità soprattutto per quanto riguarda la modalità dei contest on-line che stiamo prendendo in considerazione. I rischi sono sia per il cliente che per il designer.

Il cliente inevitabilmente rischia in termini di qualità. Il poco tempo e le poche energie che vengono impiegate nella realizzazione di questi lavori rischiano di far scadere l’opera in un lavoro speculativo e di puro esercizio formale. Non è possibile verifica- re la professionalità delle persone che ven-gono interpellate e la comunità on-line non offre un valore verificabile. Inoltre, sempre a causa del poco tempo a dispo- sizione vengono automaticamente chiuse le porte ad alcune delle fasi più importanti del pensiero progettante e della cultura del design: la ricerca, la considerazione pensata di alternative, lo sviluppo di una strategia, il miglioramento del progetto, la verifica di prototipi. Non potendo mostrare lo sviluppo di queste fasi viene sminuito sia il valore economico del contributo dei designer verso l’obiettivo del cliente sia lo stesso ruolo del progetto di comunicazione all’interno di un piano strategico più ampio. I designer rischiano così di essere sfruttati poiché al-

cuni clienti possono vedere questo processo facilitato come un modo per ottenere lavori gratis. A tal proposito la questione della pro- prietà intellettuale e il rischio di plagio sono altre problematiche che vanno considera- te. La facilità d’accesso alle informazioni rende ancora più sfuggevole la questione del diritto d’autore. Tali contest spesso non presentano una regolamentazione adeguata e idonea che possa tutelare le realizzazioni dei designer dallo sfruttamento da parte del cliente e da parte degli altri concorrenti. In molti casi inoltre chi copia o plagia opere altrui all’interno di questi modelli rischia solo la cancellazione del profilo dalla piat- taforma. Spesso non c’è una norma contrat- tuale che tutela legalmente il professionista. E‘ un campo minato sotto diversi aspetti e alcune di queste piattaforme non pre- sentano filtri d’accesso per i professionisti o studenti che vogliano cimentarsi in un concorso e questo porta alla generazione di vere e proprie comunità di profili e designer anonimi che lavorano per clienti e società che non conoscono minimamente. Questo comporta due tipi di problematiche. Innan- zitutto si genera un design spersonalizzato e lontano da ciò che effettivamente deve comunicare, allontanando sempre di più il designer dall’azienda e facendo percepire il rapporto deisnger-impresa e la necessità di

4.5

Un design