1.
Introduzione
I mari del Sud, scritta nel 1930 e dedicata ad Augusto Monti, è la lirica che in entrambe le edizioni curate dall’autore apre Lavorare stanca, la prima raccolta poetica di Cesare Pavese e la più amata dal poeta. La lirica è incentrata sul legame affettivo tra l’autore e il cugino, un dialogo fatto di scarse parole, avvolte da silenzi e ricordi, durante una passeggiata lungo il pendio di una collina. La tematica dominante è quella dell’identità, un’identità remota più dura della pietra e profondamente legata alla terra, alle Langhe, da una forza misteriosa che non può essere scalfita neanche da vent’anni di peregrinazioni intorno al mondo. Proprio la natura di questa forza arcana e recondita affascina Pavese e, insieme al fuggevole e inafferrabile senso dell’esistenza, resta l’oggetto della ricerca incessante condotta dall’autore attraverso la poesia. Questa tensione dell’autore è qui simbolicamente raffigurata dall’ascesa verso la cima della collina.
La lirica segna il passaggio dalla produzione giovanile alla fase matura dello scrittore e riveste un ruolo importante all’interno della raccolta: una funzione proemiale. Rilevante è anche l’investimento autobiografico, dal momento che è costruita su alcuni miti cari all’autore, che traccia una sorta di autorappresentazione del processo di formazione della propria identità. Inoltre resta centrale e costantemente sullo sfondo la tematica che attraversa tutta la raccolta, concernente il paradosso del lavoro necessario per il proprio sostentamento, ma che comporta però la perdita di energie e di tempo e quindi della vita stessa: una sorta di morte figurata.
La mia analisi dei materiali d’autore relativi a questa lirica si articolerà in due fasi, secondo un duplice metodo di approccio: in questo primo capitolo procederò, carta per carta, ad uno studio della micro-variazione che soddisfi i criteri di esaustività propri della filologia d’autore; nel successivo esaminerò le tematiche in germe, gli elementi
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portanti sul cui sviluppo viene costruita la lirica, i cambiamenti strutturali in corso d’opera, ricostruendo geneticamente i processi generali della sua elaborazione.
I documenti che ne testimoniano le diverse fasi redazionali (per la cui descrizione materiale si rimanda alla seconda parte di questo capitolo ) sono essenziali alla ponderata valutazione degli indugi dell’autore e delle soluzioni da lui esperite e trovate. Per quanto riguarda la prima edizione (1936), possediamo della lirica una scaletta preparatoria sul recto della cinquantunesima carta del fascicolo AP X.52, due manoscritti (AP III.1 e FE 5II.38), due dattiloscritti (FE 5II.16 e FE 5II.51), e cinque pagine di un fascicolo che raccoglie le bozze di stampa (AP III.3). Per ciò che concerne la seconda edizione, curata dall’autore nel 1943, esistono cinque carte dattiloscritte, conservate nel fascicolo AP III.5, ed altre cinque di un fascicolo che raccoglie le bozze di stampa (AP III 4).
Il primo documento sul piano cronologico inerente I mari del Sud, la c. 51r di AP X.52, che sarà fondamentale per lo studio dell’evoluzione del progetto della lirica del prossimo capitolo, non viene qui preso in esame dal momento che non costituisce una vera e propria redazione dell’opera, ma solo uno schema preliminare. Si rivelano invece più ricche di testimonianze e quindi più utili in questa fase dell’analisi le carte del primo manoscritto AP III.1, che riportano quella che con ogni probabilità è stata la prima stesura della lirica. Altrettanto importanti sono gli autografi di FE 5II.38, che pur costituendo la copia in bella di AP III.1 non si presentano prive di modifiche e varianti. Di minor rilievo sono invece i dattiloscritti e le prove di stampa, che mostrano pochi ripensamenti significativi, e presentano perlopiù varianti interpuntive o mere correzioni di errori di battitura che non verranno qui analizzati (per la descrizione si rimanda al capitolo precedente).
2.
Descrizione delle carte
Il primo manoscritto: AP III.1 La prima carta (AP III.1.1)
Il recto, datato 7 settembre 1931, riporta il verso d’apertura perfettamente composto e senza varianti, che risalta in confronto al gran lavorìo che la pagina registra ai versi seguenti. Già il secondo verso infatti è stato cancellato per intero.
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Subito dopo questi primi due versi compaiono due grandi parentesi quadre che delimitano porzioni di testo ampiamente cassate. Rappresentano l’elaborazione delle due parti della prima strofa, di cui sono sopravvissuti solo alcuni versi, e che l’autore ha invertito. Verosimilmente Pavese, in seguito alla prima stesura ordinata e lineare, è intervenuto pesantemente, eliminando interi versi, sostituendo alcune porzioni di testo con delle altre e scambiando di ordine, con i conseguenti adattamenti, i versi relativi alla virtù del silenzio scritti per primi con quelli che tracciano un “bozzetto” del cugino, conferendo a questi ultimi priorità e valore.
Il primo indugio di Pavese – che compare subito dopo il primo verso ma che riprende all’inizio del secondo blocco di testo chiuso da parentesi – riguarda il tema del silenzio che non solo accompagna il procedere dei due protagonisti, richiamando uno dei più celebri incipit petrarcheschi, ma diventa una loro caratteristica “ontologica”; forse per questo, dopo aver alternato più volte silenziosi, taciturni e in silenzio, Pavese sceglie poi la forma sostantivale “assoluta” rispetto a quella aggettivale.
All’interno della prima parentesi quadra l’autore si è soffermato sulla scelta delle parole per delineare l’ipotetica figura del capostipite. Proliferano infatti le varianti, quasi tutte depennate: ben triste, ben solo, morto presto, un bandito, uno scemo, un’idiota, un grand’uomo, un gran genio, un pensoso tra idioti o tra scemi, un terribile uomo, un solitario, di quelli che una volta morivano in disparte, [di quelli che] ancor usano morire solitari, od un povero folle, o un idiota lui stesso, morto come si usava, in solitudine, bandito da tutti, inseguito a sassate, come s’usa, un terribile uomo di scarse parole, quelli di un tempo, O forse era soltanto un contadino. L’ultima scelta di questa stesura sembra ricadere sulla forma un gran genio, mentre dalla prima pagina dei manoscritti di FE 5II.38 verrà ripresa la variante che resterà poi invariata, un grand’uomo, in accordo con l’intervento apportato nei versi di poco successivi che descrivono il secondo protagonista. La scelta ricade comunque sulle uniche forme dalla valenza positiva, oltre la quale forse si può scorgere una lieve allusione ironica, ma che si contrappongono nettamente alle altre fortemente connotate in maniera negativa o che richiamano ad una morte solitaria o precoce dietro la quale si può leggere un accenno autobiografico al padre dell’autore.
Nella seconda porzione di testo delimitata da parentesi quadra Pavese ha eliminato – come ha fatto anche subito dopo il primo verso – i riferimenti ai ricordi suscitati dalla passeggiata nei luoghi dei giochi d’infanzia e tratteggia il profilo del
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cugino con poche incertezze nella scelta delle “pennellate”: un grand’uomo (poi utilizzato invece per descrivere l’antenato) a cui viene preferito un gigante, che si muove leggero, aggettivo che forse l’autore ha sentito come troppo in antitesi col sostantivo e ha sostituito con pacato.
La terza parte della pagina è completamente depennata con righe orizzontali e verticali e anche la cospicua aggiunta che compare al suo margine sinistro è stata a sua volta eliminata. Il testo riguarda la composizione della prima metà di quella che diverrà la seconda strofa e concerne il discorso del cugino che lo invita a salire a Moncucco, la vetta più alta di tutte le Langhe, dalla quale si scorgono le luci di Torino nelle sere in cui il cielo è sereno. Si ritrovano tutti gli spunti che comporranno la prima parte della seconda strofa; ma sono presenti anche altri riferimenti che Pavese elimina, come il richiamo esplicito alla vetta più alta alla quale probabilmente è legato l’episodio raccontato nella lirica, ma che senza dubbio ha una valenza simbolica oltre che affettiva. Vengono espunti anche gli accenni alla distanza della meta della passeggiata, che deve essere molto vicina al paese: si fa presto, son due passi, in mezz’ora di strada, in cinque minuti, o il fatto che la strada sia stata aggiustata e spianata e che quindi risulti più dolce rispetto al ricordo d’infanzia. L’aggiunta rappresenta in realtà una rielaborazione posteriore alla prima stesura, si lega sintatticamente al verso precedente e insiste anch’essa su Moncucco, sul riflesso del faro di Torino, sulla residenza a Torino del poeta, ed accenna per la prima volta al fatto che il cugino non parli in italiano, e che si rivolga al poeta dicendogli “Tu che vieni da Torino”.
Il verso della pagina reca i primi otto versi, relativi alla seconda parte della seconda strofa, cancellati da linee trasversali e rielaborati nei successivi nove. Ma anche se riscritti i versi presentano spesso le stesse esitazioni dei precedenti, lasciando quasi intendere che talvolta la scelta è dolorosa, la rinuncia ad alcune parole pare un sacrificio. Sembra infatti che Pavese non sappia scegliere tra terre, idiomi, lingue, mare e oceani, e l’alternanza insistita si nota anche nell’aggettivazione tra diversi e lontani/e. Nella prima stesura, inoltre, l’autore avvicenda i sintagmi: placido e lento, / usa il dialetto, placido e lento, / adopera il dialetto, s’esprime nel dialetto, ha parlato nel dialetto, Non parla in italiano mio cugino, ma anche le parole delle greggi o parole / che vent’anni di lingue e di terre lontane / non gli han fatto scordare; mentre nella rielaborazione, conforme quasi in tutto alla versione pubblicata, mantiene non parla italiano, ma lo fa precedere da Tutto questo mi ha detto e recupera l’aggettivo lento del
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primo getto, ma sciolto dalla dittologia e posposto al verbo adopera preferito al più comune usa, forse perché il verbo ‘adoperare’ evoca l’idea di una certa maestria da artigiano e quindi anche una maggiore consapevolezza nella scelte linguistiche rispetto a quanto può indicare il verbo ‘usare’. Il poeta esita anche su rozzo, scabro, duro e forte per descrivere il dialetto che tanto assomiglia alle pietre o alle rocce delle sue colline e sulla scelta del verbo per indicare la resistenza del dialetto nonostante gli anni lontano dalla patria: non gli han fatto scordare, non gli han fatto perdere, non gliel’hanno nemmeno scalfito. In entrambi i casi sceglie la forma che più evoca il carattere duro e durevole della pietra: scabro e scalfito che si richiamano tra loro per allitterazione e sottolineano la forza del dialetto, lingua madre, che testimonia la tenacia delle radici che marcano indelebilmente l’identità.
Nell’ultima parte della pagina una riga orizzontale separa il resto del testo verosimilmente per segnalare l’inizio di una nuova strofa. I sei versi sono in gran parte cancellati e riportano diverse varianti, spesso a loro volta depennate, e in più punti la lettura è resa incerta. Sul lato sinistro in basso si trova una rilevante inserzione che sembra essere, come la precedente, un rifacimento dei versi accanto. Il testo rappresenta l’elaborazione dei primi cinque versi della seconda strofa della lirica pubblicata.
La terza carta (AP III.1.3)
Ho scelto di analizzare prima la carta siglata come AP III.1.3 e poi la carta che nel fascicolo la precede, AP III.1.2, perché la terza carta (AP III.1.3) è stata scritta con ogni probabilità prima della seconda. Infatti il recto mostra la composizione della seconda metà della seconda strofa ed il verso reca l’elaborazione della prima parte della terza strofa ad uno stadio precedente a quello riportato dalla carta del fascicolo che è stata catalogata come seconda. Sembra quindi verosimile che i due documenti, inventariati come AP III.1.2 e AP III.1.3, siano stati scambiati d’ordine, forse ad opera dell’autore o magari dei tanti che hanno messo mano all’archivio.
Il recto si presenta molto tormentato: due ampie porzioni di testo sono state eliminate, mentre su entrambi i margini, soprattutto su quello sinistro, si registra un gran lavorio che interessa alcune tematiche in particolare.
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Il primo verso della pagina mostra alcune esitazioni dell’autore, una prima formulazione (Un inverno era un pò prima ???1 guerra) è stata interamente cassata e sostituita da: Un inverno a mio padre, già morto, è arrivato un biglietto, poi modificato in arrivò un cartoncino. Il riferimento alla guerra (prima della guerra) viene sostituito dal tragico evento autobiografico (a mio padre, già morto): avvenimenti che hanno inciso entrambi fortemente sulla giovinezza dell’autore. Ma più avanti, quando lavorerà alla quarta strofa, Pavese agirà al contrario, eliminando gli accenni alla sua vicenda personale e recuperando il richiamo alla guerra che, come in questo caso, diverrà un discrimine temporale. Dopo il passaggio dalla storia collettiva a quella individuale vi è quello dal passato prossimo (è arrivato) al passato remoto (arrivò) che dilata la prospettiva, “allontanando” l’episodio, conferendogli una valenza simbolica di evento straordinario. La modifica si lega inoltre, per ragioni metriche, allo scambio del complemento oggetto (cartoncino per biglietto) avvenuto forse a seguito della composizione del sesto verso della pagina (che incomincia proprio citando il biglietto: che il biglietto veniva da un’isola).
Il secondo verso della carta riporta una variante riguardante il colore del francobollo della cartolina che da rossastro passa a verdastro (con un gran francobollo rossastro verdastro di navi in un porto).Dal terzo verso, in seguito alla modifica inerente agli auguri segnati sul cartoncino (ed auguri di buona vendemmia fortuna), comincia il gran lavorìo dell’autore intorno all’entusiasmo del protagonista bambino per il francobollo esotico, che prosegue anche sui margini del foglio. Dopo aver indugiato su Il bambino spiegò, l’autore ha preferito continuare il verso con Fu grande stupore e scrivere al verso successivo Il bambino spiegò avidamente, in un secondo momento cancellato e in un terzo recuperato (sul margine sinistro) con una piccola variante (Il bambino cresciuto spiegò avidamente). L’orgoglio e l’entusiasmo del ragazzo undicenne sono trasmesse anche dalle precedenti varianti, rimpiazzate da avidamente: con gioia, con gran gioia, con calore, che trovano un parallelo in alcune varianti espunte che accompagnavano l’impossessarsi del francobollo da parte del bambino tremante di gioia, vibrante di gioia. L’avverbio scelto in ultimo, avidamente, rispetto alle alternative scartate sottolinea, più che la gran felicità del ragazzino, una gran brama che si spiega sia con la voglia di partecipare alla discussione degli adulti, con l’orgoglio
1 La parola è illeggibile; a senso si potrebbe pensare alla preposizione articolata “della”, ma la
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di poter dare il suo parere e allo stesso tempo difendere e dar risalto alle imprese del cugino lontano, sia con l’ambizione di poter far suo quell’esempio, con l’intento di raccogliere più informazioni possibili, quasi che raccontasse e spiegasse a sé stesso più che agli altri l’incredibile storia del cugino.
Il testo prosegue poi delucidando la provenienza del biglietto con diverse variazioni sul tema: da un’isola detta Tasmania a sud dell’Australia, da un’isola / la Tasmania nel basso Pacifico [infido di, sostituito da percorso da, poi battuto da e infine] feroce di squali, da un’isola detta Tasmania / circondata da un paesaggio azzurro feroce di squali / nel Pacifico, a sud dell’Australia. Tra le alternative tese a conferire al Pacifico e poi al paesaggio azzurro un carattere minaccioso dovuto alla presenza degli squali l’ultima, che costituisce quasi un’enallage, è senza dubbio la più forte e la più densa di valenze, riprende il senso dell’“ostilità” del primo infido e lo amplifica, ma apporta un altro importante significato che sottolinea il carattere “selvaggio” dell’oceano, che è inospitale e addirittura “crudele” e “sanguinario”, ma proprio per questo resta affascinante e “fiero”, nel senso di ‘indomabile’. L’aggettivo feroce esercita quindi un doppia influenza sul lettore: spaventa e respinge, ma allo stesso tempo attrae e intriga, secondo la dinamica propria del sublime. Si unisce inoltre nell’ultima formulazione del periodo all’aggettivo azzurro completandolo per rappresentare un paesaggio incontaminato e luminoso, ma insidioso.
Pavese è più volte tentato di inserire subito dopo il gesto del bambino che si appropria del francobollo (staccò il francobollo o poi prese il francobollo) ma preferisce poi continuare il racconto e parlare di Torino come una parentesi che fa sì che si perdano le Langhe e il ricordo del cugino (Poi venimmo [cambiato in si venne] a Torino e scordarono tutti, Quando un anno finita la guerra tornai nelle Langhe, Poi venimmo a Torino e scordammo l’assente, Poi venimmo a Torino e raggiunsi i vent’anni, Eravamo a Torino. Finita la guerra); ogni verso in merito, però, non lo convince e verrà barrato.
La narrazione prosegue con il ritorno del protagonista al paese con molte varianti: un parente mi scrisse che, avendo io vent’anni, / era bello tornassi un’estate a vedere le Langhe poi modificato in a [trovare sostituito da:] vedere i parenti. E ancora Io ci venni a vedere la terra, o Io ci andai per vedere le Langhe / da tempo pensavo ai parenti, poi da tempo non pensavo ai parenti che probabilmente ha subito queste trasformazioni: Io non pensavo ai parenti, Non tornai sognando i parenti, Io pensavo ai
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miei alberi altissimi, ed infine Io sognavo i miei alberi altissimi. Il testo continua infatti da quest’ultimo verso [Io sognavo i miei alberi altissimi /] ritti e immobili in vetta a colline nel mezzo di campi o in vetta ai mieicollinel mezzo dei campi, cambiato in: in vetta a colline e solitari campi e ulteriormente trasformato con la soppressione del secondo emistichio. Il verso successivo comincia con altissimi, lasciando pensare che l’autore sia intervenuto due versi prima a cancellare il medesimo aggettivo (Io sognavo i miei alberi altissimi / ritti e immobili in vetta a colline / altissimi al ricordo. Io tornai nelle Langhe), ed è stato verosimilmente cassato subito in favore di: Ritornai nelle Langhe per sognarli, modificato in: E tornai nelle Langhe per vederli; ma vengono poi cancellati entrambi. Dal confronto tra le diverse formulazioni si nota il progressivo avvicendarsi del verbo ‘tornare’ e del verbo ‘venirci’, poi ‘andarci’, che si conclude infine con la riproposizione del verbo ‘tornare’, per cui al movimento lineare è stato preferito un moto circolare indicato dall’ultimo verbo. Un percorso analogo disegna l’alternarsi dei verbi vedere, pensare e sognare che termina col ripresentarsi del verbo vedere, ma, quasi sul finale, alla penultima formulazione (Ritornai nelle Langhe per sognarli) si registra un uso sinonimico dei verbi che in realtà presentano delle forti divergenze. Infatti vedere implica la compresenza dell’oggetto che si guarda, mentre gli altri due verbi comportano la lontananza dell’oggetto che si desidera, per cui nella penultima formulazione ci si aspetterebbe il primo verbo, che infatti figura nella successiva rielaborazione. La ciclicità che si nota nello sviluppo di questa porzione sembra dovuta alla ciclicità del processo che porta dalla visione e dall’esperienza vissuta al ricordo ed al sogno che a loro volta esprimono la necessità di ulteriori contatti sensoriali per poterne essere alimentati. Inoltre emerge una certa varietà nel richiamarsi del poeta alle sue amate Langhe, alle quali si succedono la terra e gli alberi che si oppongono all’unica forma per indicare i familiari: i parenti.
Il verso seguente si riallaccia anch’esso a quelli che descrivono il paesaggio collinare con gli alberi che si elevano in cima ai colli: e ai ritani profondi nei fianchi formosi, mutato in e ai ritani profondi tra le vigne, e poi tra i vigneti. Colpisce qui l’uso del sostantivo ritano per la sua rarità e per il suo profondo legame col paesaggio delle Langhe. Il termine indica, infatti, una valle profonda tra due colline e fittamente ricoperta di vegetazione.
L’ultima parte del testo che racconta l’incontro fortuito col cugino rientrato da poco in patria, che si configura quasi come un’epifania, è stata cassata in blocco, così
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come verrà eliminato ogni riferimento al fatto che il protagonista fosse più attaccato alle colline della sua infanzia piuttosto che alle persone e ai parenti.
Sul margine sinistro l’autore lavora per piccoli gruppi di versi, di cui il primo riprende l’elaborazione dalla fine del terzo verso della pagina e continua sino al quinto: [Un inverno a mio padre, già morto, arrivò un cartoncino / con un gran francobollo verdastro di navi in un porto / ed auguri di buona vendemmia] firmato Pavese. / Il