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ei primi articoli di questa serie ho discusso i dubbi scettici sollevati sui diversi settori del sapere e analizzato i principali tentativi di so- luzione messi in atto in passato che in età antica e mo- derna. Nell’ultimo articolo ho esaminato alcuni dei più importanti argomenti antiscettici contemporanei, e nel presente ne esporrò altri, sostenendo però che non han- no più successo dei precedenti.

Il trascendentalismo

C’è un’ormai antica e venerabile tradizione che ha cer- cato di sostenere che talune credenze sono in qualche modo inevitabili, o (con terminologia kantiana) “tra- scendentali”, e dunque non possono esser messe in dubbio dallo scettico. Per Kant, ad esempio, sono tali i principi di causalità e di persistenza della sostanza (pre- cedentemente messi in dubbio da Hume), nonché diversi altri principi base metafisici o scientifici, così come le verità della geometria euclidea e dell’aritmetica. Que- sti principi sono indubitabili perché senza di essi non potremmo nemmeno percepire e pensare le cose. Ciò tuttavia è stato smentito da molteplici sviluppi in filoso- fia e nella scienza, tra i quali la nascita delle geometrie non euclidee e le ben attestate violazioni del principio di causalità nella fisica contemporanea.

Secondo Strawson1 le credenze rigettate dallo scettico sono “trascendentali” in quanto costituiscono il nostro stesso schema concettuale. Senza di esse non si può nemmeno ragionare; pertanto il discorso scettico, che le nega, è un nonsenso. Eppure si potrebbe obiettare che l’ipotesi scettica non sembra affatto insensata, anzi è perfettamente comprensibile. Inoltre, anche ammesso che fosse per noi inevitabile assumere certe credenze, non ne conseguirebbe che esse siano vere.

Per Wittgenstein alcune credenze (ad esempio, che ogni uomo ha due genitori umani, o che i gatti non crescono sugli alberi) sono come cardini per tutto il resto: sen- za presupporle non puoi neanche porti altri problemi,

quindi non ha senso metterle in discussione. Egli osser- va che ogni giustificazione presuppone delle premesse, e il processo di giustificare le premesse deve avere un fine. Pertanto ci dovranno sempre essere delle credenze non giustificate: non importa quali siano, l’importante è che ce ne sia qualcuna (questa è dunque una forma di trascendentalismo liberalizzato, rispetto alle versioni che individuano come indubitabili certe credenze ben precise). Quali che siano queste credenze-cardine, pos- siamo pur sempre cercar di giustificare anche quelle, ma allora ne dovremo assumere altre senza giustificar- le. Lo scetticismo non ha senso perché pretenderebbe che giustificassimo tutto in una volta2. Forse si potrebbe immaginare che Moore, con la sua “prova”, intendesse qualcosa del genere: se è necessario credere certe cose senza poterle giustificare, tanto vale credere a cose ov- vie e banali, come il fatto che questa è una mano, e que- sta un’altra.

In forma leggermente diversa Wittgenstein osserva an- che che ci sono credenze tanto certe quanto una creden- za può aspirare a esserlo. Dunque, non le si potranno mai giustificare in base a credenze più certe, e dunque tanto vale rinunciare a giustificarle (lo si potrebbe con- siderare un trascendentalismo indebolito, in quanto non sostiene che le credenze “trascendentali” siano assolu- tamente certe, ma solo più certe di qualunque altra)3. Anche in questo caso, un naturale candidato al ruolo di credenze “più certe di qualunque altra” sono le credenze di Moore circa le proprie mani.

Dal punto di vista di Wittgenstein, dunque, la giustifica- zione è un processo che non fonda le nostre credenze su basi assolutamente certe, in modo che diventino certe a

1. P.F. Strawson, The Bounds of Sense, Methuen, London 1966; P.F. Straw-

son, Skepticism and Naturalism: Some Varieties, Methuen, London and Co- lumbia University Press, New York 1985.

2. L. Wittgenstein, On Certainty, Basil Blackwell, Oxford 1969, trad. it. Del-

la Certezza, Einaudi, Torino 1978.

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loro volta, ma che le ordina in una gerarchia di creden- ze più o meno certe. Questa gerarchia però può essere rovesciata, sicché in un contesto vale una gerarchia e in un altro ne vale una diversa: nessuna credenza è certa o trascendentale in assoluto.

A Wittgenstein si ispira anche la versione più recente (e indebolita) di trascendentalismo, quella di Crispin Wright. Anzitutto egli sostiene che vi sono proposizio- ni “non fattuali”: per esempio, supponiamo di aver due scatole sigillate, identiche e dello stesso peso, in una delle quali c’è uno scarabeo egizio, mentre nell’altra c’è un sassolino; ma se vengono aperte il loro contenuto si volatilizza all’istante. A questo punto la proposizione “In questa scatola c’è lo scarabeo” non è fattuale, per- ché nessuno saprebbe come scegliere la scatola giusta, e non si potrebbe nemmeno aver l’intenzione di scegliere quella giusta. Egli poi sostiene che quando una propo- sizione è non fattuale può essere razionale accettarla come vera, anche senza crederla4.

In particolare, Wright argomenta che abbiamo una “giu- stificazione di default” per accettare come vera (anche senza crederla) una proposizione P quando

(i) P è presupposta da un importante “progetto cognitivo” (cioè, da credenze per noi fondamentali),

(ii) non abbiamo ragioni di credere che P sia falsa, e (iii) per giustificarla dovremmo andare all’infinito, o accet- tare presupposti ancor meno solidi di P allora abbiamo una giustificazione di default per accettare P come vera (ma non per credere).

Inoltre, secondo Wright, le proposizioni che non sto so-

gnando (in breve, SS), o non sono ingannato dal demone

(IdD) o non sono un cervello in vaschetta (CiV), sono precisamente di questo tipo5. Una volta accettate queste come vere, esse possono fungere da giustificazione per proposizioni come quella che ho due mani e per tutte le proposizioni del senso comune, che possono dunque esser considerate come conoscenze a tutti gli effetti. Si comprende immediatamente come questo sia un tra- scendentalismo estremamente indebolito; in effetti, come Wright stesso riconosce, egli dà al problema scettico una soluzione di tipo scettico: non dimostra affatto che le pro- posizioni che non SS, che non sono IdD o non sono un CiV, ecc. sono vere, ma semplicemente che è razionale presupporle6. Inoltre, Wright ammette che tesi “ontologi- che” come l’esistenza di un mondo esterno, di altre menti, o di una storia passata, non soddisfano la condizione (ii), quindi non possono esser nemmeno accettate. Come la strategia delle alternative rilevanti e quella contestualista7, dunque, anche la sua si limita a sostenere che possiamo avere conoscenze di tipo ordinario, concedendo allo scet- tico che non possiamo averne di tipo filosofico-metafisico.

Oltre a questi limiti, poi, la soluzione di Wright presen- ta diversi problemi. Anzitutto, la tesi che proposizioni come “In questa scatola c’è lo scarabeo” non sono fat- tuali ricorda da vicino le concezioni verificazionistiche e pragmatistiche del significato, che oggi non abbiamo più motivi di accettare: che esista o non esista lo scara- beo (così come il mondo esterno, o le altre menti, ...) è un fatto, ed è quanto le rispettive proposizioni asserisco- no, nonostante non faccia alcuna differenza epistemica o pratica.

Inoltre, Wright sembra decisamente cercare un compro- messo impossibile: non riesce a dimostrare che possiamo

credere le proposizioni poste in dubbio dallo scettico, ma

se sostenesse solo che possiamo accettarle non si disco- sterebbe in nulla dagli scettici. Come si è visto, infatti, gli scettici seguono le apparenze (ad esempio, l’apparenza

4. C. Wright, Facts and Certainty, in «Proceedings of the British Academy»,

LXXI (1986), pp. 429-472, trad. it. parziale Fatti e certezza, in C. Calabi - A. Coliva - A. Sereni - G. Volpe (a cura di), Teorie della conoscenza, Cortina, Milano 2015, pp. 338-341.

5. C. Wright, Warrant for Nothing (and Foundations for Free)?, in «Pro-

ceedings of the Aristotelian Society Supplementary Volume», LXXVIII, 1 (2004), pp. 167-212, trad. it. parziale Giustificazione di default (e fondamenti gratis)? in C. Calabi - A. Coliva - A. Sereni - G. Volpe (a cura di), Teorie della conoscenza, Cortina, Milano 2015, pp. 358-361.

6. Ibi, p. 366.

7. Vedi M. Alai, La “prova” di Moore e altri argomenti antiscettici contem-

poranei, in «Nuova Secondaria», XXXV, 11, 2018, ISSN 1828-4582, §§ 3-4.

Il filosofo statunitense Donald Davidson (Springfield 1917 – Berkeley 2003), uno dei massimi teorici della teoria analitica

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che (P) il pane sfama e (Q) l’acqua disseta)8; ma ciò equi- vale a dire che essi accettano (P) e (Q) anche senza cre- derle. Sembra dunque che proprio per distinguersi da loro Wright parli di “accettare come vero” e non semplice- mente di accettare. Ma non è affatto chiaro che differenza vi sia tra credere una proposizione e accettarla come vera. Infine, nella misura in cui Wright parla di accettare

come vere le proposizioni trascendentali, condivide

quello che è forse il problema fondamentale di tutte le forme di trascendentalismo: il fatto che tali proposizioni siano in qualche modo inevitabili, non dice nulla circa la loro verità.