Un elemento, spesso ignorato, da tenere in considera- zione è relativo alle fonti. Il medesimo motivo del pri- mo coro si ritrova svolto, in termini piuttosto vicini, in più di un testo comico del Cinquecento: in due capito- li burleschi di Giovanni Mauro in biasimo dell’onore, stampati nel 1548 e poi più volte in seguito nelle edizio- ni giuntine di Berni e dei rimatori burleschi; nel Ven-
demmiatore di Luigi Tansillo, un noto poemetto osceno;
nonché in un sonetto della Priapea di Nicolò Franco, il cui incipit recita proprio «O bella età dell’oro»; bel- lo, cioè, quel tempo in cui le donne si mostravano nude senza pudori e il godimento sessuale era a portata di mano, senza l’ostacolo delle leggi imposte dall’onore. Il dato, per certi versi, è sorprendente, perché quella che è sempre stata considerata una pagina elegiaca, legata alle particolari caratteristiche psicologiche di Tasso, si scopre costruita in buona parte con materiali giocosi. È indubbio, tuttavia, che il tema, che pure è il medesi- mo, viene riproposto nell’Aminta in chiave non ridicola, ma seria, per quanto non grave (cioè senza gravitas), e che offre all’autore l’occasione per alcune riflessioni. Si rende dunque necessario esaminare il coro all’interno dell’intera vicenda rappresentata.
La pastorale tassiana inscena, come è noto, l’amore in- felice di Aminta per la ninfa Silvia, che lo rifiuta perché devota a Diana e dedita esclusivamente alla caccia: inuti- li risultano i tentativi di conciliazione dei consiglieri dei due giovani, Tirsi e Dafne. Un satiro tenta di violentare la ninfa, ma viene messo in fuga da Aminta; Silvia però, una volta liberata, fugge senza nemmeno ringraziarlo. Il lieto fine è reso possibile da due credute morti: dapprima Aminta ritiene a torto che Silvia sia stata divorata dai lupi, e tenta il suicidio gettandosi da una rupe; ella, a sua volta, reputa morto il giovane e si pente della propria durezza, aprendosi finalmente all’amore. La latitudine concettuale dell’Aminta appare delimitata da una serie di opposizioni: natura vs cultura, istinto vs ragione, amore vs onore, prin- cipio di piacere vs principio di realtà. All’interno di que- sto campo, l’interrogativo centrale riguarda la possibilità o meno di tenere un comportamento improntato esclusi- vamente alla natura, in linea con l’aspirazione espressa dal coro del primo atto. L’intervento del coro è però subito seguito, in apertura dell’atto successivo, dal soliloquio del Satiro, che ne mette in crisi la validità. Questi infatti, pur mantenendo in parte le caratteristiche ferine attribuite ai suoi simili dalla letteratura bucolica antica e moder- na, mostra anche di essere, a suo modo, «loico», mentre ripercorre da vicino l’argomentazione di un epigramma ellenistico per ricavarne un suggerimento per sé (vv. 795- 803): la natura ha dato a ciascun essere armi da usare a
L’Aminta è una favola pastorale, composta da Torquato Tasso nel 1573.
S
tudiproprio vantaggio nello struggle for life, agli animali zan- ne, artigli e corsa, agli uomini l’intelligenza, alle donne la bellezza; e quindi, conclude il Satiro, anch’io posso usare «per mia salute» la forza e la velocità, perché la natura così mi ha fatto. Il che significa, tradotto in pratica, che egli ritiene legittimo andare al fonte e prendere con la vio- lenza Silvia, oggetto del suo desiderio. Ma con ciò si svela la contraddizione insita nelle parole del coro, in quanto il Satiro si propone esattamente di aderire alla legge di na- tura, e la sua è una riflessione in apparenza coerente, che sfocia tuttavia in una conclusione inaccettabile dal punto di vista etico. Quanto va bene per gli animali, insomma (e forse anche per i satiri), non in tutti i casi può applicar- si agli esseri umani; e infatti non potrà andare bene per Aminta, che Dafne e Tirsi vorrebbero indurre al medesi- mo comportamento del Satiro. Ciò apre la questione del valore da attribuire all’esaltazione della legge naturale da parte del coro, che a questo punto sembra corretto legge- re, rispetto all’opera nel suo complesso, non come la tesi da dimostrare, bensì come un’ipotesi, che lo svolgimento successivo della vicenda si incaricherà di smentire.
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Tasso T., Aminta, a cura di Marco Corradini, Bur, Milano 2015.
Nella pastorale tassiana i due giovani protagonisti sono spesso presentati in termini speculari, al di là della dif- ferenza di fondo per cui Aminta è innamorato di Sil- via, mentre Silvia rifiuta l’amore. Il punto di partenza di Aminta è la cupido, quello di Silvia la pudicitia: ma entrambi questi elementi, se vengono assolutizzati e non assumono in sé anche il principio opposto, rischiano di corrompersi. La cupido, non temperata dal rispetto dell’altro, diventa pura volontà di possesso; non ricono- sce l’altro come individuo altro da sé, ma lo considera soltanto come strumento di soddisfazione dei propri bi- sogni, e per questo ‘distrugge’ la sua soggettività: il tipo di relazione che un filosofo del Novecento, Martin Bu- ber, definisce Io – Esso, distinta dalla relazione Io – Tu. Il tentativo che Aminta vede operare dal Satiro, il quale ha fatto prigioniera Silvia e sta per violentarla, mostra al pastore le potenzialità distruttive della libido, che egli avverte anche dentro di sé. All’opposto, sul versante di Silvia, la pudicitia, quando rimane esclusivo amore di sé e non si apre all’altro, finisce per degenerare in crudeltà, e la ninfa se ne rende conto nel momento in cui viene a sa- pere che Aminta si è ucciso per amore suo. Per entrambi i protagonisti, perciò, si compie un’educazione sentimen- tale, sullo sfondo di un passaggio dall’adolescenza all’età adulta, che li conduce a una nuova e matura concezione dell’amore: non più un eros soltanto fruitivo, desiderato o rifiutato, ma un amore oblativo, che si realizza nel dono di sé e nella dedizione. Solo la scoperta del “Tu”, nella terminologia di Buber, permette l’approdo alla reciproci- tà amorosa autentica, che è l’esito della vicenda messa in scena nell’Aminta. È una parabola, questa, perfettamente coerente con i romanzi amorosi della Liberata: nella sto- ria di Tancredi e Clorinda il riconoscimento dell’altro se- gue la distruzione, in quella di Rinaldo e Armida la evita. Marco Corradini Università Cattolica